Marzo 2001

UN SECOLO DI GIORNALISMO

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Elogio della verità
Gennaro Pistolese
 
 

 

 

 

 

Il treno si fermò
a Foggia, perché la stazione era stata occupata dalle squadre fasciste
che l’indomani
avrebbero dovuto marciare
sulla Capitale.

 

Nel nostro presente, ma io mi limiterei a dire solo orizzonte, è entrata la nuova economia, che designa tutta l’innovazione dall’orbita tecnologica a quella finanziaria. Un binario privilegiato per tutti e per tutto è l’informazione e la comunicazione. Per questi termini c’è la debolezza dell’Italia e degli altri Paesi europei, essendo attuale, vigente, solo negli Stati Uniti.
Debbo però subito affermare che per noi la leggenda non è mai esistita, perché ci siamo sempre esibiti e confrontati fra noi sul fatto, sulla persona, sui valori singoli e individuali e li abbiamo comunicati nella verità. Almeno nella nostra verità. Perciò i grandi inviati sono divenuti grandi “reporter”. E io stesso nella mia lunga carriera ho aspirato e aspiro ancora a poterla concludere con questa qualifica.
D’altra parte i miei articoli sul settimanale della nostra Federazione hanno riaffermato l’obbligatorietà per la nostra professione della legge del mercato, che è poi quella dell’opinione pubblica. E si tratta di articoli che risalgono per lo meno al 1993, anno in cui mi dovevo dividere dalle cifre, delle quali ho vissuto tutta la mia vita professionale, perché l’ultimo mio articolo comparso sulla bella e importante rivista Dimensione, edita dalla Camera di Commercio di Pescopagano, recava come titolo “Il prodotto interno lordo è un’opinione”. Qualcosa di simile scrive un giornalista di spicco, Giorgio Bocca, nel suo articolo “La trappola del PIL”, affermando tra l’altro che la tecnica e le scoperte sono a doppio taglio e che il feticcio del prodotto interno lordo non è un rimedio (L’Espresso, 21 novembre 2000).
Sette volti, uno di essi non da leggenda, nella mia vita

