Dicembre 2000

PER LE POESIE DI FRANCESCO RAUSA

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Epifania della
preghiera difficile
a. b.  
 
 

 

 

 

 

La televisione
ha colmato in qualche modo i vuoti sociali, ha sostituito
i “rosari” che
appartenevano alla società patriarcale
e contadina.

 
  Oh, parla, parla soltanto,
rivestici della tua Parola.
E noi saremo tua Voce di collina in collina,
d’oceano in oceano, di continente in continente,
dall’una all’altra terra, da una razza all’altra...:
nient’altro che respiro della tua Voce, Signore.

E’ la voce dei pentecostali americani, che affascinano e inquietano cattolici e protestanti. E’ la parola di chi ritiene di non saper più pregare. Di chi partecipa, dolorosamente, a una condizione di crisi: quella dell’uomo che passa a un’epoca della propria vita in cui, crescendo la sfera e l’esigenza dell’autonomia, intuisce che c’è un diverso modo di amare e di essere amati, ma non riesce ancora a coglierne le possibili espressioni, il nuovo linguaggio. E’ una crisi come passaggio, crescita, maturazione. E per chi accetti questa ipotesi, questo senso di esclusione e questa sofferenza, si profilano altrettanti segni di speranza: che sono l’espressione del dolore necessario a una più consapevole inserzione nell’ambiente spirituale in cui l’uomo attinge alla piena ricchezza spirituale. Voglio dire alla “nuova alleanza” fra Dio e il suo popolo.
A questo risultato di non catastroficità mi pare si possa giungere non solo per via di fede, ma anche di riflessione. Esaminando in dettaglio, cioè, le cause più specifiche della crisi della preghiera. Quali sono?
Innanzitutto, l’approdo ad una civiltà nuova, nella quale lo sviluppo dei mezzi di comunicazione sociale e delle tecniche di utilizzazione della psicologia del profondo ha prodotto, insieme con meravigliose realtà, conseguenze spaventose. Mai come oggi intorno all’uomo si sono moltiplicati appelli contraddittori, con tutto l’impeto che gli esperti in manipolazione dei comportamenti umani sanno scatenare. Cresce, anche in termini di decibel, il frastuono intorno a noi; il mito dell’efficienza e della felicità legate all’effimero possesso di cose ci ha plagiato, i nostri giorni si sono fatti più affannosi, le pause di silenzio più rare. Esistono un’ecologia e un ecocidio anche per quanto riguarda la riflessione. Ha scritto Sinjavskij: «Abbiamo moltiplicato il rumore e riempito tutto di noi stessi. Dopodiché ci meravigliamo che il Signore non si manifesti».
Viviamo in un modo che quasi impone l’idea che noi abbiamo paura di rimanere soli davanti a noi stessi: il ritmo disteso di una lunga preghiera ci appare semplicemente follia. La televisione ha colmato in qualche modo i vuoti sociali, ha sostituito i “rosari” che appartenevano alla società patriarcale e contadina in cui le stagioni si avvicendavano lentamente, proprio come i “misteri” e le “decine” che ci coinvolgevano nelle sere accanto al focolare, proprio come le “devozioni” per le ricorrenze di festività locali, di quartiere e di vicolo, con tutto il loro mondo gentile che ci ridà, nel ricordo, il profumo della nostra infanzia.
Era fatale che accadesse. Di pari passo col progresso, la secolarizzazione sembra averci liberato dall’immagine di quello che Bonhoeffer ha definito «il Dio tappabuchi», cioè il Creatore chiamato in causa per supplire ogni nostra incapacità di trovare spiegazioni razionali, e sembra aver rivalutato l’importanza della scienza e dell’iniziativa dell’uomo, rendendoci più difficile – quando non l’ha strangolata – la preghiera.
Infine, (e mi riferisco ai giovani, in particolare), la nostra società ha tentato di determinare la caduta dei miti parentali. E’ stato scritto che andiamo verso una «società senza padri», nella quale il “Dio Padre” non ha diritto di cittadinanza, se non in nome di un “paternalismo” oppressivo e spregevole. E quest’ultima notazione è come la punta affiorante di un iceberg che sotto il pelo dell’acqua cela l’insidia di uno zoccolo più grande e micidiale: e cioè il fatto che, sempre più inflazionate, le parole appaiono equivoche, e tutte da reinventare quelle che adoperiamo nei rapporti essenziali.

