Dicembre 2000

CONSEGNE PER UN SECOLO BLASFEMO

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L’elogio della parola
Gino Pisanò  
 
 

 

 

La rapidità della
parola poetica
prescinde dalle
coordinate del tempo e dello spazio reali, prescinde dai nodi della logica, della dialettica, della causalità.

 

Nel galileiano Dialogo dei massimi sistemi, Sagredo, intervenendo nello scontro dialettico fra il tolemaico Simplicio e il copernicano Salviati, oppone al metodo rigoroso e analitico di quest’ultimo il suo discorso. Questo è fondato su procedimenti analogico-associativi incoercibili nella dimensione del logos (inteso come ordine espositivo organizzato intorno alle categorie della logica serrata interna al binomio causa-effetto) e riducibili, invece, alla dimensione del logos come parola, ossia (cito da Italo Calvino, Lezioni americane) come «ragionamento istantaneo, senza passaggi», speculare a quello della mente divina, «infinitamente superiore a quella umana», epifanizzata dalla parola, il Verbo che diventa carne e si oggettiva nel messaggio e nell’esempio del Cristo.
La parola sistematica, epperò dialettica, era stata lo strumento della maieutica di Socrate, la parola come epos apollineo e dionisiaco era stata il veicolo della paideia omerica e poi tragica, la parola come mythos era stata l’enzima dell’antica teologia olimpica, fondando, per bocca dei bestioni vichiani, mediante quel procedimento analogico-associativo ripreso, a partire da Baudelaire, dai poeti simbolisti, il primo edificio della poesia che raggiunge nell’Iliade e nella Bibbia vette finora, forse, inattinte.
La parola, dunque, come fondamento del mondo: la parola-mythos; la poesia e le religioni; parola-logos, il diritto e la filosofia, comprese, in essa, la logica, la matematica, l’economia, la scienza. Ma non a quest’ultimo statuto del verbo, bensì al primo, mitico e velocissimo, analogico e associativo della parola creatrice, e perciò poetica, rimandano i pensieri di Sagredo: «Ma sopra tutte le invenzioni stupende, qual eminenza di mente fu quella di colui che s’immaginò di trovar modo di comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo? parlare con quelli che son nelle Indie, parlare a quelli, parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille a dieci mila anni? e con qual facilità».

Queste riflessioni galileiane sembrano quant’altre mai profetiche, se le rapportiamo alla dimensione antropologica che tutti noi investe alle soglie del nuovo millennio. Ma occorre distinguere, e in quest’ordine ci soccorre un assioma di Italo Calvino: «[...] in un’epoca in cui altri media velocissimi e di estesissimo raggio trionfano e rischiano di appiattire ogni comunicazione in una crosta uniforme e omogenea, la funzione della letteratura è la comunicazione tra ciò che è diverso in quanto è diverso, non ottundendone, bensì esaltandone la differenza [...]. Nella vita pratica il tempo è una ricchezza di cui siamo avari, in letteratura, il tempo è una ricchezza di cui disporre con agio e distacco [...]». La rapidità della parola poetica prescinde dalle coordinate del tempo e dello spazio reali, prescinde dai nodi della logica, della dialettica, della causalità e brucia nella sintesi e nel sincronico distanze cronologiche, associando e “divagando”, come accade nell’universo simbolico dei poeti primitivi (ce lo insegna il Vico, ma ancor prima di lui Kebes, il tebano, nel platonico Fedone) e nell’universo poetico dei fanciulli, anzi, dei “fanciullini”, dei visionari e dei profeti, veggenti e ciechi, forti solo e soltanto della parola che di-vaga e si aggira nei labirinti dell’io e formula quel linguaggio dell’interiorità che da Socrate ad Agostino ad Heidegger è giunto fino a noi e giungerà nei secoli venturi a quanti cercheranno in interiore la verità. Che essa sia inferno o cielo, poco importa, diceva Baudelaire. Donde quella che vorrei chiamare la retorica della digressione. Si pensi a Sterne e a Diderot, ma anche a Calvino: «La divagazione o digressione è una strategia [...], una moltiplicazione del tempo all’interno dell’opera, una fuga perpetua [...] dalla morte». Parola, dunque, come scoperta, come annuncio, come vita. Trilogia tutta cristiana nella quale sembra riassumersi la scelta che Francesco Rausa ha fatto, intitolando questo suo libro postremo, ma non ultimo, Duemila, parola.
Se la funzione della letteratura, in quanto comunicazione letteraria con un suo specifico sistema di segni, è quella di sollevare il materiale (ossia il tempo della realtà) nell’immaginario, di metaforizzare il mondo della storia in mondo possibile (la formula è di Lubomir Dolezel, Heterocosmica. Fiction e mondi possibili, recentemente edito da Bompiani, 1999), di trasformare un luogo reale in luogo mentale per universalizzare il messaggio di verità che essa veicola, calandosi nella polis, nella società, nella storia epocale per poi librarsi nelle regioni del metatemporale e dell’assoluto; se funzione dell’intellettuale è quella di agire, attraverso la parola, sulla società per modificarla, per imporre i propri modelli culturali, il proprio sistema di valori, i propri linguaggi, ebbene io credo, in tutta umiltà, che Francesco Rausa abbia assolto compiutamente a tale funzione, offrendoci un testo che ci consente di risalire al poeta Rausa (anche quando la parola da mythos tenta di farsi logos) e dal poeta all’uomo, ossia all’autore storico con le sue ragioni (diceva Macrì), quelle del “sangue e dell’istinto”, e dall’uomo a questo nostro tempo (meccanico e tecnologico) per distanziarci da esso, e dal tempo al Millennio che muore e che trova nelle oltre duecento pagine una sorta di gigantesca summa del pensiero occidentale, quasi una consegna, un viatico per le generazioni future.

