A volte non si riesce a distinguere,
non si riesce a capire, se sia la vita
a imitare
la letteratura
o se sia la letteratura a imitare la vita.
|
|
Alla fine del romanzo di Salinger, il giovane Holden pronuncia
questa frase: «Non raccontate mai niente a nessuno. Finisce
che sentite la mancanza di tutti».
Ti mancano. Con tutte le parole che gli hai fatto dire, a volte
con tutte quelle che gli hai negato, ti manca il loro fiato dinchiostro,
il loro movimento nervoso o pacato, tutti i sogni e i dolori che
hanno avuto, le passioni che hanno incarnato, le menzogne con cui
ti hanno incantato, i loro giorni che duravano una riga, i loro
destini bruciati in una frase.
Si vendicano di te che li hai generati per poi abbandonarli alla
fine di un racconto, al bivio di una storia, per le strade di un
intreccio, allincrocio di una trama.
Si vendicano così le vite inventate da una scrittura: con
una mancanza quasi identica, quasi con la stessa identica nostalgia
che provocano le vite vere, concrete, quando a un certo punto vanno
via, si trasformano in assenza lancinante, con quel loro stesso
prepotente ritornare, dilagare nella mente. Sono la tua coscienza,
la tua storia, sono i compagni smarriti per strada, gli amori perduti,
sono quello che hai capito, quello che non capirai mai, un senso
di vertigine, una malinconia.
Lesistenza degli altri reale o fantastica che sia
spesso lascia tracce marcate. A volte anche solo il ricordo di uno
sguardo, di un gesto, un silenzio, un bisbiglio, consegnati come
un richiamo o un addio o una preghiera bastano a far sentire sopra
di noi, dentro di noi, il peso o la levità del senso che
hanno avuto nella nostra esperienza.
Le storie che raccontiamo vengono da qui: dallesperienza dellordinario,
del quotidiano, di quel che talvolta può sembrare irrilevante
e che invece a un certo punto, in un impercettibile movimento del
pensiero, nel giro consueto di una frase, si rivela motivo essenziale,
movente determinante di scrittura.
In fondo non si racconta mai nulla di nuovo a se stessi; è
tutto già visto, sentito, pensato, sognato. Si tratta solo
di dirlo con lincerta fedeltà della memoria che a volte
confonde laccaduto con quello che si pensa sia accaduto.
Così, in una sospensione fra la realtà e la finzione,
il verosimile e il vero, contaminando e confondendo come in un dormiveglia
memoria e immaginazione, il racconto si anima, cresce, assorbe nomi,
luoghi, date, avvenimenti. Il senso di ogni storia individuale si
confronta con il senso di innumerevoli storie daltri e su
di esse si misura. Gli orizzonti diventano sempre più vasti,
gli sfondi sempre più complessi, le scene sempre più
affollate. Le assenze fanno ressa nella mente. Allora narrare è
testimoniare che una volta qualcuno cè stato, qualcuno
è vissuto da qualche parte per molti anni o per unora
sola, ha avuto amori figli malattie dolcezze furori tempeste sfide
ferite.
Si racconta per non dimenticare, per non dimenticarsi; per evocare,
riportare in vita; ridare voce ai volti, volti alle voci, per ricongiungersi
ad un tempo che la memoria ha chiuso in unimmagine, un gesto,
un odore, un presentimento, un soprassalto del cuore. Per ritornare.
Per sprofondare in quel luogo della mente dove il tempo si è
formato, si è lievitato il destino, dove affonda le radici
ogni esperienza, dove si può trovare senso o giustificazione
per quel che si è fatto o non si è fatto, dellessere
così come si è.
La scrittura riattiva quel tempo, che però non può
essere più come lo si era lasciato, ma è un tempo
altro, quello del racconto: tempo incerto tra presente e passato,
tra ricordo e invenzione.
