Marzo 2001

A PROPOSITO DI REGOLE ANTIRICICLAGGIO

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Le banche
fra trasparenza e riservatezza
Donato Masciandaro
Professore di Economia Monetaria, Univ. Bocconi e Univ. di Lecce
 
 

 

 

 

 

Occorre studiare una regolamentazione che condizioni
gli incentivi per
la banca coinvolta nella funzione
antiriciclaggio,
affinché la sua
condotta sia il più possibile efficace.

 

1. Introduzione

«[...] Le azioni delle Banche centrali sono uscite dal silenzio, forse per non più ritornarvi; se quel silenzio è stato in passato percepito come garanzia di indipendenza, oggi l’indipendenza si realizza nel rendere conto esplicito della propria azione in modi e tempi che non ne compromettano l’efficacia».
Questa frase fu pronunciata dal Governatore Paolo Baffi nel 1976; oggi se sostituite all’espressione “le Banche centrali” semplicemente “le banche”, la considerazione di Baffi diventa di straordinaria attualità, perché coglie una fase importante e delicata del modo di far banca in Italia, che riguarda l’aspetto fondamentale di tale attività: la gestione delle informazioni sui clienti nei rapporti con terzi soggetti, in particolare le istituzioni pubbliche.
Le banche si trovano sempre di più a dover perseguire due finalità, entrambe essenziali per un corretto e proficuo svolgimento dei propri servizi. Da un lato, nel rapporto con i clienti, siano essi famiglie e imprese, la continua evoluzione dei prodotti offerti, con un aumento del loro numero e della loro complessità, continua a poggiarsi su una base di riservatezza, che è fisiologica in un’industria che produce e distribuisce beni fiduciari. Dall’altro lato, esigenze legate a finalità di interesse generale, quale la difesa dell’ordine pubblico, spingono le autorità ad utilizzare le banche in una funzione ausiliaria, in cui è proprio il patrimonio informativo delle banche sui propri clienti al centro dell’attenzione. In questo senso, emerge sempre di più la necessità di trovare un equilibrio tra riservatezza e trasparenza, che consenta di coniugare l’esigenza microeconomica aziendale di scegliere condotte coerenti con la creazione di valore economico, con la finalità macroeconomica di disegnare politiche pubbliche efficaci. La ricerca di tale equilibrio è particolarmente avvertita nelle banche locali, dove il radicamento territoriale e il rapporto diretto con i clienti continua a caricarsi di peculiari significati, anche con l’avvento delle applicazioni, nelle attività bancarie, delle nuove tecnologie dell’informazione.
L’importanza di rendere “conciliabile” il “duetto” trasparenza-riservatezza emerge in tutta evidenza prendendo in esame la regolamentazione antiriciclaggio, che è, sotto questa prospettiva, realmente paradigmatica.

2. Il rapporto banca-clienti-autorità fra trasparenza e riservatezza: il caso delle regole antiriciclaggio

La riforma della disciplina antiriciclaggio – D. Lgs. 26 maggio 1997, n. 153 – e le ipotesi di un Testo Unico Antiriciclaggio, nonché l’ultima versione del Decalogo della Banca d’Italia, che ha visto la luce lo scorso 17 gennaio, rappresentano nelle intenzioni delle autorità un punto di svolta nel rapporto tra sistema bancario ed esigenze pubbliche di lotta alla criminalità.
Due i princìpi cardine di tale svolta: netta separazione tra area finanziaria e area investigativa, con l’UIC a rappresentare il filtro tra il mondo bancario e quello ispettivo-giudiziario; depenalizzazione. Con una motivazione di fondo: modificare un quadro normativo che ha fino ad oggi prodotto risultati non lusinghieri in termini di significatività delle segnalazioni (inefficacia), e costi certi – materiali ma soprattutto immateriali – per il sistema bancario (inefficienza).

