Marzo 2001

UN UTILE STRUMENTO PER L’ANALISI ECONOMICO-TERRITORIALE

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I sistemi locali del lavoro
Dino Viterbo
 
 

 

 

 

 

Emerge
il notevole divario tra il Mezzogiorno
e le altre ripartizioni territoriali, divario che le politiche
di intervento
straordinario non sono state in grado di colmare.

 

L’organizzazione del territorio e della società locale improntata al modello fordista-keynesiano, che aveva dominato la scena mondiale sin dagli anni Venti, iniziò a denunciare a partire dagli anni Settanta segni manifesti di crisi. Al fallimento dell’imposizione alle regioni economicamente più arretrate dei modelli di crescita affermatisi con successo nelle aree a tradizionale vocazione produttiva, presupponendo che «la diffusione dello sviluppo si sarebbe realizzata senza incontrare ostacoli in quanto l’ambiente veniva concepito come passivo, indifferenziato e incapace di auto-organizzarsi» (Conti, 1997), si aggiunse il declino della polarizzazione industriale anche nelle aree forti.
I cambiamenti del mercato, e particolarmente la sua crescente segmentazione, i costi e le rigidità della gerarchia delle grandi imprese fordiste, il processo di globalizzazione sollecitato dalla progressiva liberalizzazione del commercio internazionale (dovuto, fra l’altro, alla creazione della World Trade Organization nel 1986) e all’azione delle imprese transnazionali (Giaccaria, 1999) sempre più numerose a seguito di acquisizioni, fusioni e joint-venture tra società di Paesi diversi, e, infine, l’incremento della concorrenza internazionale a seguito dello sviluppo di Paesi di nuova industrializzazione (Newly Industrializing Countries, NICs), possono essere annoverati tra le cause della crisi del modello organizzativo fondato sulla produzione di massa. Da ciò scaturì l’avvicendamento tra il paradigma tecnologico proprio del fordismo, e cioè la produzione standardizzata, e quello che Piore e Sabel (1984) definirono come il nuovo paradigma dell’organizzazione industriale, rappresentato dalla specializzazione flessibile. Con una domanda da parte del mercato sempre più polverizzata e differenziata, una struttura che sia flessibile, cioè in grado di seguire tale domanda nei suoi continui mutamenti, e che sia specializzata per far fronte alla incessante richiesta di una qualità superiore, rappresenta la soluzione produttiva ottimale.
Essendo flessibilità e specializzazione prerogative soprattutto di strutture produttive di ridotte dimensioni, ne è derivato l’affermarsi delle piccole imprese non solo a un livello locale, caratteristica questa che esse non avevano perso neppure negli anni di pieno dominio della produzione di massa centrata sulla grande impresa fordista, ma anche a un livello sopranazionale, specialmente in produzioni influenzate dalla moda e in quei settori in cui il processo produttivo è divisibile in fasi diverse (Trigilia, 1994).
Punti di forza di questo processo sono: l’introduzione di nuove tecnologie (microelettronica e informatica, che coinvolgono oggi la quasi totalità della produzione manifatturiera) e la flessibilità del fattore lavoro (elasticità di orario, pluralità di mansioni, disponibilità agli straordinari e a rapporti di lavoro a tempo determinato, accettazione del “cottimo”, ecc.).
Si sono andati così sempre più accentuando quei fenomeni di deurbanizzazione, delocalizzazione e deindustrializzazione che sin dagli anni Settanta erano stati favoriti dalla caduta dell’impedenza territoriale a seguito dell’accresciuta disponibilità di sistemi di trasporto, segnando, così, il passaggio dalla gerarchizzazione degli spazi alla deverticalizzazione regionale (Celant, 1988): «alle relazioni verticali ed alla crescente integrazione, che esaltavano il ruolo gerarchicamente dominante della grande regione urbano-industriale, si sono aggiunte, spesso sostituendole, relazioni orizzontali e delocalizzazioni che diminuiscono la dipendenza dei sistemi locali minori, favorendo il reciproco interscambio e il dipanarsi di una trama sempre più densa di flussi materiali ed immateriali» (Dini, 1995).
Il “clima” favorevole alle piccole e medie imprese e quindi a una industrializzazione diffusa che ha nella elasticità del ciclo produttivo e nel formarsi di strutture di impresa a rete le sue peculiarità, non pregiudica l’esistenza delle grandi imprese che, anzi, stanno facendo leva proprio sull’introduzione della microelettronica per ristrutturarsi. Del resto «i prodotti standard non solo non sono stati espulsi dal mercato, ma rappresentano ancora la componente largamente maggioritaria dell’offerta, e gli investimenti richiesti dall’automazione flessibile tendono a rendere le economie di scala la strada più sicura per l’ammortamento» (ibidem).
Lo scenario mondiale che ne consegue non è chiaramente definito e non è privo di contraddizioni: se alcune tra le grandi aziende occidentali si stanno muovendo sulla strada di un «qualcosa che non è ancora chiaro che cosa diverrà - post-fordismo, neofordismo, specializzazione flessibile o altro» (Becattini, 1994), le aziende orientali, quelle giapponesi in particolare, hanno evitato del tutto la dialettica fordismo-post-fordismo, dimostrando che la produzione flessibile non è in contrasto con le grandi dimensioni e che la partecipazione dei lavoratori non è solo esclusiva della produzione non di massa. Kanban e just-in-time sono le parole chiave di tale connubio.
La più rilevante conseguenza spaziale di tale processo è il fiorire di numerose imprese subfornitrici che fanno pieno assegnamento sulla prossimità al committente e sulla presenza di una fitta trama di relazioni tra le imprese, elemento, questo, che può portare allo sviluppo di particolari aggregazioni imprenditoriali sul territorio, com’è il caso dei distretti industriali.
E’ stato questo aspetto, più che quello propriamente produttivo, di tale nuova forma di organizzazione della produzione, ad aver attecchito nelle economie occidentali, già ricche di capacità ed esperienze relazionali tra imprese ma, al contrario, scevre delle attitudini necessarie per l’adozione di forme pure di just-in-time, alle quali sono state preferite forme ibride di just-in-case e just-in-time e forme di “produzione snella” (lean production, cioè una produzione in cui si esternalizzano fasi specifiche del ciclo produttivo interno alla fabbrica attraverso un ampio ricorso alla subfornitura) (ibidem).
Tutto ciò ha ulteriormente stimolato quelle forze endogene delle varie regioni, quelle “specificità locali” che la precedente visione dello sviluppo capitalistico considerava come «obsolescenze da eliminare e che oggi vengono considerate, invece, come importanti fattori della competitività e della crisi, del benessere e della miseria, dell’espansione e della recessione: molteplici ispirazioni e teorie hanno così restituito al territorio un ruolo fondamentale per la spiegazione dei comportamenti economici e sociali» (Giaccaria, 1999).