Proprio perché conveniamo su queste cause, non possiamo non constatare che non muore in noi la nostalgia di una realtà più grande dei nostri limiti. Del resto, è sufficiente riflettere sui fenomeni sociali oggi più vistosi, e spesso banali e regressivi, (il ricorso alla magia, all’occultismo, alle discipline yoga o zen, agli psicofarmaci o alle droghe, alla metapsichica, agli oscuri rituali delle sette, ecc.), per rendercene conto: non si tratta solo di tentativi di mettere ordine in noi e di allargare la sfera delle nostre conoscenze ed esperienze, ma anche di dare sbocco a una sofferenza, (nei casi citati, confusa o autodistruttiva, comunque sottoculturale) per una drastica amputazione, quella operata nella nostra personalità da un razionalismo che troppe volte è più cerebrale superbia che crescita culturale.
Abbiamo bisogno, dunque, della preghiera individuale. Anche se Cristo ci è stato dato perché diventassimo una famiglia, Dio ama non solo il suo popolo, ma anche ogni singolo uomo. Persino quando sembra non risponderci, cioè quando la preghiera è “monologo”: perché una parte di noi (il mistero che è dentro di noi) sa che l’apparente silenzio di Dio non basta ad esimerci dalla preghiera, come la lontananza dalla persona amata non interrompe il nostro dialogo con lei. Nel Diario di Gusen (forse il più bel libro d’amore scritto nel corso dell’ultimo conflitto mondiale), troviamo un esempio straordinario di come un dialogo fra lontani possa approfondirsi. Nell’orrendo lager nazista, Aldo Carpi – grande pittore e altrettanto grande cristiano – conversa con la moglie, Maria, dalla quale lo separano migliaia di chilometri, arricchisce il legame d’amore filtrando le proprie terribili esperienze attraverso l’affetto che porta a lei, e a lei affida le sue disperate speranze di non diventare un relitto umano, nonostante l’inferno che lo circonda.

Scrive il monaco Bernard Besret: «Un amore verso qualcuno io lo devo esprimere, se voglio nutrirlo. Mi è necessario esprimere quello che sono, per esserlo ancora di più... Così si spiega nella mia esistenza il bisogno di esprimere (e questa è la preghiera) la mia fede, di esprimere la mia speranza, di esprimere il mio amore: per avere più fede, per crescere nella speranza, per lasciarmi trasfigurare da questa speranza; per lasciarmi bruciare da questo amore, per lasciarmi trasformare da questo amore...». E’ la preghiera come pedagogia dell’essere, pedagogia dell’essere di più: così che quando io prego la mia preghiera non arriva come qualcosa di estraneo alla mia vita, ma come una «coscientizzazione della mia vita». L’amore umano ha come risultato esistenziale il passaggio dal soliloquio al dialogo. Allo stesso modo, la preghiera (detta, ma anche ascoltata) è il rischio di un cambiamento di noi, dentro di noi, che possiamo esser presi dalla trama avvolgente della «voce che parla nel silenzio», forando anche la parte più blindata del nostro essere. L’evento è il coraggio di correre questo rischio; di non respingerlo a priori per ipocrisia intellettuale e per atteggiamento irrazionale; di non aver timore di dichiararsene vinti, quando questo accada.
Leggo, di Francesco Rausa, ispiratore di queste mie note:

  Chi è savio nelle logiche inumane
senza canto e speranza? All’inquieto mortale
basti nell’umiltà quel tacito pregare
tra le fatiche e il sonno, o l’esser pazzo
se aggrada, nei riposi di Orazio
ormai bimillenario, che tenero sorride
in pagine serene fra domestici inviti.
Lì, sulla Croce poi di Cristo la stoltezza
vertigine d’amore e di passione
ci rifaccia innocenti, ci rischiari
questa terra fra gli urli inabissata.
Folleggia pure Eterno, in FUOCO-AMORE!

