Marzo 2001

CENTRO E PERIFERIE A DUE VELOCITA’

Indietro
Prove di dialogo
sul federalismo
Claudio Alemanno
 
 

 

 

 

 

Se non c’è
anarchia,
c’è solitudine
e confusione nella coscienza civile, che si esprimono spesso in forma di ribelle individualismo.

 

C’è una rivalità antica, vissuta sottopelle, che si va trasformando in una “gridata” rivalità infinita, tra politica e finanza, tra Nord e Sud, tra compiti e competenze istituzionali. La letteratura sul federalismo dev’essere in crisi se la realtà che si cerca di modificare si colora ogni giorno di grottesco, non riuscendo più a distinguere un oroscopo da un embrione di laboratorio nei prodotti serviti o immaginati. Sono lontani i tempi in cui i tycoon della politica e delle istituzioni parlavano a monosillabi, privilegiando il linguaggio felpato dei documenti ufficiali. Adesso le regole sovrane della comunicazione impongono la babele delle lingue e accentuano l’abitudine al radicalismo verbale che rende più difficile la sintesi delle idee.
Così una questione seria, la questione federale, viene esposta a frequenti manipolazioni genetiche, portata avanti con risicate maggioranze parlamentari che non accreditano alcuna vittoria reale, sponsorizzata da testimonial di un processo a velocità variabile dal difficile e incerto esito finale (già s’intravede un centralismo regionale che vuole sostituirsi al centralismo statale). Mentre le aspettative della società civile, da tempo immerse in uno stato di panne strutturale, restano contaminate dal dubbio di non riuscire a modificare il passato e tantomeno a costruire il futuro.
Un paradosso salta subito agli occhi. In un periodo in cui si dà tanto credito alle lobbies e alle clientele, sul tema non si è mai aperto un tavolo ufficiale di concertazione o consultazione (la Confindustria ha elaborato recentemente una sua ricetta di decentramento proposta all’attenzione dei “governatori” che si apprestano a modificare gli statuti regionali, mentre ha attivato una Commissione per la riforma del suo statuto. Anche i sindacati hanno dato segnali di un dibattito interno centrato al momento più sulle passioni che sugli interessi).

Il vecchio orso cade nella vecchia trappola. Non è casuale che il federalismo sia vissuto tutto in chiave politica, appannaggio esclusivo di una politica ondivaga, intrisa di disastri e tranquillanti annunciati. Eppure, si potrebbero aprire spazi significativi all’interpretazione e maturazione della società italiana se si promuovesse un dibattito capillare sulle ipotesi attuative di un federalismo costituzionalizzato e istituzionalizzato. Un dibattito civile condotto al di là del certificato di battesimo, della notarile pubblicazione di una legge sulla Gazzetta Ufficiale. Ragionando in modo pragmatico e distaccato dagli umori degli exit polls.
In omaggio alla memoria storica occorre ricordare che la “domanda” federalista è nata e lievitata al Nord, alacremente sostenuta dalla parte più ricca e dinamica del Paese, smaniosa di liberarsi del centralismo statale portatore di una pressione fiscale ritenuta ossessiva, al punto da costituire per le imprese un forte elemento destabilizzante nella quotidiana dialettica competitiva. Un approccio molto riduttivo rispetto ad un riordino istituzionale motivato da valori e ragioni di democrazia federale, sintetizzati nella necessità di portare il livello decisionale quanto più è possibile vicino alla gente. Università, fondazioni, associazioni e centri di cultura di varia estrazione potrebbero dare contenuto e forma ad una cultura istituzionale innovativa rispetto al retaggio imperante di un antico dogmatismo illuminista (è ancora attuale il pregiudizio secondo cui tutto ciò che è pubblico è statale).
La domanda chiave (dando per scontata la poliarchia, alternanza di governo nella gestione democratica delle moderne democrazie industriali) riguarda la definizione di una struttura decisionale duttile e affidabile, per rendere possibile una convinta partecipazione popolare ad un modello di sviluppo sostenibile. Trovare cioè meccanismi istituzionali condivisi, che consentano una concordia discordante tra i cittadini, confortata da una sintesi e da una guida inconfutabili. Facendo appello ad una forte dose di fantasia creativa occorre coinvolgere la società nel suo complesso in una grande lezione di democrazia dal significato quasi pedagogico, per mettere punti fermi terminali all’attuale scompiglio delle anime e alla confusione delle urne e delle idee. Adottanto un Bignami delle regole elementari, al di fuori e al di sopra delle tesi partigiane e consociate della politica politicante.

