Marzo 2001

DECADENZA DI UN IMPERO

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Tenebre russe
Egidio Sterpa  
 
 

 

 

 

 

Quel che colpisce nella Mosca d’oggi
è, almeno per quel
che è visibile
e percepibile, uno spaventoso vuoto culturale.

 

Un mio recente soggiorno a Mosca – vi mancavo da circa dieci anni – con giornate intense, (colloqui, visite, un vasto giro insomma, tesi a capire e a scoprire che cosa c’è di nuovo nella politica e nella società), mi induce a fermare su carta impressioni e osservazioni per aiutare a capire la “nuova” Russia.
Ho rivisitato Mosca il più possibile in lungo e in largo, di giorno e di notte, dal Cremlino all’Arbat, il vecchio quartiere popolare dove ci sono ancora alcune case di legno e ricordi di una gloria artistico-letteraria e di una vitalità sociale ormai sopite. Sono stato in chiese, musei, ho rivisto la mummia di Lenin e la tomba di Stalin nella Piazza Rossa, ho conversato a lungo con professori universitari, operatori turistici, due o tre piccoli operatori economici, qualche diplomatico, con italiani residenti a Mosca, alcuni da molti anni.
Avevo programmato di saggiare quanto c’è di nuovo, dieci anni dopo. Il passato è sempre lì, pesa sul presente e forse peserà ancora molto sul futuro. Mosca appare oggi il centro della convulsione, della disgregazione e della disperazione di un grande Paese che vede ridotto del cinquanta per cento il proprio tenore di vita, con salari che sì e no superano le centomila lire al mese, pensioni che sono sì e no la metà, la maggior parte delle dimore al freddo, tanto accattonaggio, centinaia di ragazze che si prostituiscono e sono, si può dire, schiave di boss mafiosi, professori universitari che si adattano a servizi umilianti, persone colte e di libero pensiero costrette a sperare che Putin, ex capo del Kgb, dia una svolta autoritaria al potere politico, perché solo così si può ipotizzare una ripresa istituzionale capace di ridare qualche certezza.