Sono Nitti, mio compaesano e mio “familiare”, un colonnello monarchico del 1922, Alberto De Stefani, Angelo Costa, Luigi Gedda, Luigi Medici, Giulio Andreotti.
Ma prima di condurvi a questo confronto, debbo aggiungere che c’è il mio 3 giugno 1909 di nascita a Melfi e ora c’è il Giubileo a Roma, da giornalista decano, anticipato ma bruciato dal tempo. Passato da impensabili Vie dell’Impero, rivista del 1927 che richiese il mio primo articolo, alla trattazione dei fatti del giorno in ogni momento preceduti dalla verifica.
L’immediatezza del passato c’è stata solo nel teatro, e solo perché non poteva diversamente essere. Forse perciò c’era un disegnatore satirico le cui caricature venivano presentate come ritratti. Si chiamava Onorato, ma di lui le presentazioni giornalistiche titolavano l’Onorato Teatro. Era mio vicino di casa, sapevo che era di Lucera, si distingueva per l’accoppiamento con il suo vestito di un britanno fiocchetto al collo. Già allora per me queste erano cose importanti e non so ancora la ragione di questa secondaria scelta, diremo così, di costume. Oggi però si parla anche di Dario Fo, premio Nobel, passato dal teatro al teatrino.
Ed eccomi a parlare di Nitti, ancora una volta per voi, miei eventuali lettori.
L’ha chiamato in causa anni or sono Giulio Andreotti, che avendo contato i senatori proposti dal grande statista quando questi nel dopoguerra aveva bisogno dell’approvazione del Capo dello Stato li confrontò con quelli suoi, in numero minore, che avevano bisogno di concorrere ad una maggioranza parlamentare che forse lui avrà potuto ottenere. Ciò evidentemente non mi ha mai interessato e forse ne sanno qualcosa gli enciclopedici archivi di Andreotti, che non ha neppure Cossiga, pur essendo un professionista della politica. Qualcuno, per me erratamente, condivide invece la passionalità con la politica. Secondo Andreotti, nel commentare il raffronto Nitti si sarebbe rivolto a lui con un eufemismo popolaresco, che Nitti non ha mai usato, neppure dopo il suo ritorno dall’esilio, che a me fece scrivere che disponeva, per il suo imprescindibile uso delle pantofole, solo dell’attrattiva elettoralistica di un vagone letto. Ma allora già c’era il porta a porta, durissimo a morire, e al quale si è venuto reagendo con l’astensionismo.
Andreotti, almeno questa volta, non è bene documentato. Perché non sa o non gli è stato detto che fra l’8 e il 10 ottobre del ‘22 Mussolini e Federzoni si dichiararono favorevoli ad una soluzione imperniata su Vittorio Emanuele Orlando e che lo stesso Mussolini nelle delusioni del 25 luglio ricordò che neppure la guerra del ‘15-‘18 era stata popolare, e che il tanto noto “Cacoia”, inventato da D’Annunzio, amico di Nitti e condiviso da Mussolini, aveva dovuto ricorrere alle amnistie. Ma in quali condizioni? Ne parla Nitti nel quarto volume dell’edizione nazionale delle sue opere. Ma ne parlano anche i 25 caduti e le centinaia di disertori della sua e mia terra natale.
Nitti mi riporta alla mia primissima fanciullezza, aperta ai giornali. Lo era, perché a cinque anni ero al corrente del famoso processo romano Cavallini, che vedeva a Napoli implicato un sacerdote, don Minzoni. Un fratello di mio padre difendeva il prete, il suocero difendeva l’imputato principale.
