Marzo 2001

CATTIVI MAESTRI

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Spoon River dell’Int-Imp
b.s.
 
 

Gli uomini
torneranno
a recitare ogni volta gli stessi immortali copioni, col continuo alternarsi di ère
e di cicli, di ascese
e di tramonti.

 

A leggere Régis Debray, (IF suite et fin, edito da Gallimard), l’intellettuale francese (IF, appunto) è morto, lasciando erede l’intellettuale terminale (IT). Provocazione con putiferio assicurato e con esportazione della polemica nello Stivale.
Apre il fuoco Alfonso Berardinelli: i transalpini hanno sempre chiesto molto agli intellettuali, i quali hanno risposto all’opinione pubblica e alla politica disegnando grandi sistemi teorici. In Italia, nessuno ha chiesto qualcosa agli intellettuali, campioni nell’assumere posizioni tutt’altro che nette. Si pensi a Cacciari, al quale stanno bene simultaneamente il Papa, Nietzsche e il decisionismo. Si pensi a Fortini, Sanguineti, Pasolini, Cases, Asor Rosa, Timpanaro, Bobbio, Galante Garrone, Vattimo... Tutto un ceto intellettuale – precisa Marcello Veneziani – con funzione ormai residuale, di sacerdoti del clima ideologico, gestori del sottopotere televisivo, universitario, editoriale. Cattivi maestri, ma ammirevoli per coerenza? Soltanto Franco Fortini. E con ripensamenti critici sulla propria appartenenza? Soltanto Pasolini. Punto e basta. Intellettuali disponibili all’intervento e alla partecipazione?
Risponde Carlo Bo: un animale in via di estinzione, in un Paese come il nostro, sempre dipendente dalla Francia, particolarmente da Sartre e da Camus.
Che cosa ha determinato la fase terminale? Disinteresse, appiattimento sui propri interessi, distrazione, mancanza di desiderio, di curiosità, di passione. Che più? Interviene Sebastiano Vassalli, che citiamo testualmente: «L’impegno, per la nostra generazione, è stato anche ingenuità e coglioneria [...]. Ora è morto e sepolto da anni [...]. L’IT è un narciso, come i suoi predecessori; ma a differenza dei suoi predecessori non è più un coglione, perché ha imparato a sposare idealismo morale e arrivismo pratico. Combatte le battaglie giuste al momento giusto, quando i riflettori attorno sono tutti accesi. E’ un “istantaneista”, che unisce i vantaggi del colpo giornalistico e del giudizio morale. Sa usare l’impegno per far carriera». Insomma: l’impegno degli intellettuali, nato con Zola di “J’accuse!” pubblicato sul quotidiano Aurore, e con D’Annunzio concionante dal balcone di Fiume, passato attraverso l’intruppamento organico, (ma quanto meno giustificato dopo i totalitarismi, la bomba atomica, la Shoah), intaccato – diciamo così – dalla dabbenaggine, oggi si accende soltanto in nome e in virtù della propria ragion pratica, che è una ragione sempre più intrisa di produttivismo affaristico. Traditi da un disarmante 8 settembre post litteram, gli autentici intellettuali impegnati, quelli che hanno creduto e agito per un ideale una volta condiviso o per autonoma ispirazione, vivono l’età del tramonto in volontari esilii, lontani dai clamori di salotti e cenacoli, dalle patinature di giornali pretenziosi e servili, dagli intrighi di saltafossi e voltagabbana. Hanno perduto tutto, fuorché l’onore.