I sistemi locali del lavoro

I sistemi locali del lavoro (SLL) sono aggregazioni di Comuni che identificano mercati del lavoro omogenei indipendentemente dall’esistenza di vincoli amministrativi, quali l’appartenenza a una data Provincia o Regione (ISTAT, 1999a). L’enfatizzazione dell’aspetto del lavoro nella denominazione del sistema locale deriva proprio dal fatto che i sistemi locali del lavoro sono stati individuati a partire dall’informazione sul pendolarismo, cioè su quel fenomeno che concerne gli spostamenti giornalieri dei componenti il nucleo familiare tra comuni diversi per motivi di lavoro o di studio.
L’introduzione nel censimento della popolazione di un quesito sugli spostamenti giornalieri, avvenuta per la prima volta con l’11° Censimento generale della popolazione del 1971 e ripetuta in occasione dei successivi censimenti del 1981 e del 1991, risulta strumento indispensabile per l’individuazione dei SLL. Anche se l’Istituto Nazionale di Statistica realizzò nel 1971 solo uno spoglio campionario di tali dati, la possibilità, per le regioni che ne facevano richiesta, di procedere al loro spoglio integrale, permise l’accumulazione dell’esperienza necessaria per una regionalizzazione del territorio italiano (ISTAT, 1997).
Per regionalizzazione, in questo caso, deve intendersi lo studio finalizzato all’interpretazione della configurazione geografica locale di un territorio, volta alla ricerca della sua struttura “nascosta”, cioè dei reticoli di relazioni umane formati dalle traiettorie della vita quotidiana delle persone, in quanto interagenti tra loro, che connettono le sedi fisiche in cui di volta in volta esse si associano per svolgere delle attività (ibidem).
Tale studio, consistito in un processo di classificazione dei dati realizzato attraverso la cluster analysis, è stato realizzato per la prima volta nel 1986 dall’Istituto Nazionale di Statistica, in collaborazione con l’Istituto Regionale per la Programmazione Economica della Toscana (IRPET) e con l’Università inglese di Newcastle upon Tyne, sulla base dei dati del Censimento della popolazione del 1981, ed è stato ripetuto in occasione di quello del 1991.
L’esigenza di una regionalizzazione del territorio italiano in sistemi locali del lavoro è scaturita dall’inadeguatezza a rappresentare la geografia sociale ed economica del Paese attraverso il ricorso obbligato ad unità territoriali amministrative, quali Comuni, Province o Regioni. Infatti la dimensione locale ha un senso solo se essa corrisponde effettivamente al territorio dove la popolazione svolge la maggior parte della propria vita quotidiana, dove produce e consuma, e stabilisce rapporti sociali ed economici (ISTAT, 1997).
Naturalmente si tratta di un campo in continua evoluzione: ne è testimonianza la variazione intervenuta negli stessi sistemi locali del lavoro nel periodo compreso tra il 1981 e il 1991. In conseguenza di cambiamenti coinvolgenti la struttura delle relazioni umane sul territorio, si è avuta, infatti, una riduzione del numero dei sistemi locali che sono passati, nel decennio considerato, da 955 a 784, e ciò a causa dell’estensione dei reticoli degli spostamenti quotidiani per motivi di lavoro, agevolati, tra l’altro, da un’accresciuta mobilità personale. In attesa del 14° Censimento generale della popolazione del 2001, i sistemi locali del lavoro restano quelli definiti nel 1991.
La strategia di regionalizzazione adottata dall’Istituto Nazionale di Statistica si basa sull’autocontenimento, cioè sulla «capacità di un territorio di comprendere al proprio interno la maggiore quantità (possibile) delle relazioni umane che intervengono fra le sedi dove si svolgono le attività di produzione (località di lavoro) e quelle dove si svolgono le attività legate alla riproduzione sociale (località di residenza), concorrendo in questo modo al riconoscimento dei propri confini» (ibidem).
Sulla base delle esperienze fatte, gli studiosi considerano un livello di autocontenimento intorno al 75% sufficiente per il riconoscimento della configurazione geografica di un sistema locale.
Per quanto riguarda la Regione Puglia si è avuta, analogamente a quanto è avvenuto a livello nazionale, una riduzione del numero dei sistemi locali ad essa appartenenti, i quali sono passati dai 46 del 1981 ai 39 del 1991. La variazione intervenuta nelle varie Province è differente: nelle Province di Bari e Lecce si è avuta una riduzione, rispettivamente di 5 e 4 sistemi locali, nella Provincia di Taranto si è avuto un incremento di 2 sistemi, mentre il numero di quelli di Foggia e di Brindisi è rimasto invariato.