La Russia sta attraversando una crisi gigantesca sotto tutti gli aspetti: politici, economici, militari, strutturali, culturali e morali. Forse non basterà una generazione per superarla. L’ex impero russo è entrato nel terzo millennio con un volto altamente drammatico: le istituzioni sono in dissoluzione e impotenti (i poteri regionali spesso rifiutano collegamenti col potere centrale); le forze armate, in fase di smantellamento, è come se non esistessero, tranne alcuni corpi speciali, come quelli utilizzati in Cecenia o addetti alle strutture di potere (Cremlino, ministeri, depositi nucleari); la flotta è quasi tutta bloccata nei porti per mancanza di sostentamento, molte navi sono state vendute o sono in vendita! Quanto alle strutture, quelle di un tempo sono vecchie e non curate, tanto meno aggiornate; quelle ritenute necessarie per ammodernare il Paese non hanno possibilità di realizzazione per mancanza di investimenti.
Si direbbe che il Paese stia crollando, mi ha fatto osservare un economista. Basti pensare allo stato di degrado degli oleodotti, della rete elettrica, di strade, ponti, ferrovie, ospedali. E’ un fatto incontestabile: le infrastrutture sono al collasso. Del resto, molte in passato furono mal costruite ed ebbero sempre scarsi interventi di manutenzione. I servizi pubblici sono disastrosi.
L’economia è povera, poverissima, sicché gli stessi esperti russi parlano del 2001 come di un anno di «sicura miseria». Basti pensare che il bilancio statale russo è pari a quello del Belgio. Anche se Putin si affanna a dichiarare – lo ha fatto durante una sua recente visita a Milano, per esempio – che i conti sono in attivo (ovviamente egli parla degli impegni previsti nel bilancio, perché quelli veramente necessari, che sono di grande portata e innumerevoli, non sono affrontabili economicamente), la realtà è che la Russia è in stato di depressione.
Putin ha sostituito Eltsin nell’agosto del 1999: a più di un anno e mezzo il suo bilancio politico non registra luci ma colossali ombre. Per questo, nonostante si sforzi di apparire democratico agli occhi dell’Oc-cidente, non è da escludere che egli attui una svolta autocratica, come del resto pare preferiscano non pochi russi alle prese addirittura con il problema del pane quotidiano. Dal punto di vista della democrazia non c’è dubbio che rispetto all’epoca di Eltsin questa di Putin registra arretramenti per quanto riguarda i diritti e le libertà e suscita grandi inquietudini.
Com’è possibile che un Paese che ha immense e illimitate ricchezze naturali – petrolio, gas, oro, uranio, un territorio vastissimo con mille possibilità di investimenti – viva momenti così cupi di angosciante depressione? Nonostante la fine dell’URSS, che l’ha amputata di 120 milioni di abitanti e di oltre 5 milioni di chilometri quadrati di territorio, ci vogliono ancora quasi due volte il territorio degli Stati Uniti e 56 Italie per fare la grandezza geografica della Russia di oggi, che conta 150 milioni di abitanti. La sua regione più vasta, la Siberia, è due volte l’Europa occidentale.
Ce la farà la Russia a scrollarsi di dosso il passato, a mandare al macero una burocrazia che con procedure ancora staliniste (ma ora senza controlli, sottopagata, frustrata e assolutamente impreparata di fronte alle esigenze della nuova società e dell’economia libera) la tiene lontana dall’Occidente, ad abbattere quella sorta di muraglia cinese che reprime ogni potenzialità, a far sì che il respiro del Paese sia più forte della mala ventura che le è toccata e la porti sulla strada della ripresa economica e sociale? Com’è possibile che un popolo che ha subìto tante delusioni (Kruscev, Gorbaciov, Eltsin), che ha sofferto tanta illibertà, sopporti quasi con fatalismo momenti così drammatici, così tragici addirittura?
Quel che colpisce è che non si avvertono neppure piccoli segni endogeni di rinnovamento culturale. C’è una demoralizzazione generale a tutti i livelli sociali e politici, che è impressa sui volti della gente, a Mosca soprattutto, dove almeno tre quarti della popolazione vive sulla soglia della povertà. Manca oggi in Russia uno scrittore che racconti dall’interno il dramma della vita russa, come Dostoevskij raccontò quello dell’ultimo Ottocento e Solgenitsyn quello degli anni Quaranta-Cinquanta del Novecento. Anche questa mancanza di grandi testimoni segnala l’involuzione russa, che in taluni momenti sembra addirittura andare verso l’imbarbarimento, come nel caso della nonna arrestata a Mosca, l’anno scorso, mentre vendeva il nipotino ai mercanti di organi umani, o nei comportamenti di una mafia sfrontata e crudele che nella capitale controlla la prostituzione e altri sordidi affari.
Di ritorno dalla Russia mi ha colpito, procurandomi una certa emozione, un’intervista concessa a Vittorio Strada da Aleksandr Solgenitsyn, che vive oggi nei dintorni di Mosca, dopo un lungo periodo trascorso in esilio in Occidente, principalmente negli Stati Uniti. Ho trovato nelle sue parole la conferma delle impressioni ricevute nel corso del mio recente viaggio. I suoi giudizi sull’attuale condizione della Russia sono durissimi. Parla di «situazione tremenda»: «Siamo rimasti – dice – senza niente, in rovina, spinti verso il Terzo Mondo, in via di estinzione. Ecco la cosa più terribile: siamo in via di estinzione».