Mirando il discorso. Ha fatto bene Storace (detto “Refuso”, per via della sintonia ideologica con l’indimenticabile nostro conterraneo Starace) ad aprire la polemica sul manicheismo dei testi di Storia. Ha fatto bene perché dal confronto-scontro seguito sono emersi gli “opposti manicheismi”; perché – come ha scritto Ruggero Guarini – la Storia non si rivela agli accaniti sostenitori di una fede chiamata Storicismo, che sarebbe conveniente chiamar meglio Storiolatria; perché ci offre l’opportunità di ribadire il discorso – già fatto in questa stessa sede – sulle «frottole, contraffazioni, omissioni, distorsioni e manipolazioni» consumate dagli storici («per amore, più che per odio») che si sono occupati di argomenti-chiave delle nostre vicende nazionali.
Il morbo della Storiolatria non colpì gli antichi autori, che furono immuni dall’illusione che la Storia abbia un senso e obbedisca a leggi che gli storici avrebbero il compito di rivelare. Profondi conoscitori della natura umana, magnifici narratori di eventi e di azioni e descrittori di caratteri, di costumi e di civiltà, Erodoto, Senofonte, Tucidide, Polibio, Dione Cassio, Ariano, e Livio, Sallustio, Svetonio, Cesare, Tacito, Ammiano concepirono la Storia come una ribalta sulla quale gli uomini e i popoli, incalzati da immutabili passioni individuali e collettive, non smetteranno mai di avvicendarsi negli stessi ruoli, «di sfoggiare gli stessi vizi e le stesse virtù, di inseguire gli stessi miraggi, di soccombere ai medesimi destini». Gli uomini, per gli autori classici, torneranno a recitare ogni volta gli stessi immortali copioni, col continuo alternarsi di ère e di cicli, di ascese e di tramonti di genti e di regni e di imperi, non obbedendo ad alcuna legge che non sia quella (non storica, ma cosmica) che impone alla natura il terribile gioco dei suoi eterni ritorni.
La Storiolatria – dice Guarini – è figlia legittima della speranza storica, la cui essenza è di riportare il Paradiso sulla terra, costringendo la Storia a sfociare in qualche epilogo glorioso, nel lieto fine. Fede del tutto otto-novecentesca, la speranza storica trovò il suo più illustre profeta in Hegel, che vide in Napoleone lo Spirito Assoluto, nello Stato Prussiano del suo tempo il compimento della Storia Universale e nel proprio sistema filosofico il culmine insuperabile della Filosofia. Poi sopraggiunse Marx, che nella classe operaia individuò la salvatrice dell’Umanità, nella Rivoluzione Proletaria l’ultima convulsione della Storia e nel passaggio dal Capitalismo al Comunismo il salto dal Regno della Necessità a quello della Libertà, «versione profana del trasloco dall’Inferno al Paradiso». Seguirono vari apostoli dei due sommi profeti, compresi i bracci esecutivi che quei Paradisi ritennero di aver creato, e che in realtà finirono per piantare le pietre miliari dei lager e dei gulag.
La fede storiolatrica ha procurato solo disastri storici e sciocchezze storiografiche. Chi ha avuto nei confronti della Storia diffidenza o addirittura disprezzo, non ha ispirato nessuno di coloro che di Storia hanno scritto con animo distaccato e con mano avvincente. Non il Gibbon della Storia della decadenza e caduta dell’Impero Romano, non il Voltaire de Il secolo di Luigi XIV, che definirono la Storia, il primo, «poco più che una registrazione dei delitti, follie e sventure dell’umanità», e il secondo, «un quadro di delitti e di sventure».
Le più belle pagine su Napoleone sono state scritte da uno spregiatore della Storia, lo Chateaubriand delle Memorie d’Oltretomba, mentre il libro più lucido sulla Rivoluzione francese si deve ad uno storiofobo sublime, Ippolito Taine, mentre il Burckhardt riteneva, riecheggiando Shakespeare, che la Storia fosse «un racconto narrato da un idiota, pieno di strepito e di furore, e che non significa niente», e che forse proprio per questo scrisse magnifici testi sulla Grecia antica, sulla Roma di Costantino, sul Rinascimento italiano e sul genio di Richelieu, prima di avvertire per lettera gli amici con questa autentica profezia: «Questo splendido ventesimo