La disciplina antiriciclaggio assegna agli operatori bancari compiti di pubblica utilità, che si affiancano alla missione aziendale principale di produrre reddito, offrendo in modo efficiente servizi bancari competitivi. Va osservato che la caduta delle barriere competitive nazionali, conseguente all’introduzione della moneta e del mercato unici, accentuerà la spinta congiunta alla ricerca dei ricavi e alla compressione dei costi; nel contempo si chiede agli operatori bancari efficacia nella collaborazione attiva nella prevenzione e nel contrasto del riciclaggio del denaro, attività criminosa le cui dinamiche saranno anch’esse influenzate dal progressivo integrarsi e globalizzarsi degli scambi creditizi e finanziari.
In entrambi gli ambiti – missione aziendale e compito di pubblica utilità – è centrale il rapporto con il cliente.
Nel quadro della lotta alla criminalità, l’azione di contrasto nei confronti del riciclaggio dei proventi illeciti ha assunto un ruolo strategico per due differenti ragioni. La prima è che il riciclaggio costituisce un forte fattore di inquinamento del sistema economico, poiché determina rilevanti flussi finanziari non orientati da aspettative di un’efficiente allocazione delle risorse, impedendo un corretto sviluppo della concorrenza.
La seconda consiste nella vulnerabilità delle organizzazioni criminali nel momento in cui tentano di ripulire i proventi illeciti, in quanto il contatto con operatori sani, soprattutto in presenza di un approccio collaborativo da parte di questi ultimi, eleva la possibilità di individuare fenomeni illeciti.
L’impegno a combattere la criminalità passa, quindi, attraverso un efficace contrasto del riciclaggio dei proventi illeciti. A livello scientifico, invece, il contrasto della criminalità richiede l’impegno a capire in profondità le sue origini e i suoi meccanismi di riproduzione.
In particolare, nel quadro del contrasto al riciclaggio l’analisi economica può fornire due importanti contributi: proporre una chiave di lettura dei comportamenti degli agenti economici coinvolti nell’attività di riciclaggio, ad esempio gli intermediari finanziari, e contribuire a mettere a punto strumenti di regolamentazione antiriciclaggio efficaci.
La ricostruzione delle caratteristiche della normativa italiana sulla base dell’analisi economica fa emergere, a ben vedere, una sorta di doppio paradosso.
Da un lato vi è quello che possiamo chiamare “paradosso della collaborazione”: tutta la regolamentazione antiriciclaggio, dal 1991 ad oggi, è incentrata sul concetto di collaborazione attiva da parte degli intermediari, cioè di comportamenti autonomi volti a segnalare situazioni anomale nella gestione dei flussi finanziari. I risultati dell’applicazione di tale principio sono finora non entusiasmanti; secondo alcuni, anzi, francamente deludenti.
La ragione? E’ l’analisi economica a indicarcela: qualunque soggetto ha un comportamento attivo solo se da esso ne scaturisce un qualsivoglia vantaggio, vale a dire se esistono gli opportuni incentivi ad adottare una determinata condotta.
L’incentive approach ci insegna che, se la condotta di un determinato soggetto economico non è quella attesa ovvero auspicata, il problema va individuato analizzando le regole del gioco, formali e informali, che condizionano e indirizzano tale soggetto.
Nel nostro caso le regole del gioco sono rappresentate, soprattutto, dalla normativa antiriciclaggio. Dunque la normativa antiriciclaggio non ha creato gli incentivi necessari per indirizzare gli intermediari verso le condotte auspicate.
Occorre allora comprendere meglio le caratteristiche e le esigenze aziendali degli intermediari, per poi individuare gli incentivi giusti per comprendere quali sono gli spazi effettivi per attuare il principio di collaborazione attiva.
Per fare questo è necessario partire da quella che è, o dovrebbe essere, la missione aziendale di un qualunque intermediario: rendere massima la redditività del capitale in esso investito. Una tale missione aziendale implica, di conseguenza, l’opportunità di definire strategie di prodotto, da un lato, e di impiego dei fattori produttivi, dall’altro, che siano ottimali dal punto di vista dell’efficienza.
Se l’intermediario si caratterizza per una tale missione aziendale, cosa accade se l’autorità pubblica chiede a tale soggetto di svolgere un compito ulteriore, funzionale ad un’esigenza generale di primaria importanza? L’interme-diario verosimilmente valuterà quali sono i costi attesi e i guadagni attesi che possono essere generati da tale compito, e se la somma algebrica è positiva collaborerà attivamente.
Ora valutiamo in questa ottica gli aspetti salienti della normativa antiriciclaggio italiana. In termini di costi attesi, possiamo individuare due grandi categorie di costo: a) i costi tecnico-operativi, o materiali, o interni; b) i costi di reputazione o di ritorsione, o immateriali, o esterni.

a) i costi tecnico-operativi, o materiali, o interni, sono legati alla messa in atto all’interno dell’azienda di tutti quegli investimenti in capitale fisico e in capitale umano che occorrono per assolvere in modo efficace il nuovo compito;
b) i costi di reputazione o di ritorsione, o immateriali, o esterni, sono legati all’impatto che il nuovo compito può avere nei rapporti che l’intermediario ha con il complesso della sua clientela, nella gestione del passivo come dell’attivo.