I versi sono in Duemila/Dramma, preludio a Duemila/Parola, prima e seconda parte di una trilogia che sarà conclusa da Duemi-la/Luce. Poesia, non teologia in versi. Sapiente modulazione di pensieri, suggestioni, messaggi, riflessioni, emozioni che accordano la fede con le ragioni dell’arte; versi attraversati da un’incontenibile vena spirituale (e umana) appassionante, non di rado provocatoria («...quegli spirituals, proprio i nuovi Salmi / di chi fu schiavo e tale si trascina / per questo nostro tempo senza Dio senza poesia...»), di «ascolto della coscienza, di riflessione sui temi dell’essere e del tempo» (De Rosa).
Già Macrì definì Rausa umanista cristiano, che nel reticolo della sua «pedagogia dell’essere di più» àncora periferia del mondo e centro del pianeta, in una visione illimite e pur propositiva («All’altro Mille non più tempo astrale / va un canto di speranza dall’anima vitale...»), che almeno tempera le nostre nevrosi private e collettive e le contraddizioni della nostra epoca e della nostra società, riscattandoci in qualche modo dalla loro sterilità, sradicandoci dalle disperate solitudini. Così la poesia interseca la vita; e la letteratura, la storia. Macerazioni, rimeditazioni, riesplorazioni (con gran peso autobiografico, e di formazione culturale, coerentemente concertato con gli infusori che interscambiano le energie e correnti tra i poli dinamici della realtà e della dimensione trascendente); e il messaggio che tarla le nostre laiche certezze («...il rischio è il Verbo nella tua coscienza»): come a rammentarci che la Presenza che percepiamo sopra di noi o accanto a noi non è tanto toccante e demolitrice-ricreatrice quanto quella che è dentro di noi, che ci spossessa del nostro “uomo vecchio”, ci rimette in cammino su una terra nuova, ci ridà il dono dell’autenticità. Non è difficile cogliere questa Presenza. Come ha detto una volta l’“ateo” Roger Garaudy: «Ciò che è sicuro è che siamo tutti, in qualche modo, abitati».
Preghiera in poesia, dicevo. E cos’è mai questa preghiera? Come insegnano i mistici, è “donazione totale”, in nome e in virtù della quale l’uomo si definisce non più con il nome che la società gli ha dato e con le leggi che gli sono state cucite addosso, ma con l’amore di Dio. Perdendosi in Dio, inabissandosi in Dio, finalmente si amano gli altri “come se stesso”. Fanno rabbrividire parole come quelle di Charles de Foucauld, che scriveva al termine del suo lungo viaggio: «Depongo la mia anima nelle tue mani. Te la dono, mio Dio, con tutto l’amore del mio cuore, perché ti amo. Ed è per me un’esigenza d’amore il darmi, il rimettermi nelle tue mani, senza misura, con una confidenza infinita poiché tu sei il Padre mio».
«Ogni vita dissolve il grido in musiche / di silenzi-preghiera», riecheggia Rausa. Gli «attimi supremi» scanditi nella mente e nel cuore (nella vita) tracciano la linea polare persuasiva dell’itinerario «dramma-parola-luce pena poesia orazione / pentimento-ritorno / sulle strade del Padre nuovo giorno». Atmosfera e dimensione di magico-sconfinati echi dostoevskijani:

  Concedici Tu intanto la Bellezza o Signore,
materna rivelatrice, consolante poesia
profumo d’ogni scienza e mia sapienza
memoria di armonie, del Bene che sei Tu.
[La Bellezza è Parola
o Cantico di Cantici per la colomba pura,
[donna splendida
in primavera di amori e melodie volte ai Cieli,
[tue vie
perché la scienza stessa senza Bellezza è muta
innanzi al mondo e a Te, o Perfetto Creatore
che “Tutto in tutti” finalmente sarai...

«Oh novità dell’uomo su una via spersa / vita ritrovata / folgore-Luce a Damasco...». Sul Novecento cristiano di Rausa, qui citato, il sigillo di Aleksandr I. Solzenicyn:

  ...Quando il mio intelletto confuso
si ritira o viene meno,
quando gli uomini più intelligenti
non vedono al di là di questa sera
e non sanno che fare domani,
Tu mi concedi la chiara certezza
che esisti...
...Sulla cresta della gloria terrena
io mi volto indietro stupito
a guardare la strada percorsa
dalla disperazione a questo punto
donde fu dato a me comunicare
all’umanità un riflesso dei Tuoi raggi...

In attesa di Duemila/Luce, che nulla dovrebbe lasciare in penombra né in zone grige: se poesia è profezia, o anelito, o scandaglio del pozzo del cielo, o scavo d’anima. O preghiera.

   
   
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