Dicembre 2000

IL CANTIERE E LA PAROLA

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Scripta volant
Antonio Errico  
 
 

 

 

 

 

A volte non si riesce a distinguere,
non si riesce a capire, se sia la vita
a imitare
la letteratura
o se sia la letteratura a imitare la vita.

 

Alla fine del romanzo di Salinger, il giovane Holden pronuncia questa frase: «Non raccontate mai niente a nessuno. Finisce che sentite la mancanza di tutti».
Ti mancano. Con tutte le parole che gli hai fatto dire, a volte con tutte quelle che gli hai negato, ti manca il loro fiato d’inchiostro, il loro movimento nervoso o pacato, tutti i sogni e i dolori che hanno avuto, le passioni che hanno incarnato, le menzogne con cui ti hanno incantato, i loro giorni che duravano una riga, i loro destini bruciati in una frase.
Si vendicano di te che li hai generati per poi abbandonarli alla fine di un racconto, al bivio di una storia, per le strade di un intreccio, all’incrocio di una trama.
Si vendicano così le vite inventate da una scrittura: con una mancanza quasi identica, quasi con la stessa identica nostalgia che provocano le vite vere, concrete, quando a un certo punto vanno via, si trasformano in assenza lancinante, con quel loro stesso prepotente ritornare, dilagare nella mente. Sono la tua coscienza, la tua storia, sono i compagni smarriti per strada, gli amori perduti, sono quello che hai capito, quello che non capirai mai, un senso di vertigine, una malinconia.
L’esistenza degli altri – reale o fantastica che sia – spesso lascia tracce marcate. A volte anche solo il ricordo di uno sguardo, di un gesto, un silenzio, un bisbiglio, consegnati come un richiamo o un addio o una preghiera bastano a far sentire sopra di noi, dentro di noi, il peso o la levità del senso che hanno avuto nella nostra esperienza.
Le storie che raccontiamo vengono da qui: dall’esperienza dell’ordinario, del quotidiano, di quel che talvolta può sembrare irrilevante e che invece a un certo punto, in un impercettibile movimento del pensiero, nel giro consueto di una frase, si rivela motivo essenziale, movente determinante di scrittura.
In fondo non si racconta mai nulla di nuovo a se stessi; è tutto già visto, sentito, pensato, sognato. Si tratta solo di dirlo con l’incerta fedeltà della memoria che a volte confonde l’accaduto con quello che si pensa sia accaduto.
Così, in una sospensione fra la realtà e la finzione, il verosimile e il vero, contaminando e confondendo come in un dormiveglia memoria e immaginazione, il racconto si anima, cresce, assorbe nomi, luoghi, date, avvenimenti. Il senso di ogni storia individuale si confronta con il senso di innumerevoli storie d’altri e su di esse si misura. Gli orizzonti diventano sempre più vasti, gli sfondi sempre più complessi, le scene sempre più affollate. Le assenze fanno ressa nella mente. Allora narrare è testimoniare che una volta qualcuno c’è stato, qualcuno è vissuto da qualche parte per molti anni o per un’ora sola, ha avuto amori figli malattie dolcezze furori tempeste sfide ferite.