All’intermediario si chiede di utilizzare per finalità pubbliche – in questo caso assolutamente condivisibili – un patrimonio di informazioni che è però privato, essenzialmente dei clienti.
In linea di principio, ogni intermediario inconsapevolmente può svolgere transazioni o in generale offrire servizi a soggetti i cui redditi hanno, almeno in parte, origine illecita. Vi è però un notevole problema di “estrazione del segnale”. Infatti occorre che siano contemporaneamente vere le seguenti ipotesi:

– se la transazione svolge una funzione illegale, il riciclaggio, che si sostituisce o si affianca alla sua funzione lecita usuale, occorre che tale caratteristica si rifletta in un’anomalia della transazione stessa (ipotesi di anomalia);

– se esiste ed è riconoscibile tale anomalia, essa deve essere univocamente riconducibile allo svolgimento della funzione illegale (ipotesi di univocità).

In altri termini, occorre tener conto che la particolare natura dei beni trattati nell’industria bancaria – sono beni fiduciari per eccellenza, perciò immateriali – rende assai probabili i rischi di errore, sia del primo sia del secondo tipo.
Gli errori del primo tipo si commettono quando non vale l’ipotesi di anomalia, per cui una transazione che svolge, oltre o in sostituzione della sua funzione legale, anche quella illegale, non assume tratti o caratteristiche di anomalia. Quanto più sono probabili gli errori del primo tipo, tanto meno efficace sarà lo svolgimento del compito antiriciclaggio, a parità di costi materiali e immateriali.
Gli errori del secondo tipo si commettono invece quando non vale l’ipotesi di unicità, per cui una transazione con tratti di anomalia non nasconde lo svolgimento della funzione illecita. Quanto più sono probabili gli errori del secondo tipo, tanto più alti sono i costi attesi immateriali, in termini di rischi di perdita di reputazione con il cliente, a parità di costi immateriali.
Va inoltre osservato che per propria stessa natura le operazioni finalizzate al riciclaggio sono spesso efficacemente dissimulate e presentano caratteristiche di elevata mutevolezza e variabilità nel tempo e nello spazio. Per questo la classificazione tassonomica delle operazioni (compiuta nel “Decalogo”) non può che essere meramente indicativa e soggetta a rapida obsolescenza. Ne deriva che i sintomi dai quali gli intermediari dovrebbero ricavare segnali di possibile riciclaggio sono spesso confusi e in molti casi poco aderenti alla realtà e alle specificità operative. La strumentazione di warnings a disposizione degli intermediari è quindi scarsamente fruibile e può indurre a commettere errori: per evitarli è giocoforza adottare un approccio estremamente cautelativo che minimizzi il numero delle segnalazioni.
Infine, anche in un contesto in cui è nulla la probabilità di errori del primo e del secondo tipo, esiste la possibilità di emersione di rischi di ritorsione, in quanto una segnalazione corretta rende disponibile alle autorità il patrimonio informativo di un soggetto i cui redditi sono, in tutto o in parte, di origine illecita.
Inoltre – e qui troviamo il secondo paradosso – l’aver concentrato esclusivamente l’attenzione della normativa sugli intermediari bancari e finanziari può aumentare i costi immateriali attesi. Se gli intermediari bancari, a causa dei compiti antiriciclaggio, si caratterizzano rispetto ad altri operatori e fornitori di servizi per una domanda aggiuntiva di informazioni, questo può avere effetti non attesi e non desiderati sui clienti, riducendo, a parità di costi per gli intermediari, la stessa efficacia della normativa. Si può pensare, infatti, ad un effetto “vasi comunicanti”, in cui, in presenza di normative severe in un “vaso”, le operazioni illecite vengono comunque effettuate, approfittando del lassismo in altri “vasi”. In questo senso appare opportuna la direzione presa in via comunitaria, volta ad estendere l’obbligo delle segnalazioni a soggetti anche non finanziari ma che, per le caratteristiche dell’attività svolta, si prestano ad essere utilizzati per finalità di riciclaggio.