Le dichiarazioni di Solgenitsyn meritano qualche considerazione, soprattutto di carattere culturale. Il Premio Nobel del 1970 parla di «caos» nella vita russa e di uno «stato di decadimento» della cultura, dovuti ad una «nomenklatura fatta di caporioni del Komsomol e del partito comunista totalmente privi di idee, mentre gli uomini del 1917 erano guidati dalle idee».
Quel che colpisce nella Mosca d’oggi (nove milioni di abitanti) è, almeno per quel che è visibile e percepibile, uno spaventoso vuoto culturale. Solgenitsyn ipotizza, e può darsi che abbia ragione, che la cultura si sia «ritirata all’interno della Russia, nelle zone periferiche, sfuggendo al crollo generale, e forse lì accumula quell’energia che le darà la possibilità di risorgere».
Sta di fatto che dall’oscurantismo staliniano, che fu una lunga penitenza culturale, la Russia sembra discesa in un incredibile torpore. Nel suo bel Diario di Mosca Enzo Bettiza annota icasticamente quel che rappresentò culturalmente la lunga tirannide di Stalin con l’impedimento di importare idee e testi e addirittura di conoscere le lingue straniere. Fu, dice, un’ignoranza pianificata col terrore, che quasi azzerò lo splendore raggiunto dalla cultura russa nel diciannovesimo secolo fino agli inizi del Novecento.
Incredibilmente, oggi potrebbe addirittura valere la notazione di de Maistre nel suo Les soirées de Saint-Pètersbourg (1821): «La Russia è come un cadavere congelato, che puzzerà terribilmente quando si disgelerà». Il regime staliniano, in effetti – e dalla morte del dittatore sono passati ben 48 anni – ha decimato le energie e le intelligenze russe, le ha depresse e umiliate nel profondo, si direbbe sfibrate e disossate. Dunque, come dice Solgenitsyn, era inevitabile che «l’uscita dal comunismo assumesse il carattere di un caos ingovernabile».
Bettiza, che fu a Mosca negli anni kruscioviani, nel suo Diario testimonia che alla morte del tiranno ci fu come un impatto liberatorio, un momento di vitalità nuova, di ripresa di creatività artistica, di fermenti occidentalizzanti. Egli paragona gli anni Cinquanta-Sessanta della destalinizzazione a quel che accadde dopo la morte dello zar Nicola I nella prima metà dell’Ottocento. Come Stalin, Nicola impose un regime poliziesco, promulgò “leggi di ferro” (fu lui stesso a definirle così) proibendo l’importazione di libri e giornali stranieri, dichiarò addirittura illegittima l’abiura dalla religione ortodossa. Contro di lui, com’è noto, si rivoltarono i “decabristi” nel dicembre (da qui il nome) del 1825, che furono spazzati a colpi di cannone.
Dalla “denicolizzazione” dopo la morte dello zar isolazionista e liberticida (che però impose una certa modernizzazione al Paese) la cultura russa trasse vigore, divenne più emancipata e rivoluzionaria. L’Ottocento russo, soprattutto il secondo Ottocento, fu splendido intellettualmente e artisticamente, produsse una letteratura fascinosa: Lermontov, Gogol’, Turghienev, Tolstoj, Dostoevskij, Cechov, Puskin, agitatori culturali come Herzen e Belinskij, i quali furono i maîtres à penser che, si può dire, allevarono la gioventù rivoluzionaria dei moti del 1905 e in qualche modo posero i germi della rivoluzione d’ottobre.
Non accadde così con la destalinizzazione. Kruscev, che pure aveva suscitato speranze, fu una delusione; deluse più tardi anche Gorbaciov. Il periodo di Eltsin – dice Solgenitsyn – è stato caratterizzato da un saccheggio «di proporzioni incredibili», anche se, almeno così è parso dalla sponda dell’Occidente, il “corvo bianco” ha certamente impedito che tornassero al potere i bolscevichi.
No, non è uscita dalle tenebre la Russia. E neppure la sua cultura s’è risvegliata. Sono stati archiviati scrittori che riuscirono a sopravvivere all’epoca di Stalin, difesi in realtà dalla propria compiacenza verso il regime: Erenburg, Solokov, Majakovskij, Bulgakov. Resistono Pasternak e la poetessa Achmatova, anch’essi però ricordo, grande ricordo del passato; resiste l’ambiguo Evtuscenko, molto appannato in verità; splende solo la stella di Solgenitsyn, tornato in patria dopo l’esilio americano del 1974, ma egli assiste, testimone del passato, demoralizzato, all’annichilimento del suo Paese, che considera addirittura «in estinzione».

Chi oggi va a Mosca o, per esempio, anche a Kiev, la città che nei secoli iniziali del secondo millennio diede vita ad una cultura che sembrava mettere in ombra l’Occidente, ne riparte deluso, depresso, preoccupato per il futuro di quella parte d’Eu-ropa che per quasi due secoli ha coltivato l’ambizione d’essere la sede della “terza Roma”.
Mi fermo qui. Un’osservazione è irrinunciabile, perché fortemente obiettiva: eccoli, i disastri di settant’anni di comunismo e di economia programmata e diretta.

   
   
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