La dinamica dei sistemi locali del lavoro italiani

Le considerazioni del presente lavoro si basano soprattutto sui dati del Censimento intermedio dell’industria e dei servizi. I censimenti “tradizionali” tendono a sottostimare particolari tipologie di unità produttive (microimprese artigianali e lavoratori autonomi del settore manifatturiero e delle costruzioni, per quanto riguarda l’industria), a causa della difficoltà della loro individuazione mediante le tecniche di rilevazione utilizzate. Di converso, attraverso l’utilizzo integrato degli archivi amministrativi, il Censimento intermedio è stato in grado di individuare anche le attività produttive, come, ad esempio, quelle che non necessitano di una sede fissa di lavoro, che normalmente sfuggono ai rilevatori dei censimenti classici, i quali utilizzano la rete stradale per l’identificazione delle imprese e delle loro unità locali (ibidem).
Da tutto ciò si desume la necessità di valutare con cautela le differenze riscontrabili dal confronto dei dati del Censimento intermedio con quelli dei censimenti precedenti, in quanto tali differenze potrebbero derivare da quanto rilevato in precedenza piuttosto che da effettive variazioni intervenute nel tessuto produttivo oggetto di analisi.
Lo spazio economico italiano è stato oggetto, negli ultimi due decenni, di un processo di ridefinizione, il quale è stato determinato dagli stessi fattori che hanno ridisegnato l’organizzazione socio-economica locale e che hanno riconfigurato i modelli tradizionali di sviluppo regionale: l’affermazione del modello di industrializzazione leggera e l’espansione dei sistemi localizzati di piccole imprese (ISTAT, 1997).
Il modello di industrializzazione leggera può essere definito come «un modo di organizzare la produzione che si fonda sulle economie esterne di localizzazione per il conseguimento dei risparmi di costo, invece che sulle economie interne di scala» (ibidem), e se si considera che i grandi impianti industriali verticalmente integrati hanno gestito, a partire dagli anni Settanta, la propria ristrutturazione necessaria per superare la rigidità e garantirsi la sopravvivenza stessa, soprattutto con l’esternalizzazione di intere fasi di produzione (subcontracting) al fine di snellire il processo produttivo interno alla fabbrica e con la conseguenza di offrire a piccole imprese la possibilità di svilupparsi (Dini, 1995), si può stabilire una relazione diretta tra tale ristrutturazione e l’affermazione del modello di industrializzazione leggera.
Parallelamente a tutto ciò, andavano espandendosi, soprattutto nel NEC, i sistemi localizzati di piccole imprese attraverso autonomi processi di proliferazione aziendale (spin-off) (ISTAT, 1997).
Tutto ciò richiama l’attenzione sulla necessità che un’indagine sull’organizzazione economico-produttiva in cui è articolato il territorio italiano, abbia, come unità di analisi, il sistema locale, in quanto esso «rappresenta l’unità di produzione integrata dove società ed economia si compenetrano, seppure con modalità differenti a seconda delle diverse situazioni di sviluppo del predominio relativo delle dimensioni aziendali e delle specializzazioni settoriali» (ibidem).
Dall’analisi dei cambiamenti intervenuti tra il 1991 e il 1996 nei 784 sistemi locali del lavoro italiani, dei quali 140 appartengono al Nord-Ovest, 143 al Nord-Est, 136 al Centro e 365 al Mezzogiorno, emerge, quale fenomeno di maggior rilevanza del quinquennio, l’ulteriore affermazione, in un contesto di generale contrazione degli addetti nel manifatturiero, dell’insieme dei sistemi specializzati nell’industria leggera. I quattro gruppi che compongono questo insieme, e cioè i sistemi del made in Italy, quelli del cuoio e della pelletteria, quelli del tessile e quelli dell’occhialeria, sono tutti riusciti a guadagnare posizioni rispetto agli altri gruppi, passando nel complesso dal 36,1% al 36,6% degli addetti nazionali (ISTAT, 2000b).
Complessivamente sono 11 i gruppi in cui sono stati classificati dall’Istituto Nazionale di Statistica (2000b) i vari sistemi locali sulla base delle caratteristiche settoriali; tali gruppi, a loro volta, sono stati riuniti nell’insieme dei sistemi manifatturieri (che comprende i sistemi urbani, quelli estrattivi e quelli turistici), nell’insieme dei sistemi della manifattura leggera (già considerati), nell’insieme degli altri sistemi manifatturieri (che comprende i sistemi dei materiali da costruzione, quelli dei mezzi di trasporto e quelli degli apparecchi radiotelevisivi), e, infine, nell’insieme dei sistemi senza specializzazione. Per ottenere tali gruppi di SLL, l’ISTAT ha utilizzato un procedimento che si serve del numero degli addetti alle unità locali per divisione di attività economica, in modo da descrivere con un buon livello di dettaglio le specializzazioni settoriali.
Secondo l’elaborazione fatta dall’ISTAT dei dati del Censimento intermedio dell’industria e dei servizi, il gruppo dei sistemi locali senza specializzazione è tra i più consistenti, con 311 sistemi locali, localizzati soprattutto nel Mezzogiorno (229 SLL contro gli 82 del Centro-Nord), e con 2.278 Comuni, in cui vi risiedono quasi 13 milioni di persone (cioè il 22,4% della popolazione nazionale), ma soltanto con il 19% delle unità locali (di cui il 15,4% opera nelle attività manifatturiere) e con il 14,2% degli addetti (di cui il 9,1% manifatturieri) (ibidem).
Sotto il profilo geografico, i sistemi del Nord che appartengono a questo gruppo si collocano soprattutto nella fascia montana alpina e appenninica, mentre al Centro tali sistemi investono la costa toscana e laziale fino ad arrivare all’entroterra umbro. Nel Mezzogiorno i sistemi di questo tipo si articolano in quattro blocchi: il primo comprende quasi tutto il Gargano e l’entroterra del Sannio e l’Irpinia; il secondo abbraccia il Cilento, buona parte della provincia di Potenza, qualche area pugliese e la Calabria; il terzo interessa la Sicilia, escluso solo alcune aree costiere; il quarto coincide con la parte centrale della Sardegna. Il gruppo dei sistemi locali senza specializzazione non mostra vocazioni specifiche (se non una certa presenza delle costruzioni e del commercio) e non risulta investito da processi di sviluppo: tali sistemi hanno perso dal 1991 al 1996 il 10% degli addetti manifatturieri e il 5% di quelli totali (ibidem).