Si racconta per non dimenticare, per non dimenticarsi; per evocare, riportare in vita; ridare voce ai volti, volti alle voci, per ricongiungersi ad un tempo che la memoria ha chiuso in un’immagine, un gesto, un odore, un presentimento, un soprassalto del cuore. Per ritornare. Per sprofondare in quel luogo della mente dove il tempo si è formato, si è lievitato il destino, dove affonda le radici ogni esperienza, dove si può trovare senso o giustificazione per quel che si è fatto o non si è fatto, dell’essere così come si è.
La scrittura riattiva quel tempo, che però non può essere più come lo si era lasciato, ma è un tempo altro, quello del racconto: tempo incerto tra presente e passato, tra ricordo e invenzione.
Il narratore sa che il tempo del racconto non può né deve essere la simulazione del tempo della vita ma che di esso deve stringere l’istante irripetibile; sa che la fantasia a volte non deve superare le cose ma deve servire per capirle. E sa anche che non tutto si può raccontare, che esistono pulsazioni misteriose, indicibili per chiunque e per qualsiasi modulazione di voce o respiro di parola.
Ma accade a volte (una sola volta, forse) in un attimo (uno in tutto il tempo che gli è dato) che pur essendo solo impasto di sillabe e di suoni che hanno la consistenza di un fiato, di un vapore, il racconto riesca a compiere il miracolo, ad urlare quell’imperativo che rimuove la pietra sepolcrale: vene foras.
Con umiltà, con arroganza, con pietà, disperazione.
Diceva Roland Barthes che l’assenza del Padre cancella ogni motivo di racconto, sbarra tutte le strade che possono ricondurre all’origine, che possono in qualche modo svelare il senso dell’esistere.
Per raccontare, allora, bisogna riportare in vita il Padre, dare voce all’assenza, consentirgli di vivere ancora, anche se soltanto nel tempo e nello spazio della scrittura.
Perché, a cos’altro servirebbe il racconto se non a trasformare in presenza l’assenza, se non ad abolire le distanze del tempo e i confini che separano il regno dei vivi da quello dei morti, se non a trasformare la storia in fiaba leggera, ad opporsi ingenuamente ai disegni dei destini, a ritrovare qualcosa o qualcuno, a ritrovarsi, a consentire che qualcosa o qualcuno possa durare di più di quanto il tempo gli concede?
Come si fa a sapere se nell’istante in cui il corpo toccò l’acqua del fiume Ouse, Virginia non abbia pensato, mormorato quella frase di Clarissa Dalloway: «Come il palpito di un’onda; il bacio di un’onda; gelida e pungente»? Perché, se è vero che, come lei diceva, ogni esperienza della vita di uno scrittore è largamente scritta nelle sue opere, è altrettanto vero che spesso la scrittura ritorna nella vita, irrompe, si rovescia su di essa, come consolazione o disperazione.
Come si fa a sapere se scendere nel fiume non sia stato per Virginia Woolf un altro dei suoi movimenti verticali – non scritto stavolta – attraverso i quali in Mrs. Dalloway si compie l’attraversamento del tempo? Perché, insomma, quella morte per acqua?
Altre due volte aveva tentato il suicidio: a ventidue anni gettandosi dalla finestra, e a trentuno col “Veronal”. Poi il fiume, a due passi da casa, il 28 marzo del 1941. Con una pietra in tasca. Sarà stato, forse, un modo come un altro, o forse no se si vuole annodare la vita e la scrittura.
Al tempo dei due tentativi di suicidio Virginia Woolf non aveva ancora scritto Mrs. Dalloway e To the Lighthouse. Ora, pensare il tempo, o scriverlo, interrogarsi sul tempo, o interrogarlo, significa spostarsi col pensiero non tanto – o non solo – orizzontalmente, quanto – soprattutto – verticalmente: significa scendere, sprofondare, fino a toccare la materia limacciosa o pura dell’origine, oppure salire, proiettarsi nell’ignoto oscuro del futuro. Ma può essere anche il contrario: sprofondare nel futuro tenebroso e risalire al passato trasparente e luminoso.
Nel fiume forse – ma è fantasticheria – Virginia Woolf vive contemporaneamente e completamente le tre dimensioni del tempo; in quei pochi minuti di presente confluiscono i ricordi del passato e il terrore del futuro o, chissà, la felicità per un futuro che non sarà.
L’esperienza dei due romanzi aveva scavato solchi profondi nella sua esperienza umana e intellettuale. Per questo è lecito supporre che suicidarsi nel fiume non fu un caso. In quei momenti Virginia non è solo la donna assalita da depressioni psichiche, da collassi nervosi, accerchiata dalla follia. E’ il risultato della somma del suo pensiero e di quello dei suoi personaggi; è lei stessa personaggio. Il più tragico che abbia generato. E con la fantasia sfrenata di Septimus forse avrà pensato: «Sono caduto sporgendomi dal bordo della barca [...]. Ero morto ma ora sono ancora vivo». Il tempo reale è dunque superato.
Il racconto scardina ogni nesso con la linearità, frantuma il continuum, cancella le differenze: in un segmento di tempo accadono storie diverse e distanti: nella mente passato, presente e futuro si intrecciano e coesistono, si dilatano, si restringono.
Un’intera vita può raggrumarsi in un attimo e un attimo può sciogliersi in tutta una vita. In un passo della Montagna incantata Thomas Mann afferma che il tempo «è un mistero privo di essenza, inafferrabile e potente. Una condizione del mondo delle apparenze, un movimento congiunto e immedesimato all’esistenza del corpo nel suo spazio e nel suo movimento». Questa condizione dovrebbe comportare l’indicibilità, l’arrestarsi da parte di chiunque avverta la volontà o la necessità di indagare il mistero, ai confini del tempo cronologico.
Ma il mistero del tempo – dice Paul Ricoeur – non equivale ad un interdetto che pesa sul linguaggio: suscita piuttosto l’esigenza di pensare di più e di dire altrimenti».
Nel suo “Diario” Virginia si chiede quale nome dare a Mrs. Dalloway. Elegia? Probabilmente sì: canto elegiaco per quelle “presenze invisibili” che implorano una resurrezione attraverso la scrittura, per i ricordi e l’infanzia che ritornano per dirci cosa siamo, qual è il nostro senso. Ognuno di noi ha un faro, un desiderio inesaudito, una galleria dietro le spalle che deve essere ripercorsa, fino all’entrata, per potersi ritrovare.
Scrivere è ripercorrere la galleria, scrutare nel buio, ritrovare coloro che il tempo ha trattenuto nella galleria.
Subito dopo aver letto To the Lighthouse, la sorella Vanessa scriveva a Virginia: «Hai fatto un ritratto della mamma che secondo me le assomiglia di più di qualsiasi altro che avrei potuto immaginare. E’ quasi doloroso averla così risorta dalla morte [...]. E’ stato come incontrarla di nuovo».

