Marzo 2001

MITO E CULTO NELLA PREISTORIA

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Nel grembo
della Grande Madre
Tonino Caputo - Franco de Angelis
 
 

 

 

 

Nel Cristianesimo, alcune componenti del culto della Dea confluiscono
in quello
della Vergine, che viene collegata con le sorgenti curative, i germogli e i fiori.

 

Nel momento in cui la civiltà di Roma incominciava a percorrere la sua curva discendente, uno scrittore africano geniale e originale, Apuleio, scrisse un’opera che è stata giudicata il primo “romanzo” in lingua latina: l’Asino d’oro. Era la storia di un giovane, di nome Lucio, al quale capitavano le più singolari avventure: trasformato in asino, sarebbe tornato infine alla forma umana mangiando un cespo di rose.
Ebbene, al culmine della sua disgrazia, Lucio invocò la grande dea Iside, egiziana di origine, ma affermatasi in tutto il mondo romano. Iside gli apparve e si definì in questo modo: «Io, madre di tutte le cose, signora di tutti gli elementi, principio di tutte le generazioni nei secoli, la più grande tra i numi, la regina dei Mani, la prima dei celesti, archetipo immutabile degli dèi e delle dee, ai quali concedo di governare col mio assenso le luminose volte del cielo, le salutari brezze del mare, i lacrimati silenzi degli inferi; io, la cui potenza, unica se pur multiforme, tutto il mondo venera con riti diversi, con diversi nomi».
Questa splendida citazione potrebbe assumersi a sintesi di un’imponente indagine che Marija Gimbutas intitolò a suo tempo Il linguaggio della dea. Mito e culto della dea madre nell’Europa neolitica. E tanto più la citazione è valida, in quanto essa riflette la continuità di un culto irradiato ben oltre l’epoca attribuita alla sua fioritura, che è l’Europa dell’ultima preistoria, all’incirca tra il 7000 e il 3500 prima di Cristo. C’era dunque per davvero, nell’Europa di quel tempo, una religione così definita, così organica e dominante?

Poiché all’epoca non esisteva la scrittura, gli studiosi hanno sempre fatto ricorso alle immagini, vale a dire alle figurazioni dipinte o incise su pareti di roccia, e alle statuette in pietra, in avorio o in terracotta che ci sono pervenute. E quasi senza esclusione ammettono che a prima vista si sono trovati dinnanzi come a un gigantesco “puzzle”, denso di simboli molto spesso difficili a interpretarsi. Ma avevano fiducia che quel rebus potesse comporsi, come avevano fiducia che le immagini preistoriche potessero essere interpretate. Orbene, dalle figurazioni reali e simboliche hanno visto emergere una figura femminile preminente, sulle cui caratteristiche hanno approfondito quindi l’indagine.

Dispensatri-ce della vita, espressione della terra che si rinnova, simbolo dell’energia dell’universo: queste sono le connotazioni primarie, differenziate ma interconnesse, della Grande Dea o Grande Madre. Esse risultano in parte da elementi figurativi di immediata evidenza, come l’accentuazione delle parti del corpo che qualificano la figura femminile; e sono suggerite in altra parte da elementi integrativi meno evidenti perché in funzione simbolica, come l’acqua dispensatrice della vita e gli animali che di essa venivano ritenuti espressione, quale, per citare un esempio soltanto, il serpente che muta pelle e che, di conseguenza, si rigenera.
Fino a questo punto il discorso resta contiguo a quello da parecchio tempo noto sulla Dea Madre, il grande elemento femminile creatore e dominatore dell’universo, al quale si rifanno in gran numero le società preistoriche. Ma il discorso si sviluppa e cambia quando alle prerogative della Dea viene aggiunta quella di Signora della Morte, una realtà dello stesso universo che è l’altra faccia della vita, con essa indissolubilmente congiunta. Si ricordino (per limitarci anche in questo caso ad un esempio) le maschere della dea della morte che, sulla metà del V millennio prima di Cristo, ce la presentano con bocca larga, zanne sporgenti e lingua pendula.