Il narratore sa che il tempo del racconto non può né
deve essere la simulazione del tempo della vita ma che di esso deve
stringere listante irripetibile; sa che la fantasia a volte
non deve superare le cose ma deve servire per capirle. E sa anche
che non tutto si può raccontare, che esistono pulsazioni
misteriose, indicibili per chiunque e per qualsiasi modulazione
di voce o respiro di parola.
Ma accade a volte (una sola volta, forse) in un attimo (uno in tutto
il tempo che gli è dato) che pur essendo solo impasto di
sillabe e di suoni che hanno la consistenza di un fiato, di un vapore,
il racconto riesca a compiere il miracolo, ad urlare quellimperativo
che rimuove la pietra sepolcrale: vene foras.
Con umiltà, con arroganza, con pietà, disperazione.
Diceva Roland Barthes che lassenza del Padre cancella ogni
motivo di racconto, sbarra tutte le strade che possono ricondurre
allorigine, che possono in qualche modo svelare il senso dellesistere.
Per raccontare, allora, bisogna riportare in vita il Padre, dare
voce allassenza, consentirgli di vivere ancora, anche se soltanto
nel tempo e nello spazio della scrittura.
Perché, a cosaltro servirebbe il racconto se non a
trasformare in presenza lassenza, se non ad abolire le distanze
del tempo e i confini che separano il regno dei vivi da quello dei
morti, se non a trasformare la storia in fiaba leggera, ad opporsi
ingenuamente ai disegni dei destini, a ritrovare qualcosa o qualcuno,
a ritrovarsi, a consentire che qualcosa o qualcuno possa durare
di più di quanto il tempo gli concede?
Come si fa a sapere se nellistante in cui il corpo toccò
lacqua del fiume Ouse, Virginia non abbia pensato, mormorato
quella frase di Clarissa Dalloway: «Come il palpito di unonda;
il bacio di unonda; gelida e pungente»? Perché,
se è vero che, come lei diceva, ogni esperienza della vita
di uno scrittore è largamente scritta nelle sue opere, è
altrettanto vero che spesso la scrittura ritorna nella vita, irrompe,
si rovescia su di essa, come consolazione o disperazione.
Come si fa a sapere se scendere nel fiume non sia stato per Virginia
Woolf un altro dei suoi movimenti verticali non scritto stavolta
attraverso i quali in Mrs. Dalloway si compie lattraversamento
del tempo? Perché, insomma, quella morte per acqua?
Altre due volte aveva tentato il suicidio: a ventidue anni gettandosi
dalla finestra, e a trentuno col Veronal. Poi il fiume,
a due passi da casa, il 28 marzo del 1941. Con una pietra in tasca.
Sarà stato, forse, un modo come un altro, o forse no se si
vuole annodare la vita e la scrittura.
Al tempo dei due tentativi di suicidio Virginia Woolf non aveva
ancora scritto Mrs. Dalloway e To the Lighthouse. Ora, pensare il
tempo, o scriverlo, interrogarsi sul tempo, o interrogarlo, significa
spostarsi col pensiero non tanto o non solo orizzontalmente,
quanto soprattutto verticalmente: significa scendere,
sprofondare, fino a toccare la materia limacciosa o pura dellorigine,
oppure salire, proiettarsi nellignoto oscuro del futuro. Ma
può essere anche il contrario: sprofondare nel futuro tenebroso
e risalire al passato trasparente e luminoso.
Nel fiume forse ma è fantasticheria Virginia
Woolf vive contemporaneamente e completamente le tre dimensioni
del tempo; in quei pochi minuti di presente confluiscono i ricordi
del passato e il terrore del futuro o, chissà, la felicità
per un futuro che non sarà.
Lesperienza dei due romanzi aveva scavato solchi profondi
nella sua esperienza umana e intellettuale. Per questo è
lecito supporre che suicidarsi nel fiume non fu un caso. In quei
momenti Virginia non è solo la donna assalita da depressioni
psichiche, da collassi nervosi, accerchiata dalla follia. E
il risultato della somma del suo pensiero e di quello dei suoi personaggi;
è lei stessa personaggio. Il più tragico che abbia
generato. E con la fantasia sfrenata di Septimus forse avrà
pensato: «Sono caduto sporgendomi dal bordo della barca [...].