Jaromir Hladik, scrittore, condannato a morte, nella notte che precede la sua esecuzione, parla con Dio, gli chiede tempo, dice: «Se in qualche modo esisto, se non sono una delle tue ripetizioni e delle tue errata esisto come autore dei Nemici. Per condurre a termine questo dramma, che può giustificarmi e giustificarti, chiedo ancora un anno. Accordami questi giorni Tu a cui appartengono i secoli e il tempo».
E Dio gli concede tempo. Nella mente di Hladik tra l’ordine di fuoco al plotone e l’esecuzione dell’ordine trascorre un anno. In quest’anno egli riesce a completare il suo dramma. E’ Il miracolo segreto, una finzione di Borges.
Qui qualcosa o qualcuno ha potere del tempo e potere sul tempo: può concederlo o negarlo, può immobilizzarlo o lasciarlo fluire su tutto e su tutti.
Il tempo appartiene a Dio, dunque, o agli dei; comunque non appartiene all’uomo. All’uomo è concessa solo la custodia dell’istante che vive, del presente. Forse per questo, anche per questo, l’uomo ha paura – terrore – del tempo. Forse per questo si illude di poter riuscire a controllarlo, a dominarlo in qualche modo. L’orologio è il simbolo dell’illusione dell’uomo, e probabilmente è anche il simbolo della sua disperazione: se non è possibile possedere il tempo che sia possibile almeno averne coscienza. Ma è proprio questa coscienza che provoca poi la disperazione. Disperazione per ciò che non si comprende ma che fuori di noi, dentro di noi, decide la nostra esistenza, la nascita, la morte, l’amore, la memoria, il dolore. Qualsiasi altra cosa vivibile, pensabile, sognabile.
Che cos’è quello che noi chiamiamo destino se non l’ammissione che il tempo è un mistero?