Ma qual è la struttura “fisica” e, ovviamente, formale e ideologica dell’opera di Francesco Rausa?
Trattasi, per riferirci al genere letterario, di un prosimetro, ossia di un’associazione di prosa e versi. Genere antichissimo che ha i suoi antecedenti nella satira menippea del mondo classico, inventore Menippo di Gadara, esemplata da Varrone Reatino, ma soprattutto dall’Apokolokyntòsis di Seneca, dal Satyricon di Petronio e via via, in età medievale, dai prosimetri di Boezio (De consolatione philosophiae) e di Dante (La vita nuova), fino alle più note espressioni del nostro Novecento, penso soprattutto ai Canti Orfici (1914) di Dino Campana.
La stessa struttura del macrotesto è semantica del carattere, della personalità vulcanica, inquieta, tormentata dell’autore, insofferente nei confronti di una disciplina espositiva rigorosamente sistematica e metodica, obbediente, invece, alle pulsioni magmatiche e vertiginose dell’intelletto e del cuore, le quali si polarizzano e si giustificano nel nome e nel segno di quel élan vital di bergsoniana memoria, rappresentando, nell’ottica del filosofo spiritualista francese, una delle sorgenti (se non la sorgente per eccellenza) del misticismo e della religione. Insofferenza incoercibile, dicevo, e irrefrenabile, che non conosce i limiti dello spazio e del tempo quotidiani, organizzandosi intorno al solo baricentro della agostiniana distentio animi, la quale si materializza nel grande affresco di una parola che transita dall’antico al nuovo con assoluta libertà di associazione nell’ordine dei valori e delle idee. Libertà possibile solo nella sfera dell’arte, come ho detto in precedenza, libertà che è dono o conquista dello spirito capace di comprendere in una grande, michelangiolesca epitome spiritualistica la proteiforme insorgenza del pensiero umano nelle sue manifestazioni storiche e positive, rivisitate, però, alla luce dell’esperienza cristiana. Da qui i colpi d’ala di Francesco Rausa, i voli pindarici, la riduzione del diacronico nel sincronico che solo la parola poetica può realizzare ad onta del linguaggio della scienza o della filosofia. E la parola di Francesco Rausa si annuncia come espressione di un ascolto ora sgomento, ora fideistico, dell’io, in preda a un’ansia metafisica fondata sull’attesa di una nuova parusia, pentecostale luce salvifica che respinga le tenebre del nichilismo e della morte di Dio, sulla quale l’uomo del Novecento ha costruito il suo dramma e la sua ultima luciferina caduta.

Questo il senso complessivo dell’opera di Rausa, la cui irrequietezza interiore si drammatizza non solo nel binomio prosa-versi, ma anche all’interno degli istituti metrici che, nell’ordine della poesia, compaginano la parola poetica: polimetria, anisosillabismo, versi liberi e spezzati (penso ai frequenti endecasillabi a scalino), timbri melici di alta intensità (cui concorrono rime ora baciate, ora interne, ora diasporizzate eslege nel testo, enjambements, rime piane, aperte e facili) cui corrispondono, spesso, registri tonali e cifre stilistiche alternative, coerenti con un pensiero poetante non più liricizzato, ma oggettivato in grazia del ricorso all’ascolto dei drammi della vita.
Un Rausa lirico, dunque, mistico, assorto nella contemplazione del divino nel sensibile (parole-chiave, in questo senso, luce, spirito, verità, parola, bellezza, assoluto), erede ed epigono dello spiritualismo di Agostino, di Pascal, di Bergson, di Maritain, di Teilhard de Chardin, di Claudel (per quella sua poésie-prière), di Comi, accanto a un Rausa antropologo, pensatore eclettico, apologetico, che polemizza contro il Novecento blasfemo (come egli più volte ha scritto) e coglie nel linguaggio associativo, analogico, sincretico dell’arte e della speculazione universali le spore del suo neoumanesimo integrale.
Il Rausa pensatore può apparire rapsodico, magmatico, compilatore di una lanx satura che a prima vista può sembrare un pot-pourri, uno zibaldone di pensieri. Ma è proprio tale carattere asistematico della sua enquête, della sua ricerca del bene, del bello, del vero, a rendere fascinoso e intrigante il tessuto ideologico. Scriveva Bergson: «Per un essere cosciente, esistere significa mutare, mutare significa maturarsi, maturarsi significa creare infinitamente se stesso».
In questa mutevole sintassi verbale e contenutistica il segno più marcato dell’uomo Rausa. Con Maritain, egli intende annunciare, in Duemila, Parola, che il punto centrale della sua visione del mondo è l’uomo nella sua globalità, è l’uomo nella sua contraddizione di finito e infinito, donde il maritainiano trinomio (anima segreta e sintesi del libro): persona-comunità-Cristo, il teilhardiano punto Omega, l’incorporazione dell’umanità in Lui, Coscienza e Persona infinita che fonda e dà senso a tutte le coscienze e persone finite. Donde il teorema che mi sembra emergere da alcune liriche di Francesco Rausa: Parola come incarnazione dello Spirito assoluto, Verbo che si epifanizza nel perenne divenire della storia e dell’arte. Da qui, ricordando Comi, l’identità fra stato di grazia poetico e stato di grazia spirituale. Parola – Duemila: nesso analogico che postula ascolto e tempo, ascolto nuovo e tempo nuovo. Parola poetica come annuncio e rivelazione, ossia testimonianza e responsabilità del poeta, ufficio duplice che perora la sua condizione di credente e di uomo impegnato fra gli uomini. Impegno civile, passione politica, religiosità, arte sono tutt’uno. Come nel grande poeta della Commedia, così nel piccolo suo epigono del Novecento.