Il modello istituzionale appartiene in via prioritaria alla società civile, esprime la proiezione del suo modo di vivere e dei suoi standard di efficienza. Un esempio. E’ possibile immaginare un referendum in cui i cittadini siano chiamati ad esprimersi sull’aumento o la riduzione di imposte statali o regionali? In tutti gli scenari immaginabili l’esito sarebbe scontato (e delegittimato) perché manca l’abitudine al coinvolgimento diretto del cittadino nei programmi di governo.
Negli Stati Uniti (nessuno può dubitare che siano ad un tempo Nazione e Federazione) il sondaggio della pubblica opinione con lo strumento referendario è prassi costante. In contemporanea con le ultime elezioni presidenziali, gli abitanti del Massachusetts hanno votato con referendum a favore della riduzione delle imposte statali (un cavallo di battaglia dei repubblicani). Si noti che l’esito di questo voto non è sempre a senso unico, ha un sostanziale valore consultivo ed esprime un momento significativo della dialettica amministrativa, tenuto in grande conto dalle forze politiche di governo (di solito lo rispettano e si adeguano).
Ci sono molte crepe nella nostra società civile che meritano attenzione preventiva in vista dell’attuazione di un progetto federale (una democrazia “giacobina” e centralista è cosa ben diversa da una democrazia federale e decentrata).
C’è una cultura dell’illegalità ampia e radicata che rende palpabile la scarsa percezione della giustizia e del suo potere intimidatorio. Si pensi ai concorsi truccati, alla storia infinita dell’abusivismo edilizio, alla corruzione documentata e non, ai caschi e alle cinture di sicurezza ignorati, alle macchine lanciate a 180 l’ora sulle autostrade, alla diffusa microcriminalità quotidianamente subita. C’è uno spirito corporativo ben cementato (dagli ordini professionali ai maggiori centri del potere economico e istituzionale). C’è ancora un’eccessiva sudditanza della burocrazia dalla classe politica poiché manca il filtro formativo di una Scuola della Pubblica Amministrazione che accrediti valori etici e tecniche di gestione. In particolare, c’è una burocrazia economica prodiga di incontri collegiali e avara di responsabilità decisionali (dallo Stato francese abbiamo preso il modello organizzativo ma non quello formativo).
Anche l’idem sentire della comunità nazionale appare fortemente assottigliato (ci sono divisioni profonde su temi cruciali come fisco, scuola, giustizia, sicurezza, immigrazione). Si ha la sensazione che al di là delle dispute centro-periferia sia venuto meno quell’ethos condiviso che dà forza e vigore al comportamento civico e all’impegno economico di una comunità (i desideri negati e le paure represse della società italiana sono ben fotografati dal Rapporto Censis 2000).

Due esigenze risultano prioritarie. La ricerca di sinergie tra imprese, università e istituzioni per rendere coniugabile la conquista storica dell’unità nazionale con l’efficienza economica e la promozione civile di una democrazia liberale; la ricerca di forme possibili di “coabitazione” istituzionale per temperare con contrappesi decentralizzati l’evoluzione spontanea della volontà generale (tornano in bacheca le riflessioni di Cattaneo e di Spinelli).
Churchill una volta ebbe a dire che il sistema funziona quando a decidere sono in due e uno è indisposto. Oggi il concetto di sovranità è caratterizzato da tratti di marcata collegialità che lo configurano come un “potere primo”, con responsabilità di sintesi rispetto a numerosi altri centri di potere con diritto di voce o di voto.
Proprio dalle difficoltà di sintesi nascono i disagi odierni, i segnali palesi della doppia crisi che investe la sovranità e la rappresentanza. Se non c’è anarchia, c’è solitudine e confusione nella coscienza civile, che si esprimono spesso in forma di ribelle individualismo. Mentre sul terreno politico la dialettica tra interessi nuovi e antiche ideologie produce una sorta di palinsesto new age dove gli alieni convivono con le amazzoni.
Pensata in questo clima surreale, la riforma federalista anziché produrre certezze istituzionali e chiudere una fase di riflessione sugli strati profondi e vitali della società italiana, apre un altro caso-monstre, una stagione di scontri tra poteri che allarga le maglie del contenzioso legale.
Intanto, la contesa centro-periferia si arricchisce di nuovi contenuti. A Barcellona si è tenuto recentemente il primo incontro dei presidenti di una quarantina di regioni europee con potere legislativo, appartenenti a dieci Stati diversi. Si è convenuto di rafforzare lo spirito di cooperazione e di chiedere il riconoscimento di un proprio organo permanente all’interno dell’assetto istituzionale della Comunità (si pensa ad un Comitato delle regioni con poteri consultivi).
Tornando a casa nostra, è sotto gli occhi di tutti la crisi di un sistema scheggiato. Di concreto c’è solo uno Stato destrutturato, senza che siano venuti meno i cromosomi statalisti che allignano nella società. Il rischio conseguente è che si producano nuove alienazioni, con la società civile che pone domande al presente e riceve risposte al condizionale. Da parte nostra rinnoviamo una domanda antica ad ogni politico impegnato negli esercizi di ingegneria istituzionale: «Eccellenza, what’s periferia?».

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000