Marzo 2001

VOCI DAL SUD

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L’incapacità progettuale
Sergio Di Lorenzo
 
 

 

 

 

 

Il ministero
dei Lavori Pubblici, per giudicare
la fattibilità
del ponte
tra Scilla e Cariddi,
deve chiamare una società americana.

 

Nessuno dubita ormai che l’Italia abbia accumulato gravissimi ritardi nelle grandi infrastrutture rispetto ai partners europei. Soprattutto, si comincia (soltanto) ora a capire che senza un complesso ed efficiente sistema di mobilità per le persone e per le cose la new economy non potrà decollare. C’è, comunque, chi parla di numeri, e chi resta più nel vago, a proposito di grandi opere da realizzare. Ma, se ormai è palese che in qualche direzione sarà pur necessario muoversi, è invece buio pesto, almeno per ora, sul che fare, su quali priorità puntare, sul come e sul quando fare. E intanto sono almeno quattro i nodi che sarà necessario sciogliere in via preliminare.

Progetto-Paese. Il Parlamento continua ad esaminare il Piano decennale dei trasporti. Il fatto è che gli archivi di Stato sono pieni di piani approvati e mai realizzati. Il motivo fondamentale della naufragabilità dei nostri piani è che essi, nella migliore delle ipotesi, mirano a risolvere problemi già esistenti, spesso lasciati incancrenire da anni di inazione. Ma questo non basta, perché manca una visione anticipatrice del futuro. Senza di essa non possono essere progettate e realizzate le opere innovatrici sulle quali il Paese possa costruire il proprio avvenire.
Si legge, ad esempio, nella proposta di Piano dei trasporti, che è necessario ammodernare l’autostrada Salerno-Reggio Calabria. Ma questa è un’opera già in ritardo sui tempi. Il futuro è invece là dove finisce l’autostrada. Quale sistema di trasporti multimodale potrà innervarsi nell’incredibile successo del porto transoceanico di Gioia Tauro? E il ponte sullo Stretto di Messina si farà o non si farà?
Più in generale, non c’è traccia, nel Piano, della questione meridionale. Se ne conclude che, per inconsapevolezza o per incapacità, si sta accettando di abbandonare definitivamente il Sud al destino di regione periferica rispetto alla Mitteleuropa, proprio ora che i grandi flussi migratori tra Sud e Nord e le poderose correnti commerciali tra Est e Ovest del mondo possono riproporre il Mezzogiorno come fulcro centrale di un nuovo sistema di trasporti euro-mediterranei.
Rispetto a queste domande strategiche il Piano è muto. Pertanto, l’esigenza di una pianificazione strategica va posta con decisione alle forze politiche, che oggi non sembrano avvertirne l’indispensabilità.

Capacità progettuale. Negli anni Sessanta c’è stato il “miracolo economico” italiano. In quell’epoca si è realizzata, tra l’altro, l’Autostrada del Sole: un’infrastruttura fondamentale, che è risultata in anticipo rispetto a realizzazioni simili costruite successivamente in Francia, in Inghilterra e in Spagna.
Sull’onda della voglia di progettare e della capacità di realizzare, l’Italia vide allora la fioritura di grandi società di ingegneria (Italconsult, Bonifica, Elettroconsult, Ctip, Snam Progetti, Techint, Sauti), che hanno primeggiato all’estero con opere geniali, dallo spostamento dei templi egiziani di Abu Simbel alle grandi dighe africane dello Zambesi, dai tunnel transandini per deviare le acque del Rio delle Amazzoni verso il deserto peruviano, ai porti sul Rio de la Plata.
Purtroppo, la loro stagione è stata breve. Esse infatti non hanno potuto sviluppare solide radici in casa propria, perché in Italia c’era e c’è una legge che incredibilmente ne vieta l’attività. In questo modo, in seguito alla crisi petrolifera del 1973, cominciò il loro declino: di quello straordinario patrimonio di know-how e di creatività non è rimasto niente.
Ora l’Italia non ha più alcuna capacità di produrre grande ingegneria, non solo all’estero, il che è grave per il nostro prestigio, ma neppure nel Paese, il che è pregiudizievole per lo sviluppo. Il ministero dei Lavori Pubblici, per giudicare la fattibilità del ponte tra Scilla e Cariddi, deve chiamare una società americana. L’Enel, dovendo riordinare l’Acquedotto Pugliese, è costretta ad affidarsi a un consulente britannico.
Questa pesante lacuna è una seria ipoteca per il nostro futuro. Infatti, per quanto sinceri possano essere gli impegni presi, il governo non sarà in grado di far partire in tempi brevi neppure una sola grande opera. Non abbiamo i progetti esecutivi per il ponte sullo Stretto, ma neanche per il “Mose” di Venezia e, addirittura, per la linea “C” della metropolitana di Roma, da anni annunciata e mai progettata. In ultima analisi, dietro i politici che promettono, e gli ambientalisti che protestano, c’è un vuoto, praticamente pneumatico, d’ingegneria.
Allora, se per davvero si vuole passare dalle parole ai fatti, c’è bisogno di un impegno chiaro ed esaustivo di abolire la legislazione che rende illegali le società di ingegneria in Italia. E’ un caso unico al mondo. La legge, fatta nel clima razziale che intendeva vietare l’accesso degli ebrei alle professioni liberali, poi è stata strenuamente difesa sia dalla corporazione dei liberi professionisti, abbarbicati all’obbligatorietà delle tariffe professionali, sia dalla casta degli accademici, sempre più inadeguati rispetto alla complessità dei problemi e sempre più chiusi nella difesa dei propri privilegi.