Ero morto ma ora sono ancora vivo». Il tempo reale è
dunque superato.
Il racconto scardina ogni nesso con la linearità, frantuma
il continuum, cancella le differenze: in un segmento di tempo accadono
storie diverse e distanti: nella mente passato, presente e futuro
si intrecciano e coesistono, si dilatano, si restringono.
Unintera vita può raggrumarsi in un attimo e un attimo
può sciogliersi in tutta una vita. In un passo della Montagna
incantata Thomas Mann afferma che il tempo «è un mistero
privo di essenza, inafferrabile e potente. Una condizione del mondo
delle apparenze, un movimento congiunto e immedesimato allesistenza
del corpo nel suo spazio e nel suo movimento». Questa condizione
dovrebbe comportare lindicibilità, larrestarsi
da parte di chiunque avverta la volontà o la necessità
di indagare il mistero, ai confini del tempo cronologico.
Ma il mistero del tempo dice Paul Ricoeur non equivale
ad un interdetto che pesa sul linguaggio: suscita piuttosto lesigenza
di pensare di più e di dire altrimenti».
Nel suo Diario Virginia si chiede quale nome dare a
Mrs. Dalloway. Elegia? Probabilmente sì: canto elegiaco per
quelle presenze invisibili che implorano una resurrezione
attraverso la scrittura, per i ricordi e linfanzia che ritornano
per dirci cosa siamo, qual è il nostro senso. Ognuno di noi
ha un faro, un desiderio inesaudito, una galleria dietro le spalle
che deve essere ripercorsa, fino allentrata, per potersi ritrovare.
Scrivere è ripercorrere la galleria, scrutare nel buio, ritrovare
coloro che il tempo ha trattenuto nella galleria.
Subito dopo aver letto To the Lighthouse, la sorella Vanessa scriveva
a Virginia: «Hai fatto un ritratto della mamma che secondo
me le assomiglia di più di qualsiasi altro che avrei potuto
immaginare. E quasi doloroso averla così risorta dalla
morte [...]. E stato come incontrarla di nuovo».
Jaromir Hladik, scrittore, condannato a morte, nella notte che
precede la sua esecuzione, parla con Dio, gli chiede tempo, dice:
«Se in qualche modo esisto, se non sono una delle tue ripetizioni
e delle tue errata esisto come autore dei Nemici. Per condurre a
termine questo dramma, che può giustificarmi e giustificarti,
chiedo ancora un anno. Accordami questi giorni Tu a cui appartengono
i secoli e il tempo».
E Dio gli concede tempo. Nella mente di Hladik tra lordine
di fuoco al plotone e lesecuzione dellordine trascorre
un anno. In questanno egli riesce a completare il suo dramma.
E Il miracolo segreto, una finzione di Borges.
Qui qualcosa o qualcuno ha potere del tempo e potere sul tempo:
può concederlo o negarlo, può immobilizzarlo o lasciarlo
fluire su tutto e su tutti.
Il tempo appartiene a Dio, dunque, o agli dei; comunque non appartiene
alluomo. Alluomo è concessa solo la custodia
dellistante che vive, del presente. Forse per questo, anche
per questo, luomo ha paura terrore del tempo.
Forse per questo si illude di poter riuscire a controllarlo, a dominarlo
in qualche modo. Lorologio è il simbolo dellillusione
delluomo, e probabilmente è anche il simbolo della
sua disperazione: se non è possibile possedere il tempo che
sia possibile almeno averne coscienza. Ma è proprio questa
coscienza che provoca poi la disperazione. Disperazione per ciò
che non si comprende ma che fuori di noi, dentro di noi, decide
la nostra esistenza, la nascita, la morte, lamore, la memoria,
il dolore. Qualsiasi altra cosa vivibile, pensabile, sognabile.