La netta prevalenza, nell’ambito dell’insieme dei sistemi senza specializzazione, di sistemi locali del lavoro meridionali, fa emergere chiaramente «l’esistenza di un Mezzogiorno tutt’ora poco coinvolto in processi di cambiamento economico» (Viesti, 1999), e anche l’estrema frammentazione, presente in queste zone, del tessuto insediativo, sia residenziale che produttivo, che genera numerosissimi sistemi locali molto piccoli.

L’insieme dei sistemi locali non manifatturieri è costituito: dai sistemi urbani (39 SLL, che rappresentano le più importanti aree urbane del Paese, come quelli di Roma, Milano, Napoli, Venezia, Palermo, Bologna e altri, ma anche centri di medio livello) caratterizzati dalla specializzazione nelle attività dei trasporti e dei servizi; dai sistemi estrattivi (solo tre, Bitti, Silius e Iglesias, tutti in Sardegna) in cui opera il 90% degli addetti all’estrazione di carbon fossile e di minerali metalliferi; dai sistemi turistici (71 SLL, tra i quali molte famose località alpine, appenniniche, lacuali, termali e marine) in cui lavorano più del 25% degli addetti agli alberghi e ristoranti (ISTAT, 2000b).

I sistemi non manifatturieri, in cui risiede il 32,5% della popolazione e in cui vi è una forte presenza di unità locali (il 32,3% del totale) e di addetti (33,1%), hanno visto crescere nel quinquennio 1991-96 le unità locali del 20,7% e diminuire gli addetti del 2,1%, soprattutto a causa dell’andamento negativo dei sistemi estrattivi (-23,7% degli addetti) e dei sistemi urbani (-2,6% degli addetti) e nonostante quella positiva dei sistemi turistici (+5,1% degli addetti) (ibidem).
I sistemi manifatturieri si distinguono nei due sottoinsiemi dei sistemi dell’industria leggera e degli altri sistemi manifatturieri. Nel primo di tali sottoinsiemi assume importanza fondamentale, il gruppo dei sistemi del made in Italy, così denominato proprio per la rilevanza delle esportazioni dei prodotti realizzati dalle imprese presenti in questi sistemi, nelle quali resiste con grande forza l’orgoglio dello stile artigianale: «il made in Italy è percepito come una sorta di patente internazionale che rafforza anche l’identità e l’appartenenza allo stesso sistema produttivo» (CENSIS, 1998).

I sistemi locali del made in Italy sono specializzati nella confezione di articoli di vestiario, nell’industria tessile, nella produzione di mobili, nella fabbricazione e lavorazione di prodotti in metallo, nell’industria meccanica e nella produzione di metalli e loro leghe.