Non solo i giornali circolavano per casa, ma anche le notizie dirette comunicate alla nonna e da essa trasmesse a tutti i nipoti, nipoti che avevano aggiunto al proprio nome un numero, quello romano. Perché ci chiamiamo tutti Gennaro, come il nonno paterno. Questi non l’ho mai conosciuto perché sono nato un anno dopo la sua morte, e ho preso il posto di un mio fratello, dello stesso nome, morto di polmonite, perché allora non era stata ancora scoperta la penicillina.
Ma c’era anche la prima guerra mondiale che stava per scoppiare, nonostante il “parecchio” contrario di Giolitti e la nascosta denuncia italiana della Triplice, nella quale c’erano già Salandra e Orlando. Il Mattino, il giornale di Napoli che arrivava a Melfi nel corso dell’anno anche con una corsa ciclistica e tazzine regalate agli abbonati, era tra le mani anche dei bambini.
E poi c’era il mio interesse, accompagnando mio padre la sera sulla piazza, ai commenti che egli scambiava con un suo carissimo amico, che molto stimava, sui libri che Formiggini stampava. E si trattava di letture molto sofisticate anche per ambienti più avanzati del mio.
E poi più tardi è arrivato Il Mondo di Giovanni Amendola, ma pubblicato da Alberto Cianca. Proclamava una politica che anche mio padre condivideva e anche io pretendevo di doverne sapere qualcosa. Sapevo nientemeno che i principali giornali avevano uno stenografo, che era pure giornalista. Uno di questi era l’avvocato Vico Pellizzari.
Sapevo pure che ci si rivolgeva politicamente ai giovanissimi, definiti poi Balilla, e fra questi c’ero anch’io, che un paio di mesi sarei partito per Roma, dove avrei ascoltato il grido di saluto al Re da parte di un colonnello.
In partenza con mio padre – lui per i suoi doveri e speranze verso di me e con la prospettiva di una cattedra di diritto ecclesiastico all’Università di Perugia, e io con i miei doveri di studente della 4ª ginnasiale e di essere presente alla prima lezione al Quirino Visconti, collegio romano – giunti a Foggia fummo fermati con il treno alla stazione, perché questa era stata occupata dalle squadre fasciste che l’indomani avrebbero dovuto marciare sulla Capitale. Ripartimmo con loro in tempo perché Mussolini potesse avere l’incarico di formare il nuovo governo. Vi fu la conseguente sfilata delle squadre fasciste davanti al Quirinale e al Re Vittorio Emanuele. E fu davanti al Palazzo della Consulta, accompagnato, anzi custodito da mio padre, che fui colpito più che dagli applausi della folla dal solitario anziano signore che dopo aver gridato il nome del Re per tre volte, rimanendo inascoltato, concluse con un: «Ho capito». Aveva capito per primo. Aveva cioè compreso che ad un re soldato sarebbe successo qualcos’altro. Non certo che avrebbe, per valutazioni aridamente parlamentari, fiancheggiato la dittatura e consentito le guerre dell’Etiopia, dell’Albania e dell’Asse. Forse auspicava un re Umberto II, e non il principe, che aveva sempre e solo obbedito, sapendo essere solo Re quando ha abdicato per espatriare in Portogallo e da esule, abbandonato anche dai suoi strettissimi familiari, la moglie e i figli, morire solo in una clinica di Cascais. Forse l’immaginazione di quel vecchio signore che aveva attratto la mia attenzione era rivolta ad uomini che prima o poi avrebbero opposto e fatto prevalere il lealismo sabaudo sul regime mussoliniano.

