Marzo 2001

DIRITTI UMANI

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Battere la povertà
Mary Robinson Alto Commissario dell’Onu per i Diritti Umani
 
 

 

 

Dove non c’è più legge né ordine
interno, occorre
applicare il principio della responsabilità internazionale.

 

Le speranze che il nuovo secolo potesse significare un nuovo inizio nel rispetto dei diritti umani non si sono ancora esaudite. Vedere con i miei occhi che cosa è accaduto in Cecenia, a Timor Est o nella Repubblica democratica del Congo mi ha fatto capire chiaramente quali debbano essere i nostri traguardi. Dalla mia recente visita in Israele e nei Territori palestinesi occupati ho portato la forte impressione di due popoli legati dalla storia e dalla geografia, ma separati da un fossato ampio e crescente nella percezione l’uno dell’altro. Dalle loro bocche ho sentito due racconti diversi: da un lato la preoccupazione, comprensibile, per la sicurezza; dall’altro, l’umiliazione quotidiana per le discriminazioni meschine e l’impotenza dell’occupazione, spesso aggravata dall’uso eccessivo della forza. Io ho raccomandato una presenza internazionale di controllo nei Territori palestinesi occupati, per aiutare a rompere il cerchio quotidiano della violenza e per incoraggiare la ripresa del dialogo.

Resto convinta che la strada per un futuro di pace stabile nel Vicino Oriente passa per il rispetto, da parte di tutti, dei diritti umani internazionali e della legge umanitaria. E questo va al nocciolo della questione: occorre educare ai diritti umani, investendo le risorse finanziarie necessarie e praticando un miglior coordinamento tra le Agenzie delle Nazioni Unite e i programmi e le organizzazioni regionali. E prevenire le violazioni dei diritti umani prima che accadano, così come è stato chiesto da più parti.
Forse lo sviluppo più positivo dei diritti umani negli ultimi cinquant’anni è stato il diffuso accordo dei governi su che cosa si debba intendere per “diritti umani internazionali”. Anche quest’anno sono stati fatti dei progressi, con il Summit del Millennio a New York e col Protocollo opzionale alla Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne. C’è stato poi anche un forte appoggio ai due Protocolli opzionali alla Convenzione per i diritti dell’infanzia, (quello sui bambini-soldati e l’altro sul traffico dei bambini).
La sfida maggiore ora è vedere queste norme accolte a livello nazionale. Quando i governi non sono in grado di farlo, il mio Ufficio può avere un ruolo positivo. Prendiamo la Cina. Alcuni mesi fa ho firmato a Pechino un Memorandum d’intesa sulla cooperazione tecnica nell’ambito dei diritti umani e ho sollecitato le autorità cinesi a ratificare le due Convenzioni delle Nazioni Unite sui diritti civili, politici, economici, sociali e culturali. La Cina deve fare ancora molta strada prima che si possa parlare di un’autentica cultura dei diritti umani, ma io ritengo che l’aver accettato di cooperare col mio Ufficio sia già un passo avanti.
C’è poi una crescente consapevolezza dell’importanza del diritto allo sviluppo. Soltanto qualche anno fa, qualunque discorso sui diritti umani era male accolto nell’ambito dei programmi di sviluppo, raramente menzionato, e per lo più in un contesto di traffici e commerci. Ora un nuovo dialogo si è aperto tra gli esperti di sviluppo e di diritti umani, arricchito dal lavoro dell’economista Amartya Sen sul diritto alla proprietà. Questo approccio riconosce il fatto che diritti e sviluppo si rafforzano l’un l’altro.
Con il crescere delle preoccupazioni sulla disparità dei benefici derivati dalla globalizzazione, si comincia a parlare del suo impatto sul godimento dei diritti umani. Io credo che questi potrebbero fornire una parte delle regole che guidano le decisioni politiche da cui nasce il fenomeno della globalizzazione. Nel 1998 abbiamo celebrato il cinquantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e riaffermato la loro universalità e indivisibilità. Nei prossimi anni dovremo connettere quei princìpi con strategie efficaci per eliminare la povertà estrema. Io sono convinta che questa sia la risposta più costruttiva che si possa dare ai contestatori di Praga, di Seattle e di Nizza, che vedono l’ordine economico mondiale squilibrato a scapito dei Paesi più poveri e le politiche di sviluppo insufficienti sotto il profilo umano.

La responsabilità è un potente strumento preventivo. Manda un chiaro segnale che le persone colpevoli di gravi violazioni dei diritti umani non godranno dell’impunità, ma saranno chiamate a dar conto dei loro crimini. La prima responsabilità è delle autorità nazionali. Dove non c’è più legge né ordine interno, o le autorità competenti non sono disposte ad agire di fronte agli abusi, occorre applicare il principio della responsabilità internazionale. Il caso Pinochet ha mandato un forte messaggio che l’impunità non sarà più tollerata.
Di qui, la necessità della Corte Internazio-nale per i crimini. Lo Statuto di Roma è una conquista storica: per la prima volta un trattato multilaterale stabilisce che alcuni atti sono crimini di guerra, quando vengono commessi in un conflitto armato non internazionale.
Infine, razzismo e xenofobia, forze sempre potenti nella società: nel prossimo settembre si terrà a Durban, in Sudafrica, una Conferenza mondiale contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e l’intolleranza. Sarà l’occasione per un’analisi dell’identità nazionale, considerando la diversità come una forza e la tolleranza come la base per la coesione sociale. E sarà un buon test per misurare la volontà dei governi di accompagnare gli ideali con l’azione.

   
   
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