I sistemi del made in Italy del Nord si estendono lungo due fasce: la prima si estende lungo la fascia prealpina dal Piemonte alla provincia di Brescia ed è specializzata nella fabbricazione di prodotti in metallo, nell’abbigliamento e nel mobilio, mentre la seconda comprende la Bassa, soprattutto mantovana, i sistemi emiliani di Carpi, Mirandola e altri, che sono specializzati nella maglieria e negli apparecchi medicali, e i sistemi veneti specializzati nell’abbigliamento, nel mobilio e nella meccanica. Scendendo lungo la penisola, emerge l’insieme dei sistemi romagnoli che da Forlì si spinge verso Sud fino a includere gran parte delle Marche settentrionali e della Toscana fino ad Arezzo e ad alcuni sistemi del Pistoiese. Continuando a scendere, i sistemi locali di questo gruppo sono sempre meno e sempre più isolati: i sistemi marchigiano-abruzzesi da Ascoli Piceno a Teramo; i sistemi molisani, che si estendono fino a Teano in Campania, e quelli del Sannio e dell’Irpinia; i sistemi di Sant’Agata de’ Goti, San Giuseppe Vesuviano e Agerola in Campania e di Ascoli Satriano, Spinazzola e Bisceglie in Puglia; la fascia di sistemi contigui che si estende da Putignano al Salento e il piccolo nucleo del cosentino; un piccolo gruppo di sistemi nella Sicilia nord-orientale e due sistemi in Sardegna. Quasi tutti questi sistemi sono specializzati nella confezione di articoli di vestiario (ibidem).
I sistemi locali che compongono il gruppo del made in Italy presentano una forte propensione alle esportazioni, che ci si accinge ad evidenziare, con l’avvertenza, però, che i dati disponibili, (Viesti, 1997), si riferiscono a una o più province in cui si trova il sistema produttivo da prendere in considerazione, più che a un determinato sistema locale del lavoro.
Nell’esportazione di articoli di vestiario ed accessori assumono particolare importanza i sistemi delle province di Milano e Varese (con 2.380 miliardi di lire di export nel 1995), di Treviso e Vicenza (con 1.915 miliardi), di Modena, Reggio Emilia e Bologna (con 1.077 miliardi) e di Como (con 933 miliardi). In buona evidenza in questo gruppo, in verità piuttosto numeroso, anche il Sud con alcuni sistemi di Isernia (207 miliardi), Napoli (203 miliardi), Lecce (169 miliardi) e Bari (102 miliardi). Oltre all’abbigliamento, i mobili rappresentano un settore importante del made in Italy: qui si evidenziano i sistemi di Udine, Treviso e Pordenone (3.042 miliardi di export), quelli di Milano e Como (1.315 miliardi) e di Pesaro, Forlì e Ancona (1.132 miliardi) ma, soprattutto, quelli del mobile imbottito delle province di Bari e Matera (Area murgiana) per la loro crescita straordinaria, che è consistita nel passaggio dai 49 miliardi di esportazioni del 1986 ai 1.176 miliardi del 1995, seguendo un trend ascensionale eccezionalmente sostenuto, che continua ancor oggi, e con la prospettiva di consolidarsi sempre più in futuro (Viesti, 1997).
L’insieme dei sistemi del made in Italy risulta essere caratterizzato anche dalla presenza di altri settori produttivi quali: la fabbricazione di maglieria, in cui spiccano i sistemi dell’area Milano-Varese (1.598 miliardi di lire nel 1995), Treviso-Vicenza (1.587 miliardi), Firenze-Pistoia (1.576 miliardi) e Modena-Reggio Emilia-Bologna (1.491 miliardi); la fabbricazione di tessuti, in cui si notano i sistemi della provincia di Como (2.108 miliardi), di Milano e Varese (1.973 miliardi) e di Vicenza (985 miliardi); la fabbricazione di macchine utensili, capeggiata da Milano-Varese- Como con 1.885 miliardi di export, cui si affiancano altri sistemi presenti a Vicenza e Treviso (730 miliardi) e a Pesaro e Forlì (664 miliardi); la fabbricazione di macchine tessili, in cui si mettono in evidenza i sistemi di Bergamo e Brescia (1.057 miliardi) e di Milano, Varese e Como (869 miliardi) (ibidem).
Dell’insieme dei sistemi locali della manifattura leggera fanno anche parte: i sette sistemi locali specializzati nell’industria tessile (fra cui spiccano Castel Goffredo, il biellese e Prato), con una popolazione di circa 600 mila persone in 139 comuni e 55 mila U.L. in cui operano circa 225 mila addetti, e i 42 sistemi specializzati nell’industria del cuoio e della pelletteria, i quali sono concentrati nel Veneto (Arzignano, San Giovanni Ilarione e Montebelluna), in Emilia-Romagna (Cesena), in Toscana (Firenze, Santa Croce sull’Arno e Castelfiorentino) e nelle Marche (Tolentino, Fermo e Macerata), anche se nel Mezzogiorno ne troviamo alcuni “isolati” in Campania (Aversa e Solofra) e in Puglia (Barletta, Casarano e Tricase). Il gruppo dei sistemi del cuoio e della pelletteria comprende circa 3,5 milioni di persone, 260.000 unità locali (il 6,9% del totale) e 990.000 addetti (7,2%), di cui oltre 410.000 nelle attività manifatturiere (l’8,5% del totale). Sotto il profilo demografico e sociale, questo gruppo, analogamente a quello dei sistemi tessili, è caratterizzato da una forte presenza della manodopera femminile e da una elevata incidenza degli occupati con una bassa qualificazione professionale (ISTAT, 2000b).