Io ho conosciuto uno di questi convinti, era Edgardo Sogno. L’ho conosciuto durante il fascismo nel Gabinetto di un ministro fascista degli Scambi e Valute, direttore di una rivista dal titolo Economia Fascista, che compilavamo con Santi Savarino, antifascista silenzioso, ma solido mio amico anche tanti anni dopo, quando lui, amico di Don Sturzo di cui era conterraneo, ne favoriva al ritorno dall’esilio l’attivita giornalistica, essendo anche divenuto senatore democristiano.
Ma in quel Gabinetto, di cui prima ho detto, c’era anche Edgardo Sogno, che io notai perché silenzioso, elegante in un grigio vestito, carattere insolitamente torinese, lì. Scambiammo una sobria chiacchierata. Non so chi sia stato nella Resistenza. Quale postumo riconoscimento gli sia stato dato. Quale sia stata la sua vera e intima convinzione. So ora che la dicotomia tra resistenza antitotalitaria e resistenza comunista fu nel dopoguerra il filo conduttore di tutte le politiche di Sogno. Forse l’anima del vecchio signore del ‘22 con il suo «ho capito» sarà alfine così sopita.

Ed ecco l’altro volto che si risveglia in me, e con il quale ho avuto il privilegio di collaborare dal 1946 al 1970 in Confindustria, in due lunghe fasi della sua presidenza, e cioè da quando recò a Roma il vento degli industriali del Nord a quando, per puro spirito di servizio, ne ha riassunto nel ‘66 fino al 1970 la presidenza. Gli ho organizzato le sue prime quattro conferenze stampa, tra l’altro con i miei comunicati che per lui dovevano rappresentare e perciò subire una scaletta. L’ho rivisto molti anni dopo indifferente a temi da altri svolti nella sua presidenza. Chi sbadiglia, pensavo, non decide. Eravamo però nel ‘68, ed egli si scosse ad una mia affermazione, e cioè che nella scuola si era creato un vero e proprio rapporto sindacale e reagì con una domanda di curiosità: chi è il datore di lavoro? Si sentì rispondere con il mio, da lui inaspettato, «gli studenti». Per lui erano due ‘68 che non dovevano esserci, ma allora alla Normale di Pisa c’erano anche le bombe molotov comuniste, di qualche successivamente grosso esponente comunista.
Su Costa ci sono stampati molti libri contenenti le sue frequenti lettere a De Gasperi, due uomini che io considero (e come me tanti altri), con Einaudi e con Di Vittorio, tra i fondatori della nuova Italia.
Una volta mi disse che gli piaceva un sindacato unitario e forte e un Di Vittorio – si stimavano reciprocamente – comunista, il primo dal volto umano. Allora c’era anche il Togliatti della svolta di Salerno e sua moglie Montagnani, che capeggiava le donne comuniste e che saliva le nostre scale di Piazza Venezia non solo per protestare ma anche per proporre.
Su di lui si sono scritte tante cose. Riguardano la sterilizzazione del problema dei comitati aziendali di gestione, l’avviamento della scala mobile, della quale oggi ci si domanda cosa sia. Ma ora un vice presidente della Confindustria, Mondello, scrive che «Costa rappresenta un’alta figura morale, che ci ha insegnato come si possa coniugare cultura e intelligenza con il mondo dell’impresa».
A me è capitato di collaborare con questo tipo di presidente, e anche con De Michelis, con Cicogna, con Lucchini, con Carli. Ma la mia presenza nei computer della Confindustria, che pure è cominciata nel ‘38 ed è finita nel ‘77, mi è riconosciuta per la direzione del ‘46 della Gazzetta per i lavoratori e nell’invito da qualche anno alle assemblee confindustriali, molto strategiche. Nulla si sa dell’azione della Gazzetta per i lavoratori nel ‘48, nulla dell’Attualità Stampa del ‘62 (riviste volute per l’informazione, e non per la suggestione dei lavoratori), la quale ultima quando era indispensabile c’era, senza dover ricorrere all’otturazione del naso, come suggeriva sia pure a malincuore Montanelli. Non c’è la lettera di Guido Carli, che mi ringrazia per la mia condotta nella conclusione del rapporto confederale con il Circolo di Studi Diplomatici, essendone stati componenti i più grandi ambasciatori italiani del Novecento, e io il regolatore, a ciò delegato dalla Confindustria. Il suo presidente, ultimo da me visto che era stato funzionario della stessa sul finire del fascismo, si interessò con me di sapere solo le ragioni del trasferimento all’EUR; il resto lo affidava al suo direttore generale, Savona, che mi comunicò lo sganciamento che avrei dovuto operare e dell’utilizzazione della mia persona, che non fu da me richiesta. Tutto per me con questa Confindustria della mia vita è finito lì, con la personale amicizia per tre veramente grandi nell’alta burocrazia: Gian Battista Codina, Mario Morelli, Franco Mattei, al quale ebbi a dire che era sprecato per la Confindustria essere destinato più in alto. Come difatti è proprio avvenuto.

Ma a fronte di questa Confindustria, c’è stato Alberto De Stefani, per l’intera sua vita di ministro preside della Facoltà di Scienze Politiche alla Sapienza, scrittore storico-finanziario, che non ha dovuto mai attendere 50 anni per far valere il proprio pensiero e la propria azione, come sembra sia accaduto a Sarcinelli, altro grande di questi studi nel secolo scorso.
L’ho conosciuto sul finire della sua vita, dopo una sua lettera indirizzatami il 23 giugno del 1957, nella quale oltre a dire di «essere lieto di mandarmi una testimonianza della sua simpatia per me e per l’opera mia» (ma io della validità di questa non mi sono mai accorto) scrive che il suo è uno scritto con cui ha raggiunto, in breve tempo, il pareggio del bilancio dello Stato: Prosperità e non fiscalità, che ha anticipato di oltre 40 anni la politica di Kennedy e di Johnson. Ma cosa si dice ora che sono passati da allora altri 40 anni? La carta intestata di De Stefani è alla dannunziana, “Tutto prima del tramonto”. Ma che cosa dicono questi tramonti ai loro responsabili?
Fra questi non c’è Luigi Gedda, che ho visto solo due volte, ma con il quale ho collaborato fino agli ultimissimi Comitati Civici, quelli fino al ‘62. Gedda, due mesi prima delle elezioni del 18 aprile del 1948, fondò i Comitati Civici, dopo aver ricevuto l’idea da Papa Pio XII con due indicazioni: mobilitare i cattolici e gli italiani con un’efficace propaganda in grado di opporsi al PCI e superare l’astensionismo. Gedda ha concorso ai risultati che si conoscono, ed è stato protagonista nella battaglia per la libertà e per la democrazia. Non ha chiesto nulla, ma ha avuto un bastone: quello delle parrocchie. Egli ne ha aggiunto un altro: quello della Confindustria, e l’ha trovato subito e pronto. Ci sono stato anch’io. Egli è morto solo e dimenticato alcuni mesi fa. Lo hanno definito il grande regista dei Comitati Civici.