Evidenziate le possibili fonti di costo che il compito antiriciclaggio può far emergere per il singolo intermediario, chiediamoci quali possono essere i guadagni attesi di tale normativa.
In primo luogo, sono stati più volte evidenziati i possibili guadagni informativi: la necessità, creata dalla legge, di assumere in taluni casi maggiori informazioni su operazioni dei clienti aumenta il patrimonio informativo che l’intermediario ha con i propri interlocutori, migliorando le sue possibilità di allocare in modo conveniente ed efficiente i suoi prodotti finanziari e il suo credito.
In secondo luogo, vanno ricordati i guadagni attesi legati al minimizzare il rischio denuncia per mancato adempimento del compito antiriciclaggio. Ove difatti le autorità accertassero, per vie diverse dalla (mancata) segnalazione di anomalia, la presenza di operazioni illegali, scatterebbero le sanzioni (pecuniarie e penali) di legge a carico dei responsabili.
Dunque, a fronte dei costi materiali e immateriali di varia natura, gli intermediari dovrebbero mettere in conto dei vantaggi informativi e di tipo, se vogliamo, assicurativo, legati al minimizzare la probabilità di incorrere in sanzioni.
Si potrebbe a lungo discutere sull’entità effettiva o attesa di tali guadagni attesi. Il dato di fatto, data l’insufficiente collaborazione attiva lamentata dalle autorità, è che essi senza dubbio non compensano i costi attesi. Inoltre, le fonti di tali guadagni non appaiono suscettibili di sensibili e ulteriori incrementi di efficacia, ottenibili, magari, con modifiche delle norme volte ad ottenere tali risultati.
Per quel che concerne i guadagni informativi, è evidente come, in un contesto in cui sempre maggiore è finalmente la competizione, l’incentivo per gli operatori bancari a raccogliere informazioni utili a collocare meglio i servizi di pagamento, di credito e in generale finanziari è oramai un dato di fatto, che perciò non abbisogna di ulteriori additivi o di stimoli.
Le autorità non sono in grado di arricchire questo tipo di patrimonio informativo e si sono fin qui astenute dal mettere a disposizione degli intermediari, in tempi e con modalità opportune, informazioni di altro tipo che potrebbero invece essere utili a prevenire comportamenti fraudolenti da parte della clientela. Ci si riferisce a dati raccolti dalle forze di polizia o a disposizione negli archivi di varie istituzioni (documenti smarriti e rubati, liste elettorali, codici fiscali, utilizzo nominativi falsi, false ragioni sociali, etc.), che potrebbero confluire in un archivio centralizzato a disposizione degli intermediari finanziari e che costituirebbe, analogamente a quanto accade in altri Paesi dell’Unione (Regno Unito, Olanda e altri), un efficace strumento per prevenire le frodi creditizie. Questo tipo di contributo permetterebbe di compensare, sia pure parzialmente, il costo sostenuto dagli intermediari per raccogliere e canalizzare verso le autorità un flusso normativo che, allo stato, è totalmente unidirezionale.
Per quel che riguarda invece i guadagni da assicurazione contro il rischio incriminazione, non ci si illuda di incrementarli, ad esempio, attraverso un inasprimento dell’approccio penale al problema. La ragione di questo nostro convincimento è facilmente spiegabile.
Un risultato oramai acclarato, nell’analisi economica come nella disciplina giuridica, è la ridotta efficacia dell’approccio penale nell’industria bancaria e finanziaria, stante la particolare natura dei beni e dei servizi trattati, che si riverbera, tra l’altro, in crescenti difficoltà di ricostruzione ex post delle situazioni verificatesi ex ante, quindi di attribuzioni di ruoli e responsabilità effettive. Dunque, la disamina dell’analisi dei costi attesi e dei benefici attesi che i compiti antiriciclaggio possono produrre sul singolo intermediario sembra suggerire una chiara spiegazione della ridotta efficacia della normativa. Occorre allora chiedersi quale strategia adottare, allo scopo di ridurre i costi attesi della normativa e/o aumentare i guadagni attesi della stessa.
A tale scopo, dati i costi materiali, a quantificazione difficile ma non impossibile, è indispensabile conoscere meglio la natura dei costi immateriali, il che significa per il futuro approfondire sempre di più l’impatto sul rapporto banca-cliente della normativa antiriciclaggio.