secolo è destinato a tutto tranne che alla vera democrazia... Voi tutti non sapete ancora quale tirannia si eserciterà sopra lo spirito, col pretesto che la cultura sia un’alleata segreta del capitale... Ho un presentimento che può sembrare follia: lo Stato militare diventerà una grande impresa industriale... Si profila all’orizzonte una lunga, volontaria sottomissione a singoli dittatori e usurpatori... E’ proprio a lui, a Burckhardt, che dobbiamo l’aureo libretto, Osservazioni sulla storia universale, che ciascuno di noi, e ciascuno degli storiolatri, dovrebbe leggere e rileggere, come antidoto alla cieca devozione e sudditanza storiolatrica.
Così fosse stato, non saremmo stati gabbati tanto a lungo da una serie di mitologie sceneggiate dalla nostra storiografia storiolatrica negli ultimi due secoli. Ne elenchiamo alcune:
– la Rivoluzione Napoletana del 1799, che avrebbe originato il nostro Risorgimento, di fatto non avvenne mai, dal momento che la Repubblica Partenopea, come del resto è notissimo, non fu frutto di un’ insurrezione interna, ma di un’impresa dell’esercito napoleonico che, sconfitti i borbonici e soffocata nel sangue la resistenza delle plebi napoletane, si impossessò di un lembo del Regno delle Due Sicilie e lo consegnò ai “giacobini locali”, che giunsero al potere senza aver mosso un dito per conquistarlo;
– lo stesso Risorgimento non fu dovuto a un moto spontaneo di popoli, ma una lunga guerra di conquista combattuta e vinta dal Piemonte, con il sostegno di esigue minoranze di cospiratori interni, di alcuni Stati europei e della massoneria;
– il Fascismo, che viene ancora creduto di destra, fu in effetti di sinistra, poiché le sue principali realizzazioni (partito unico, identificazione dello Stato con il partito, statizzazione di vari e vasti settori dell’economia, monopolio e controllo dell’informazione, della cultura, dell’istruzione e dell’arte, e via di seguito) sono le stesse che si potevano riscontrare nei regimi comunisti;
– l’Italietta unitaria e prefascista raggiunse i suoi primi traguardi con l’eco costante di migliaia di fucilazioni con cui vennero represse nel Mezzogiorno le resistenze antisabaude, e che di fatto portarono alla “riconquista” del Sud dopo una feroce e sanguinosa guerra civile;
– la Repubblica non è nata da una Resistenza, che non accelerò di un solo minuto la resa dell’Italia, ma dalla sconfitta militare che per fortuna non si dovette all’Armata Rossa, ma alla Quinta Armata americana;
– nessun tipo di rivoluzione politica (borghese, proletaria, nazionale, riformista, socialista, terrorista...) ci ha dato i vantaggi che la storiolatria attribuisce a ciascuna di esse; tutti i successi sociali e materiali del nostro tempo (benessere, crescita dell’età media, miglioramento della condizione operaia, emancipazione della donna, rivoluzione sessuale, cultura di massa, scomparsa di alcune malattie, ecc.) sono figli dell’alleanza tra capitalismo e scienza, che ci hanno dato il treno, il telegrafo, il telefono, l’automobile, la radio, l’aeroplano, i vaccini, le colture intensive, la televisione, gli elettrodomestici, gli antibiotici, il computer...;
– nessuno storico del comunismo è riuscito a dare di esso una definizione più illuminante di quella che, mezzo secolo prima del suo avvento, venne formulata da Dostoevskij nell’esilarante pagina dei Demoni in cui un tal Scigalev rivelava che partendo dall’idea di un’assoluta libertà si sarebbe arrivati a un dispotismo assoluto, e spiegava che il comunismo non poteva che produrre esattamente il contrario di quel che prometteva.
Scrive in Variazioni sull’impossibile Mario Andrea Rigoni: «Ingannatrice beffarda dei suoi idolatri, la Storia si rivela solo a chi la avversa: perfetto storico non può che essere l’antistoricista». Chi non è servo del principe. Chi non antepone l’ideologia alla verità. Chi non mette il partito al posto della coscienza. Chi non narra, ma racconta. Chi non è Int(ellettuale) Imp(egnato) al proprio servizio e al servizio del proprio Borsino.

   
   
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