Tramite della rivelazione è il Cristo-logos, Parola per eccellenza, consustanziale alla condizione stessa dell’uomo, perciò, a dirla con Karl Rahner (il maggior teologo del Concilio Vaticano II, allievo di Heidegger), udibile: «La cristologia è l’inizio e la fine dell’antropologia e questa antropologia è in eterno teologia» che si rivela attraverso la parola.
Parola, dunque, veicolo di grazia per chi sappia ascoltarla.
Questo mi sembra l’epicentro tematico che compagina i disiecta membra del libro, ossia ne circoscrive e delimita l’apparente natura silvatica e rapsodica. Tutto ciò convoca, a dispetto della scienza e dei sistemi, il carattere extrametodico dell’arte, quindi della poesia, donde il ben noto titolo di un’opera straordinaria di Hans Gadamer, Verità e metodo, titolo semantico di una bipolarità diadica, non risolvibile al di fuori del circolo ermeneutico che recupera la storia, tutta la storia passata, come condizione senza la quale è impossibile la conoscenza, che, invece, si pone come «movimento di reciproca e progressiva sintonizzazione tra soggetto e oggetto», sicché l’uomo non può collocarsi fuori dalla tradizione perché essa è parte integrante della sostanza storica del suo esserci. Fusione resa possibile non in forza del nesso metodico, ma in grazia di quel nesso vivente fra antico e nuovo che è la tradizione storica.

La poesia, dunque, in quanto parola per eccellenza è sempre un incontro con la verità e con l’esperienza dell’arte che rinnova e perfeziona chi la esperisce.
«Ogni incontro con il linguaggio dell’arte [scrive Gadamer] è un incontro con un evento non conchiuso ed è esso stesso parte di questo evento».
La parola di Francesco Rausa è, per dirla con Petrarca, volto della sua anima: ora vulcanica e magmatica, ora lirica e musicale, essa rappresenta il terreno tutto interiore in cui vorticano Erlebnis e impegno civile, preghiera e filosofia, razionalità e pathos, impeto e memoria, parenesi e misticismo, linguaggio dell’interiorità ed eziologia, cultura ed erudizione, umanismo e teologia, pluralità (plurivocità della tradizione, della storia) e singolarità irripetibile e unica dell’io. Donde i periodi, sia nella prosa che nei versi, dalle ampie volute, quasi arcate gotiche che congiungono passato e presente con vertiginose insorgenze analogiche e extrametodiche, donde la cifra di libro-cattedrale, di medievale speculum o summa, come è dato rilevare considerando le fonti da lui citate in esergo a ogni suo scritto (quasi un libro nel libro), semantiche di letture oceaniche e sterminate.
Esse vanno dalle scritture vetero e neotestamentarie alle letterature greca, latina, italiana, europea, dalla filosofia alla teologia (i Padri della Chiesa), dall’estetica, all’etica, alla musicologia, all’arte figurativa intesa come epifania dello Spirito e come occasione per sviluppare, nell’io interpretante, il canovaccio del pensiero.
Pensieri e parole sono organizzati dall’autore in un trittico che ha in sé le stimmate di un viaggio in interiore: Folgori, Cammino, Profezia, lessemi apparentemente scevri di rapporto fra loro, ma semantici, invece, di un processo che parte dalla Luce (la Parola dei profeti e dei Santi, la Verità rivelata) per irradiare il cammino dell’uomo nel nuovo millennio, auspice e guida la profezia di una palingenesi cui soltanto la parola potrà dare compimento.

   
   
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