Equivoco ambientalista. I nostri ambientalisti sono affezionati a un’idea profondamente emotiva, ma politicamente molto redditizia. Essi ci raccontano che il mondo è diviso in due. Da una parte ci sono i buoni, che operano secondo le leggi della Natura. Dall’altra ci sono i cattivi, che agiscono sotto la spinta del profitto e della tecnologia. Così, quando ci sono piogge torrenziali e i fiumi esondano, ciò avviene come reazione al fatto che i corsi d’acqua sono stati “violentati” dalle opere degli uomini. Per costoro, quindi, l’unico rimedio è la “rinaturazione”: il fiume torni brado, e faccia quel che faceva prima, cioè quello che voleva.
Ma questa è un’idea irrazionale e fuorviante. Il corso d’acqua, lasciato alla sua evoluzione naturale, in montagna ha un’azione di erosione, determinando la franosità dei versanti; in pianura, invece, alimenta incessantemente un’opera di sedimentazione, rendendo instabile ogni suo tracciato. Pertanto il corso d’acqua, lasciato alla sua “naturalità”, renderebbe impossibile la vita dell’uomo. Di conseguenza, l’uomo, se vuole sopravvivere, deve regolare il fiume, così come deve costruire case, ponti, strade e fabbriche.

Lo spartiacque, allora, non è tra gli ambientalisti, i quali vogliono proteggere la Natura, e i fautori dello sviluppo, che vogliono violentarla. E’ da tutt’altra parte: è fra chi è in grado di fare buoni progetti, e chi non lo è. E’ dal 1989 che opera la legge per la difesa del suolo. Da allora sono proliferate le Autorità di bacino e sono stati spesi migliaia di miliardi. Ma le alluvioni sono continuate. Il rimedio non è liberare i fiumi e riconsegnarli alla Natura, ma programmare più attentamente le opere sul territorio, progettare argini più adeguati, realizzare invasi di laminazione delle piene, installare sofisticati sistemi meteorologici.
Per fare tutto questo, ci vogliono meno ambientalisti e più ingegneri, meno politici e più programmatori. L’uomo, in definitiva, non può estraniarsi dalla Natura, come qualsiasi altro essere vivente non può non interagire con il proprio habitat naturale. Si sente fortemente l’esigenza di superare un ambientalismo primitivo e privo di senso, per andare verso una nuova idea di co-evoluzione tra l’uomo e l’ambiente, che miri a una crescente e più armonica complessità.

Finanziamenti. Per riguadagnare almeno in parte terreno e tempo perduti, l’Italia dovrebbe spendere in pochi anni da 300 a 400 mila miliardi di lire. Siccome nel bilancio dello Stato questi quattrini non li troveremo mai, sarà necessario rivolgersi ai finanziamenti privati. La legge che consente il coinvolgimento dei privati nella costruzione e nella gestione delle opere pubbliche è stata varata nel 1999: è la cosiddetta “Merloni ter”. Ma questa legge è stata fatta chiaramente controvoglia: il legislatore, ancora fondamentalmente statalista, ha fatto finta di aprire la porta ai privati, ma dietro la porta ha provveduto a costruire un labirinto di norme, di vincoli e di adempimenti praticamente insuperabili. La legge, così, è rimasta lettera morta. Senza una nuova legislazione, che creda davvero al contributo dei privati, i soldi non ci saranno e le opere non si faranno. Ma ne prenderanno mai atto i responsabili dello sviluppo del Paese e del Sud?

   
   
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