Dal lato delle esportazioni spiccano, nei gruppi di sistemi locali appena considerati: il sistema tessile pratese (con 3.142 miliardi di export nel 1995), quello di Castel Goffredo in provincia di Mantova, specializzato nella fabbricazione di maglieria (con 665 miliardi) e quello laniero di Biella (con 978 miliardi); il sistema distrettuale di Arzignano (2.108 miliardi), quello di Santa Croce sull’Arno (2.100 miliardi) e Solofra, in provincia di Avellino (749 miliardi), i quali, insieme, determinano oltre i tre quarti dell’export italiano nel settore delle pelli e del cuoio; i sistemi dell’area Ancona-Macerata-Ascoli (2.400 miliardi), quelli di Verona e Brescia (1.350 miliardi), quello di Treviso (1.080 miliardi), quello della Riviera del Brenta, in provincia di Venezia (923 miliardi) e quello di Barletta (504 miliardi) risultano essere i sistemi più importanti nell’esportazione di calzature, soprattutto in gomma e sportive, mentre, per quelle in pelle, si sono messi in evidenza in modo particolare i sistemi intorno a Firenze e Pisa (2.500 miliardi) e quelli di Casarano e Tricase (575 miliardi) (Viesti, 1997).
Ultimo gruppo facente parte dell’insieme dei sistemi della manifattura leggera è quello specializzato nell’occhialeria, di cui fanno parte solo cinque sistemi locali, tutti nella provincia di Belluno, con 55 Comuni e 147.000 abitanti, e quasi 11.000 unità locali (di cui 2.100 nel manifatturiero) con 53.000 addetti (di cui 26.000 nel manifatturiero e più di 12.000 nell’industria di specializzazione) (ISTAT, 2000b).
Nel suo insieme la Provincia di Belluno ha realizzato un notevolissimo incremento nelle esportazioni, passando dai 153 miliardi di lire nel 1986 ai 1.072 miliardi del 1995 (Viesti, 1997).
L’insieme dei gruppi con specializzazione nelle attività manifatturiere in settori diversi rispetto a quelli dell’industria leggera è denominato “insieme degli altri sistemi locali manifatturieri” (sistemi dei materiali da costruzione, sistemi dei mezzi di trasporto e sistemi degli apparecchi radiotelevisivi); esso è composto da 94 SLL, con 1.450 comuni e oltre 8,3 milioni di abitanti (il 14,5% della popolazione italiana), mentre vi sono localizzate 571.000 U.L. (il 15,1% del totale), di cui solo 86.000 operanti nel manifatturiero (il 14,6% del settore), e 2,2 milioni di addetti (16,1%), di cui 883.000 nel manifatturiero (18,2%). Nel corso del quinquennio 1991-96, tali sistemi locali hanno visto diminuire gli addetti manifatturieri del 6% (circa 62.000 unità) mentre gli addetti complessivi si sono ridotti solo del 2% (59.000 unità) e le unità locali sono aumentate del 9% (48.000 unità). Tale andamento è la risultante della diminuzione degli addetti manifatturieri soprattutto del gruppo dei sistemi locali specializzati nei mezzi di trasporto (-31.000 addetti, pari a una riduzione del 10%) e di quello degli apparecchi radiotelevisivi (-6.000 addetti, pari a una riduzione dell’8%) (ISTAT, 2000b).
Dal punto di vista della localizzazione geografica, si rilevano delle differenze a seconda del tipo di sistemi considerato: i sistemi locali specializzati nei materiali da costruzione sono in prevalenza localizzati al Nord e al Centro (tra cui spiccano Sassuolo, Sant’Ambrogio di Valpolicella, Massa, Carrara, Pietrasanta, alcuni sistemi fiorentini e Civita Castellana); quelli specializzati nei mezzi di trasporto, che, oltre alla storica localizzazione torinese (che vanta quattro SLL), si trovano nel Lazio (Cassino), in Abruzzo e Molise (Lanciano, Sulmona e Termoli), in Campania (Morcone, Ariano Irpino e Avellino), in Basilicata (Melfi) e in Sicilia (Termini-Imerese); quelli degli apparecchi radiotelevisivi, infine, risultano concentrati soprattutto al Centro e nel Mezzogiorno (Rieti, Frosinone, L’Aquila, Avezzano, Sessa Aurunca e Battipaglia) (ibidem).
Per quanto riguarda le esportazioni, si segnalano: i sistemi dell’area Modena-Reggio Emilia-Bologna, tra cui spicca il distretto industriale di Sassuolo, specializzati nella fabbricazione di ceramica e piastrelle (4.672 miliardi nel 1995, pari al 73% dell’export italiano in questo settore); i sistemi specializzati nel marmo delle province di Massa-Carrara e di Lucca (1.058 miliardi) e di Verona (1.042 miliardi); il sistema di Civita Castellana, in provincia di Viterbo (205 miliardi), specializzato in porcellane, e quello del vetro di Venezia (189 miliardi) (Viesti, 1997).
Prendendo quale valore di riferimento il valore mediano dell’insieme degli indici di industrializzazione dei sistemi locali, si nota che nel Nord-Ovest d’Italia pochi sistemi (solo il 15% dell’intera ripartizione) scendono al di sotto di tale valore, manifestando un elevato livello di industrializzazione, con l’unica eccezione di alcuni sistemi liguri. La Liguria, infatti, un tempo fortemente industrializzata, è oggi l’unica regione del Nord il cui indice di industrializzazione è più basso di quello nazionale ed è preceduta da due regioni meridionali quali l’Abruzzo e il Molise.
Il Nord-Est risulta, nella quasi totalità (134 SLL su 143, pari al 94%), caratterizzato da sistemi locali con un indice di industrializzazione superiore al valore di riferimento, mentre nel Centro si trova una quota consistente (31,6%) di sistemi al di sotto di tale valore, in modo particolare quelli del versante tirrenico centrale.
I sistemi locali del Mezzogiorno d’Italia risultano, nel 90% dei casi, avere un indice di industrializzazione inferiore al valore di riferimento e, di conseguenza, nessuna regione meridionale può vantare un indice di industrializzazione su base nazionale superiore a 1 (che è il valore dell’Italia). Particolarmente problematica è la situazione della Sicilia e della Calabria, in quanto, in queste regioni, solo due SLL hanno un indice superiore al valore di riferimento.
Questi dati confermano la presenza, soprattutto nelle regioni settentrionali, di unità locali di maggiore dimensione, dato ancor più rilevante considerato che le U.L. industriali del Nord del Paese (596.000 unità) sono più del doppio sia di quelle del Centro (221.000 unità), che di quelle del Mezzogiorno (254.000 unità).
Ulteriore conferma dell’esistenza di disparità Nord-Centro/Sud può venire dall’analisi della densità delle unità locali per ogni 1.000 residenti; anche qui, infatti, i sistemi locali settentrionali e centrali, con le uniche eccezioni di quelli liguri e laziali, hanno, mediamente, una densità maggiore di quella media italiana, mentre quelli meridionali sono, quasi tutti, al di sotto di essa.