3. Conclusioni

Obiettivo delle pagine precedenti era quello di offrire uno schema di analisi utile a mettere in luce l’importanza della ricerca di un equilibrio, nel complesso delle relazioni banca-cliente-autorità, tra tutela della riservatezza ed esigenze di trasparenza.
In conclusione: si deve innanzitutto ribadire come un’analisi del riciclaggio e della relativa regolamentazione possa permettere di capire come indirizzare correttamente la condotta degli intermediari, allo scopo di coniugare l’efficienza della loro condotta con l’efficacia nel perseguimento di obiettivi di pubblica utilità. Inoltre, lo studio dell’azione pubblica di deterrenza e di contrasto non può fare a meno di un modello economico e aziendale costi-benefici, che consenta di studiare e prevedere le conseguenze di interventi, come quelli della regolamentazione antiriciclaggio, che incidono sull’attività economica degli intermediari finanziari.
Il modello di analisi ha preso in esame il caso degli intermediari onesti (o inconsapevoli), che i legislatori considerano ormai un fulcro della regolamentazione antiriciclaggio. La banca onesta viene interpretata come un’organizzazione economica orientata alla massimizzazione del profitto, che dispone di un patrimonio informativo specifico sui soggetti economici operanti su un dato territorio.
La razionalità della banca si riflette nella volontà di rendere massima la differenza tra ricavi e costi, per cui la regolamentazione antiriciclaggio, se vuole influenzare il comportamento dell’intermediario, deve partire dalla consapevolezza che occorre incidere in modo equilibrato sulla struttura dei ricavi e dei costi, considerato che la regolamentazione comunque accresce i costi. I compiti antiriciclaggio, infatti, comportano per le banche l’assunzione di due tipi di costi; investimenti in capitale (fisico e umano) e riduzioni della segretezza verso i clienti (asset strategico nell’attività di intermediazione).
Nell’analisi dell’intermediario onesto due questioni giocano un ruolo cruciale: distribuzione dell’informazione e incentivi. La prima è cruciale, nel disegnare una regolamentazione efficace, sotto tre diversi punti di vista: rilevanza del patrimonio informativo dell’intermediario, non verificabilità dell’impegno (oneroso) dell’intermediario nell’eventuale azione antiriciclaggio, non verificabilità dell’incidenza dei fattori esogeni sull’efficacia della regolamentazione.
L’autorità pubblica sceglie di contrastare il riciclaggio servendosi della banca, per via della specificità del suo patrimonio informativo, e delegandole l’azione di identificazione e segnalazione antiriciclaggio (sotto l’ipotesi, che caratterizza tutta la normativa antiriciclaggio, che il tentativo di ripulitura da parte del criminale lasci una traccia, un’anomalia, che la banca può rilevare grazie al proprio patrimonio informativo).
L’azione viene svolta dall’intermediario con un impegno, oneroso, che il legislatore non può osservare direttamente, ma da cui dipenderà, in gran parte, l’efficienza dell’antiriciclaggio. Il secondo problema informativo, la non osservabilità dell’impegno della banca nell’adempimento della delega, obbliga a pensare una regolamentazione antiriciclaggio che possa produrre non solo costi, ma anche benefici alle banche.
Occorre cioè studiare una regolamentazione che condizioni gli incentivi per la banca coinvolta nella funzione antiriciclaggio, affinché la sua condotta sia il più possibile efficace rispetto a tale funzione, senza ridurre l’efficienza nello svolgimento dei suoi compiti propri.
Nei futuri interventi legislativi dovrà certamente essere confermata e rafforzata la logica di intervento, presente nel D. Lgs. 153 del 1997, nel quale il legislatore ha ricercato la collaborazione degli intermediari e delle autorità coinvolte, rifiutando un approccio meramente sanzionatorio. Concordiamo pienamente con chi afferma che non può ritenersi che il pieno rispetto della normativa antiriciclaggio possa essere imposto al sistema dall’esterno con strumenti coercitivi; occorre invece raccogliere una convinta adesione degli intermediari ai valori dell’autonomia, integrità e della legalità.
In futuro la disciplina antiriciclaggio non dovrà in alcun modo essere considerata un elemento estraneo nel generale ordinamento della finanza, essendo un settore della regolamentazione che partecipa e concorre al perseguimento delle finalità di fondo della trasparenza, correttezza e prudenza della gestione aziendale e della stabilità, competitività e buon funzionamento del sistema finanziario.