Ed eccomi ora a ricordare un altro grande dell’Italia, Luigi Medici. Gran parte della mia attività professionale si è dovuta incontrare con la sua. Nato a Sassuolo nel 1907, io a Melfi nel 1909, è morto a 93 anni, qualche mese fa. E’ stato definito alla sua morte un artefice del miracolo italiano, già morto per gli altri, ma superstite con la propria coscienza e con la mia fede. Ho avuto sempre a che fare con lui e l’ho trovato sempre amichevolmente disponibile.
Sapeva, e gli era stato riconosciuto, che aveva la vocazione dell’insegnamento e del naturale affiancamento con i giovani. Già nel 1950 Luigi Einaudi lo esaltava. Forse perciò era pronto a scrivere il riassunto dei suoi interventi ai convegni indetti dalla Rivista Politica Economica, allora apparentemente edita dall’Associazione delle società per azioni. Questi riassunti mi preoccupavano, ma lui a mia richiesta si prestava a scrivere quelli che li riguardavano. Non altrettanto faceva Giacomo Acerbo, le cui “benemerenze fasciste” (mi sembra da preside della Facoltà di scienze economiche) gli facevano credere di potersi distaccare da noi giornalisti con la penna in mano di allora. Però di questi non si può certo dire quanto si è scritto di Medici, passato indenne da ogni contaminazione di mani pulite, e tra il ristretto manipolo di uomini che hanno creato le basi perché l’Italia divenisse una delle maggiori potenze industriali.

E concludo con Giulio Andreotti. Ho già detto prima qualcosa di lui. Conosco di lui solo la brillantina in testa, come quella da me sempre usata, al punto da farmi confondere con lui dal raffinato venditore di pipe della vicina Piazza Montecitorio, dove Andreotti aveva il suo studio prima di passare a Piazza in Lucina. Egli era amichevole e quasi garante dei giornalisti che avevano gli uffici nel suo palazzo. Verso le otto del mattino andava a Montecitorio e veniva circondato dai giornalisti. Qualcuno di loro era mio amico, uno, fiorentino, si chiamava Guido Naroni, era stato direttore del Popolo di Roma, era passato a Salò, per dirigere a Venezia il Gazzettino, era stato direttore dell’agenzia ARI a Roma, era divenuto anche direttore di Esteri, Rivista del Ministero degli Esteri, era amico di una certa dirigenza politica della Confindustria. Contava e sapeva contare. Da fiorentino era riuscito a sposare un’inglese, con tutto quanto può significare una donna inglese di un certo livello. Disponeva di capitali propri, che a quell’epoca impressionavano.
Probabilmente ci sarà stato alle sue spalle qualche sorriso compiacente o per lo meno giustificativo; anche di quello non c’è traccia negli archivi. Di chi parlo certamente non c’è traccia in quello di Cossiga, che a me piace per la prevalenza della passione sulla politica e così si può parlare di un’Italia mancata.