Se si confrontano i primi venti sistemi locali italiani del 1996 con più elevato indice di industrializzazione, con la “graduatoria” dei SLL del 1991, (ISTAT, 1997), la quale vedeva ai primi posti i sistemi di Monte San Pietrangeli (AP), Montegranaro (AP), Monte San Giusto (MC), Lumezzane (BS), Porto Sant’Elpidio (AP), Vestone (BS), Arzignano (VI), Cossato (BI), San Giovanni Ilarione (VR) e Thiene (VI), è possibile fare alcune considerazioni. Innanzi tutto emerge la flessione dei tre sistemi locali marchigiani specializzati nell’industria calzaturiera, che, pur non essendo particolarmente accentuata, denota una situazione di stasi, se non di vera e propria crisi, che sta interessando numerosi sistemi locali specializzati nel calzaturiero (tra gli altri anche Barletta e Casarano-Tricase), a causa, soprattutto, della forte concorrenza nel settore da parte dei Paesi del Sud-Est asiatico.

Il sistema di Arzignano (pelli) e quello di Sassuolo (ceramica) hanno guadagnato posizioni, fino a raggiungere la vetta della classifica; quelli di Porto Sant’Elpidio (calzature), Thiene e San Giovanni Ilarione (entrambi specializzati nel tessile-abbigliamento) sono scesi, rispettivamente, alla tredicesima, ventiseiesima e cinquantesima posizione.

Il dato più rilevante è comunque la crescita esponenziale del sistema locale di Melfi (fabbricazione di autoveicoli), la quale, tuttavia, risulta essere in controtendenza rispetto alla generale affermazione, rilevabile nel quinquennio 1991-‘96, dei sistemi locali dell’industria leggera, caratterizzati dalla concentrazione locale di piccole e medie imprese.
Ad ogni modo l’ottima performance di Melfi è significativa anche del «passaggio da un’organizzazione della produzione che massimizzava l’impiego dei sistemi di automazione e riduceva le possibilità di esternalizzare produzioni e conoscenze, che la FIAT aveva adottato, con esiti negativi, per i suoi stabilimenti di Termoli e Cassino, ad un nuovo modello produttivo caratterizzato da una più spinta valorizzazione della risorsa umana e dell’indotto locale, seppure localizzato all’interno dello stesso stabilimento» (Zanni, 1999).
E’ questa un’ulteriore conferma dell’esistenza di un’indispensabile simbiosi tra sviluppo economico e territorio.

Conclusioni

Dall’analisi fatta, emerge il notevole divario, sia per quanto riguarda il numero di imprese che per quello di addetti, tra il Mezzogiorno e le altre ripartizioni territoriali, divario che ha origini antiche e che le politiche di “intervento straordinario”, basate su iniziative di sviluppo concentrate in aree selezionate (poli di sviluppo) e susseguitesi, a partire dal 1950, per quattro decenni, non sono state in grado di colmare.