Il nuovo “Decalogo” della Banca d’Italia va nella giusta direzione. «Conosci i tuoi clienti, ma anche e soprattutto i tuoi colleghi e i tuoi concorrenti, nazionali e internazionali»: questo potrebbe essere lo slogan del nuovo “Decalogo” della Banca d’Italia, che fissa delle regole di buona condotta per ridurre i rischi di inquinamento delle banche, assicurazioni e finanziarie da parte del crimine, organizzato e non. Di fronte ai nuovi rischi che lo sviluppo dell’e-banking, la crescita dei centri off-shore, e, in misura minore, anche la transizione all’Euro possono produrre, la Vigilanza cerca di “giocare d’anticipo”.
Era il 1993 quando per la prima volta la Banca d’Italia formulava delle indicazioni utili agli operatori per prevenire l’utilizzo delle proprie aziende per finalità di riciclaggio del denaro sporco. Da allora sono cambiate caratteristiche fondamentali dei mercati bancari e finanziari: le dimensioni assolute, il livello di concorrenza, il grado di globalizzazione, la profondità e la varietà dell’innovazione di prodotto e di processo, tecnologica e non, l’armonizzazione delle regole, ancorché sempre incompleta.
Il rischio di riciclaggio dei capitali illeciti non si è abbassato, anzi. Tutti i processi prima ricordati hanno senz’altro effetti positivi sull’efficiente allocazione delle risorse, reali e finanziarie, lecitamente prodotte o distribuite. Ma di pari passo aumentano anche le possibilità per chi accumula illecitamente redditi e patrimoni di renderli “inodori, insapori e incolori”, per essere poi in grado di compiere in tutta tranquillità le proprie scelte di consumo e di investimento, moltiplicando, per questa seconda strada, il proprio potere d’acquisto, e di riflesso il proprio peso economico, sociale e politico.
Il riciclaggio dei capitali è così un cancro letale per il regolare funzionamento dei mercati, in quanto consente a soggetti criminali di poter contare su dotazioni di risorse sempre più cospicue, e con esse porsi in vantaggio non solo per competere, ma anche e soprattutto per distorcere a proprio vantaggio le regole del gioco: comportamenti sleali, abusi, collusioni e corruzioni divengono una micidiale Idra per operatori e imprese leali.
Ma se oggi è condivisa la pericolosità macroeconomica del riciclaggio, meno scontata è l’autentica adesione, a livello microeconomico, di ciascun operatore alla lotta contro questo fenomeno, soprattutto quando la crescente competizione può, da un lato, innalzare la propensione al rischio, dall’altro, accorciare o addirittura deviare l’orizzonte temporale dell’analisi costi-benefici, con il risultato di render allettante ogni applicazione del vecchio adagio pecunia non olet.
Di fronte al pericolo che queste tentazioni si materializzino, il “Decalogo” declina in forme nuove un principio che traspariva fin dalla sua prima edizione: un’efficace azione macro contro il riciclaggio si fonda sulla ricerca di microfondamenta aziendali che sposino l’efficienza con l’integrità. Al centro dell’attenzione del “Decalogo” vi è l’azienda, sia essa bancaria, finanziaria e assicurativa, con i suoi uomini, la sua missione di creazione di valore, i suoi patrimoni visibili e invisibili, quali l’informazione, la reputazione, la riservatezza.
La convenienza ad evitare infiltrazioni o coinvolgimenti inconsapevoli in operazioni che possono ledere i patrimoni aziendali deve emergere nell’analisi costi-benefici di tutti gli organi di decisione e di responsabilità: a partire dal CdA, passando dal Collegio Sindacale e dai CEO, scendendo verso quadri e impiegati. Solo in questo modo possono essere neutralizzati quei singoli comportamenti, esterni o interni, come l’infedeltà aziendale, che possono finire per provocare danni, patrimoniali e non, all’impresa nel suo complesso.
Se in prospettiva la dimensione e la complessità del meccanismo di produzione e di distribuzione dell’informazione che sta alla base di ogni attività bancaria e finanziaria non potranno che crescere, anche per la diffusione delle applicazioni delle ICT, diviene vitale per ogni azienda, se vuol minimizzare il rischio riciclaggio, che ogni suo ganglio utilizzi al meglio tutte le informazioni, non solo sui clienti, ma anche su tutti gli interlocutori, esterni come interni, in un rapporto costruttivo con le autorità di settore, che poi filtrino ciò che è rilevante verso le autorità investigative e inquirenti, tutelando gli intermediari.
La ricerca di un equilibrio tra efficienza e integrità non può che passare dal disegno di meccanismi che incentivino i comportamenti virtuosi, aziendali e di mercato. E in un Paese tradizionalmente avvezzo agli abusi di statalismo e di dirigismo, da un lato, ma già pronto oggi ad essere palestra dei cosiddetti abusi di mercato, è questa la vera sfida.

Riferimenti bibliografici


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