In una notte di veglia e di vigilia, nella cella di un penitenziario borbonico, quattro uomini condannati a morte per aver attentato alla vita del re narrano una vicenda della loro vita. Narrano, cioè intersecano realtà e finzione, generando una condizione connotata non da uno o dall’altro momento ma dal significato che il racconto può assumere in quella notte che fa da confine tra la vita e la morte. Non si tratta di attribuire una ragione all’esistenza trascorsa, né di motivare la morte imminente: si tratta essenzialmente di caricare la notte di parole magiche, fatali, assolute, definitive, che pretendono coraggio e non consentono pentimenti o rimorsi.
C’è anche un quinto personaggio, il governatore della prigione, Consalvo de Ritis, uomo d’armi e di libri, che prima offre ai condannati una sottile possibilità di tradimento e poi si traveste da frate Cirillo per indurli a parlare, a rivelare il nome del “Padreterno”, il capo della cospirazione. In questo “decamerone notturno” la parola diventa memoria, evocazione di immagini e di atmosfere, ma può anche comportare lo sradicamento dell’io. Allora la narrazione diventa una maniera per tenersi ancorati alla vita.
Alla soglia della morte, infatti, il parlare, il narrare, l’inventare una storia o una felicità da covare dentro gli occhi fino alla fine, il raccontare una precedente invenzione, oppure il restare coerente allo sdoppiamento con cui si è condotta la vita, e mentire fino al punto da lasciare il racconto aperto a finali diversi e opposti, sono maniere per liberarsi in alcuni casi dal silenzio che durante l’esistenza ha soffocato l’espressione di sé, in altri casi dalla ridondanza e dal vuoto che ne hanno alterato il senso. Di questo racconta Gesualdo Bufalino ne Le menzogne della notte.

Quell’equilibrio che tiene insieme gli esseri con gli esseri, le cose con le cose, gli esseri e le cose; la motivazione delle azioni, la giustificazione dei destini, il caos dell’universo e la sua perfezione, il respiro degli uomini – pacato, affannoso – i significati di una storia, di un’idea, una passione: è tutto chiuso dentro una scrittura, nel passo cadenzato di una frase, nel ritmo di una sintassi, nell’esattezza di un lessico.
E’ tutto scritto in una pagina, a volte in una riga: la luce e il buio, il gioco d’ombre della vita, le maschere dei giorni, le occasioni, il bene e il male, le consonanze e le dissonanze, i nodi che stringono, la felicità e il dolore, il vuoto e il pieno confusi nelle ore, la vita e la morte, il mistero del tempo, l’immensità dello spazio.
Le parole si muovono, pulsano, sono membra di un corpo vivo. Le frasi hanno echi, riverberi, risonanze. Sono stratificazioni di esperienze, passaggi di un viaggio, percorsi nell’intrico di labirinti alla ricerca di qualcuno che si nasconde dietro il volto di un personaggio, nella fisionomia di una creatura della finzione.
A volte non si riesce a distinguere, non si riesce a capire, se sia la vita a imitare la letteratura o se sia la letteratura a imitare la vita.
Chi scrive ha sempre la certezza della propria inutilità. Sa bene che è l’esistenza non l’Opera che conta. Sa bene di non essere altro che un giocoliere, un funambolo, un replicante. Sa anche che la lotta con la realtà dell’esistenza è impari, perduta in partenza. Per questo si rifugia nello stile, nella forma: lo stile come espressione dell’essere, la forma come sostanza intensa, concentrata, che impone l’assolutezza di una decisione, di una devozione.
Lo stile, la forma, sono fiere fameliche, voraci. Pretendono perfezione bellezza memoria sapienza armonia luce colore, il lampo della metafora, la densità del concetto, la durezza della pietra, la leggerezza delle nuvole, uniformità e molteplicità. Ma, come diceva Paul Valèry, la forma costa cara.

   
   
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