Malgrado la persistenza di tali disparità regionali, occorre sottolineare, da un lato, l’esistenza di una discreta diffusione del benessere e, dall’altro, l’aprirsi di buone prospettive di sviluppo “autoctono” (e non) per il Mezzogiorno.

Per quanto riguarda il primo aspetto, è sufficiente segnalare che il PIL pro capite delle regioni meridionali è superiore a quello dei Paesi periferici dell’Unione europea (ad eccezione della Spagna) e pari a quello raggiunto dall’Italia settentrionale e centrale solo nel 1975. Inoltre, i suoi livelli di consumo si approssimano a quelli del resto del Paese molto di più di quanto sarebbe lecito aspettarsi sulla base di corrispondenti livelli produttivi: nel 1989, ad esempio, il rapporto Sud/Nord-Centro era di 0,69 per i consumi privati pro capite e di 0,56 per il PIL pro capite (Commissione delle Comunità Europee, 1993). Ciò testimonia il fatto che, mentre «modelli e schemi di consumo si sono mossi in direzione di una maggiore uniformità sul piano regionale, il fallimento dello sviluppo di un’adeguata base industriale ha fatto del Mezzogiorno un’economia strutturalmente dipendente, tanto che, dopo quarant’anni di politiche di sviluppo, il proseguimento sine die di queste era dato ormai per scontato» (ibidem).
L’abbandono delle vecchie politiche di fiscalizzazione e di sgravio contributivo, accompagnato da nuove regole di programmazione e di spesa per lo Stato come per le regioni e da una crescente importanza delle politiche regionali comunitarie, ha determinato, infatti, specie tra il 1992 e il 1995, un vistoso rallentamento dei tassi di crescita complessivi dell’economia meridionale (Viesti, 1999).
Tutto ciò ha però “risvegliato”, in una qualche misura, l’iniziativa locale e questo, a sua volta, ha permesso la crescita di talune attività economiche (e si arriva al secondo aspetto), anche se in modo piuttosto disomogeneo sul territorio.
Se si considera, ad esempio, l’andamento della produzione industriale del 1998 e nel 1999, si ravvisano segnali positivi per le imprese del Mezzogiorno, in particolare per quelle di minori dimensioni, anche se, in questo periodo, sono state le regioni del Nord-Est ad aver avuto la maggiore crescita in particolare, l’Emilia-Romagna, il Friuli-Venezia Giulia ed il Trentino-Alto Adige. L’Italia Nord-Occidentale ha rilevato andamenti meno brillanti rispetto al passato: un rallentamento è stato registrato per Piemonte e Liguria, mentre è stata la Lombardia ad innalzare l’andamento della ripartizione (ISTAT, 1999c).
La situazione dell’Italia centrale è risultata duplice: ai buoni andamenti dell’Umbria e del Lazio, si sono contrapposti il rallentamento delle Marche e soprattutto la stagnazione della Toscana, che si protraeva già da due anni, con una situazione di difficoltà acuta nel settore della micro-impresa e dell’artigianato. In controtendenza, invece, molte regioni del Sud che hanno evidenziato una vivacità produttiva rafforzata anche da altri indicatori di natura occupazionale e di natalità imprenditoriale. In particolare, Molise, Puglia e Basilicata hanno fatto rilevare tassi tendenziali di incremento della produzione superiori al 4%; positivi anche gli andamenti dell’Abruzzo, della Sardegna e della Campania, mentre è stato registrato un forte calo per la Sicilia e soprattutto per la Calabria, con una variazione negativa di oltre 3 punti percentuali (ibidem).
Malgrado questi contrastanti andamenti regionali, che testimoniano la presenza di territori meridionali con grandi differenze interne, la situazione delle regioni del Sud sembra, nel complesso, lanciare importanti segnali di risveglio, in particolare con riferimento all’andamento delle imprese più piccole: infatti, quelle aventi meno di 19 dipendenti fanno registrare al Sud il migliore andamento rispetto a quello delle altre ripartizioni.
Anche sul fronte delle esportazioni si registra una crescita del Mezzogiorno, +9,6% del valore delle esportazioni nel 1997 rispetto all’anno precedente e +8,2% nel 1998, che, analogamente ai valori dell’Italia nord-orientale (+4,8% nel 1997 e +5,2% nel 1998), risultano essere stati superiori alla media del Paese (+4,3% nel 1997 e +2,7% nel 1998) (ISTAT, 2000c). Questi dati sono stati all’incirca confermati nel 1999, anche se la ridotta quota delle esportazioni, rispetto al totale dell’export nazionale, realizzate da queste regioni (2,9% della Campania, 2,3% della Puglia, 2% dell’Abruzzo e 0,4% della Basilicata, nel 1998) e in generale dal Mezzogiorno (10,2% nel 1998), fa comprendere di essere ancora solo all’inizio di un lungo e non facile processo di “emancipazione” dalle regioni del Nord, le quali sono ancora i principali destinatari delle produzioni meridionali.
Infine, il sospetto che le imprese minori delle regioni meridionali stiano realizzando la crescita della propria produzione (e, quindi, delle proprie esportazioni) attraverso riduzioni dei prezzi unitari, accompagnate da contrazioni dei margini, fa crescere il timore di una riduzione dei livelli di autofinanziamento e quindi del processo d’investimento [ISTAT, 1999c].

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