Il prevalente alleato del mercato

Quelli fin qui tracciati sono per me ritratti, fotografie allo stesso tempo percepite ma reali. Il nostro lavoro ha a che fare con molti valori: la logica, l’immaginazione, naturalmente proprie, ma suscettibile e forse pure bisognosa di contributi esterni, che aprono la mente e si avvicinano alla verità che è quella che conta perché è anche etica. Ci rivolgiamo infatti agli altri, nel rispetto dei nostri valori, che ci differenziano spesso dagli altri e non ce ne dobbiamo affatto dispiacere. Ho letto perfino che la diffamazione è un reato che va abolito. Ma i reali intendimenti sono quelli di modificarlo, come la Camera del resto sta facendo. Ma noi stiamo a discutere sull’identificazione del diritto, sui troppi veleni che essendo in mare sono anche sui media, sull’eliminazione dei vertici che vogliono comandare sugli altri, sull’identificazione del pensiero, di quel pensiero che garantisce tutti, sul ripudio di ogni trappola.
E appunto come trappole si aggirano certi programmi da definire, che oltre sempre da definire, qualcosa devono farci pur sapere sulla loro attuabilità. Pure in questa o in quella sottocompagine minore dove si parla di Welfare, di situazioni da riformare e di livelli di spesa da aumentare, di pronto coinvolgimento anzitutto strutturale del Mezzogiorno, di riduzione del suo deficit occupazionale cui fa da riscontro l’attivazione imprenditoriale e di manodopera del Nord, di aumenti di spesa soprattutto nel campo delle tante opere pubbliche urgenti quasi ovunque, di indefiniti incrementi di spese per gran parte del personale pubblico: scuole, sicurezza, giustizia, accoglienza dell’immigrazione non delinquenziale.
I mezzi di copertura quasi sempre si affidano a generiche previsioni (molto spesso denunciate nella loro infondatezza o nella loro incapacità di tradursi in reali apporti specifici dal Governatore della Banca d’Italia, più eloquente oggi di quanto siano stati nel passato tutti i suoi predecessori, e ciò perché i tempi sono quelli che sono e la loro sepoltura non appare vicina).
E che deve dire e cosa dice la stampa? Riferisce e commenta. E conduce ad essere dispersiva nella puntualizzazione delle notizie – quella finanziaria, in particolare, accumula le notizie anche minori per farne derivare indicazioni per il tanto incerto oggi investitore e piccolo risparmiatore, al quale ormai è innanzi agli occhi un già fiscabile riducibile 5% sui BOT, che sale e scende – ma anche ad essere distorsiva.
E così ogni giornalista deve entrare nella riflessione, che deve fare i conti con l’immediatezza della comunicazione della notizia. Talvolta ci si rivolge ad esperti nordamericani, ma nessuno di loro sembra molto più esperto di noi, delle nostre cose, come noi del resto sappiamo altrettanto poco delle loro cose, proprio perché la globalizzazione conosce l’estraneità anglosassone, se ne ipotizzano effetti che ancora non ci sono (sempre che ci saranno) ed è ancora in gestazione, oggetto di spinte, di mitigazioni, di resistenze. Norme e istituti in gran parte ci sono, ma l’orizzonte è quello di certi Paesi europei, a cominciare dal nostro.
E poi ci sono le tante trappole, per dirla con parole del già ricordato nostro collega Bocca, a doppio taglio.
C’è quella che riguarda la nostalgia del passato (un Andreotti e un D’Antoni che pensano ancora ad aggregazioni di unificazione delle forze cattoliche, che ognuno vuole invece dalla propria parte nascondendo il più possibile il proprio irrinunciabile).
C’è ancora la trappola per salvare il salvabile. Se ne parla per la Thatcher, con la sua rinnovata onda tuttora lunga. C’è la trappola della ricerca e della contestazione del nuovo solo perché è nuovo: poi si vedrà quello che c’è dentro. Purtroppo, però, non siamo ad un mercato ortofrutticolo di certa frutta o di certe zucche, piccole o grandi che siano. C’è la trappola delle cifre ufficiali. C’è ancora la trappola dell’illusione dell’esistenza di un pensiero che automaticamente ci difende dall’utopia, ma non ci porta al reale. E ciò perché in quasi tutti i Paesi ci sono governi che dettano alle loro opposizioni i propri provvedimenti, tutte provvidenze, ecc. che poi si accompagnano a sondaggi d’opinione, vincenti pure sugli assenteismi.
Molti di noi domandano spiegazioni, ma a rispondere è sempre un vago da interpretare, e spetta a noi giornalisti doverlo fare, perché è l’informazione di qualità che deve vincere. Una volta si diceva: «vincere e vinceremo». Addirittura questo era il finale anche delle lettere private. Ma la stampa allora, come i libri scolastici e storici, erano quelli che erano, come oggi sono sopravvenuti gli altri, che da qualche parte almeno si dice che siano almeno da aggiornare. D’altra parte, si sa che la storia è sempre contemporanea.
Noi giornalisti poi abbiamo a che fare con un diritto che è fatto in TV, con il tanto discusso filmato sulla pedofilia o quello sul linciaggio in Palestina, con richieste anche che provocano scioperi di colleghi e giornali e che riguardano il rinnovo del contratto, ma che affermano di non chiedere privilegi ma garanzie affinché ai cittadini arrivino informazioni sicure, libere dai condizionamenti politici, economici e pubblicitari. Un programma ambizioso, avrebbe detto De Gaulle, di fronte ad un corteo che lo circondava e che invocava «morte ai coglioni». Ma questa volta si tratta di noi, di noi tutti, con la nostra battaglia, che è soprattutto personale, di difesa della fede e della vocazione in noi stessi.
Intanto ci viene annunciato l’accordo tra il nostro Ordine e la Statale di Milano: “Per i giornalisti accordo in Ateneo”. Tanti sono gli atenei in Italia e tanti i nostri ordini in sedi di atenei. Aumentiamo tutti impegno e sforzi. C’è un lungo cammino da percorrere.
Io personalmente credo di avere avuto alla Sapienza di Roma nel 1929 un primo riconoscimento. Il titolare della cattedra di Diritto internazionale, Tommaso Perassi, consulente allora del ministero degli Esteri, mi disse ufficialmente che la mia tesi di laurea sulle Capitolazioni, da lui suggeritami, era una trattazione giornalistica e non accademica. Mio padre, docente, mi ottenne il cambio di relatore. Ma il presidente della Commissione di esame, il grande commercialista Cesare Vivante, ebbe a dirmi che il mio curriculum di studi era discontinuo. Io però continuai per la mia strada, che è sempre stata quella che ha avuto e ha a che fare con l’incubo dell’attrazione della “lettera 22”. La mia porta oggi il numero 25: nella lotteria oggi dominante facciamo circolare anche queste cifre.