Che cosè quello che noi chiamiamo destino se non lammissione
che il tempo è un mistero?
In una notte di veglia e di vigilia, nella cella di un penitenziario
borbonico, quattro uomini condannati a morte per aver attentato
alla vita del re narrano una vicenda della loro vita. Narrano, cioè
intersecano realtà e finzione, generando una condizione connotata
non da uno o dallaltro momento ma dal significato che il racconto
può assumere in quella notte che fa da confine tra la vita
e la morte. Non si tratta di attribuire una ragione allesistenza
trascorsa, né di motivare la morte imminente: si tratta essenzialmente
di caricare la notte di parole magiche, fatali, assolute, definitive,
che pretendono coraggio e non consentono pentimenti o rimorsi.
Cè anche un quinto personaggio, il governatore della
prigione, Consalvo de Ritis, uomo darmi e di libri, che prima
offre ai condannati una sottile possibilità di tradimento
e poi si traveste da frate Cirillo per indurli a parlare, a rivelare
il nome del Padreterno, il capo della cospirazione.
In questo decamerone notturno la parola diventa memoria,
evocazione di immagini e di atmosfere, ma può anche comportare
lo sradicamento dellio. Allora la narrazione diventa una maniera
per tenersi ancorati alla vita.
Alla soglia della morte, infatti, il parlare, il narrare, linventare
una storia o una felicità da covare dentro gli occhi fino
alla fine, il raccontare una precedente invenzione, oppure il restare
coerente allo sdoppiamento con cui si è condotta la vita,
e mentire fino al punto da lasciare il racconto aperto a finali
diversi e opposti, sono maniere per liberarsi in alcuni casi dal
silenzio che durante lesistenza ha soffocato lespressione
di sé, in altri casi dalla ridondanza e dal vuoto che ne
hanno alterato il senso. Di questo racconta Gesualdo Bufalino ne
Le menzogne della notte.
Quellequilibrio che tiene insieme gli esseri con gli esseri,
le cose con le cose, gli esseri e le cose; la motivazione delle
azioni, la giustificazione dei destini, il caos delluniverso
e la sua perfezione, il respiro degli uomini pacato, affannoso
i significati di una storia, di unidea, una passione:
è tutto chiuso dentro una scrittura, nel passo cadenzato
di una frase, nel ritmo di una sintassi, nellesattezza di
un lessico.
E tutto scritto in una pagina, a volte in una riga: la luce
e il buio, il gioco dombre della vita, le maschere dei giorni,
le occasioni, il bene e il male, le consonanze e le dissonanze,
i nodi che stringono, la felicità e il dolore, il vuoto e
il pieno confusi nelle ore, la vita e la morte, il mistero del tempo,
limmensità dello spazio.
Le parole si muovono, pulsano, sono membra di un corpo vivo. Le
frasi hanno echi, riverberi, risonanze. Sono stratificazioni di
esperienze, passaggi di un viaggio, percorsi nellintrico di
labirinti alla ricerca di qualcuno che si nasconde dietro il volto
di un personaggio, nella fisionomia di una creatura della finzione.
A volte non si riesce a distinguere, non si riesce a capire, se
sia la vita a imitare la letteratura o se sia la letteratura a imitare
la vita.
Chi scrive ha sempre la certezza della propria inutilità.
Sa bene che è lesistenza non lOpera che conta.
Sa bene di non essere altro che un giocoliere, un funambolo, un
replicante. Sa anche che la lotta con la realtà dellesistenza
è impari, perduta in partenza. Per questo si rifugia nello
stile, nella forma: lo stile come espressione dellessere,
la forma come sostanza intensa, concentrata, che impone lassolutezza
di una decisione, di una devozione.
Lo stile, la forma, sono fiere fameliche, voraci. Pretendono perfezione
bellezza memoria sapienza armonia luce colore, il lampo della metafora,
la densità del concetto, la durezza della pietra, la leggerezza
delle nuvole, uniformità e molteplicità. Ma, come
diceva Paul Valèry, la forma costa cara.
|