Non amo più le cifre, ma...

Per dovere professionale, devo dirvi anzitutto che bisogna guardare con sguardo più attento le cifre di inizio delle carriere, a cominciare da quella scolastica. Qualcuno ha ricordato in questi giorni che Mozart aveva sei anni quando ha rivelato il suo genio e la sua magia arrivando con fatica alla tastiera del pianoforte.
Io, a livelli bassissimi, a 5 anni, avevo scritto sulla pagina di un diario scolastico sotto il titolo di un “Dettato”, ma si è trattato di un Copiato, che non è sopravvissuto, ma la pagina è sotto i miei occhi, con un bel 10 da me apposto. Andavo già a scuola di infanzia, presso una maestra che a casa mi dava lezioni e si chiamava Stella. Mia madre, che mi aveva accolto con maglie di lana di pecora, di cui ricordo il colore e il prurito, perché mio fratello predecessore era morto di polmonite, (allora non c’era la penicillina, come ho prima ricordato), mi aveva trattenuto con lei per tre anni, ma al quarto anno corresse le mie intemperanze mandandomi a scuola, con due vestiti nuovi, di cui ricordo il colore. E così è cominciata la mia corsa ai voti. Io il mio 10 però me lo ero segnato, ma la mia vita non me li ha più fatti vedere.
Ma per noi tutti ci sono cifre più serie, più vere, più autentiche, anche se a volte più negative. Un terzo degli italiani legge e scrive con molta fatica, un altro terzo supera queste difficoltà, vale a dire che non legge libri o giornali e preferisce la televisione. E poi un altro terzo è analfabeta di ritorno, perché una volta chiusi i libri di scuola non li ha più riaperti. E per dare una spiegazione c’è anche Stendhal che ci dà una mano, con una domanda: «Se non ci si diverte, perché si insiste ad insegnare?».
Impariamo, impariamo anche noi. E non bastano per il giornalismo scritto i titoli di prima pagina, e per quello parlato e visivo la voce o la mimica. Ci sono naturalmente le ricette. Ma io, alla mia età, non ne conosco alcuna. Cerco sempre i soliti “quattro lettori”...

   
   
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