Il contesto economico e sociale in cui il culto della Grande Madre si afferma è quello dell’agricoltura, che successe alla raccolta del cibo con mezzi naturali. L’uomo impara a produrre gli alimenti, diventa sedentario, dà vita ai villaggi e quindi alle città: il mondo gli appare allora come un grande organismo vivente, guidato da forze arcane e meravigliose che egli può esplorare, evocare, chiamare a guidarlo e ad illuminarlo. La scienza intesa a ricostruire questa fase del processo umano viene generalmente definita “archeomitologia”, perché comprende sia i dati archeologici sia l’interpretazione mitologica.
Definita in tal modo la nascita del culto della Grande Madre, si pone il problema di quando e perché esso muore. Intorno al 3500 avanti Cristo, con l’inizio della scrittura e quindi della storia, compaiono nuove religioni, nelle quali l’elemento maschile ha maggiore spicco: o si affianca a quello femminile, oppure lo sovrasta come principio generatore dell’universo. La Grande Dea si trasforma allora in sposa o in figlia: così Era greca è la sposa di Zeus, sommo dio. In ogni parte d’Europa, la Terra Madre perde la capacità di generare la vita delle piante senza l’apporto del Dio del Cielo.

Nel Cristiane-simo, alcune componenti del culto della Dea confluiscono in quello della Vergi-ne, che viene collegata con le sorgenti curative, i germogli e i fiori, i frutti e i raccolti. Nei Paesi cattolici il culto della Vergine è talvolta più intenso, a livello popolare, di quello stesso di Gesù. Ma la componente della morte è ormai scomparsa, anzi viene respinta nel segno delle streghe da scoprire, condannare, annientare. Diverso è il caso delle credenze popolari, dove la tradizione si sedimenta per riaffiorare nei secoli e nei millenni. Ed ecco una serie di favole, soprattutto nell’Europa settentrionale, in cui l’antica Grande Madre svolge in nuove vesti un ruolo dominante, per la vita come per la morte: si pensi a Frau Holla, dei fratelli Grimm.
Che gli studiosi, e con essi la Gimbutas, considerino la decadenza della Grande Madre come una decadenza della società, che essi guardino al mondo preistorico ricostruito nella luce di quella fede come a una sorta di età dell’oro, lo indicano alcune loro conclusioni: la Grande Madre o Grande Dea gradualmente si ritirò nel profondo delle foreste o sulle vette delle montagne, e in quegli eremitici luoghi sopravvisse fino ai nostri giorni nelle credenze e nelle fiabe. Seguì l’alienazione dell’uomo dalle radici vitali della vita terrena, e i risultati possono essere ben colti – tanto sono evidenti – persino nella società contemporanea.

Ora soffia il vento dell’Est

Ci sono grandi aree del pianeta che nella nostra cartografia mentale appaiono sfumate, grigie, popolate da gruppi umani indistinti. Questo accade per terre lontane, delle quali conosciamo assai poco, o conosciamo per stereotipi; ma altrettanto accade per luoghi vicini, o relativamente vicini a noi, anche se sono diversi per tradizioni. Poi accade qualcosa che ci costringe a prestare un’attenzione maggiore, e allora scopriamo che anche gli altri sono portatori di caratteristiche complesse, di tratti specifici, di storie antiche.
Quel che sta accadendo da qualche tempo a questa parte nei Paesi dell’Est è uno di quegli avvenimenti di cui dicevamo, e la conseguenza è che dobbiamo scoprire in fretta (e non senza un’imbarazzata sorpresa) che, anche involontariamente, avevamo alzato una cortina più o meno spessa non soltanto sul passato recente, ma anche sul passato remoto di quelle terre. Riscopriamo, sia pure sommariamente, la storia come operazione di “bonifica” personale non inutile; anche perché incontriamo fenomeni e conquiste culturali che sono alla base della nostra stessa civiltà.
Una delle più singolari testimonianze di quell’antico vento dell’Est sopraggiunge dalle località di Mezin e di Meziric, in Ucraina, dove sono stati scoperti resti di villaggi paleolitici risalenti a circa 15 mila anni fa, con capanne costruite utilizzando mandibole, zanne e femori di mammut. In una delle abitazioni di Mezin è stata scoperta la più antica raccolta di strumenti musicali fabbricati con gli ossi del pachiderma, che doveva essere alla base dell’economia e della cultura degli uomini paleolitici in questa zona del continente asiatico. Si tratta di una scapola, di due mascelle inferiori e di un frammento di osso pelvico con tracce di decorazioni dipinte, cui si aggiungono un martelletto di corno di cervo e un mazzuolo. La particolare usura riscontrata in specifici punti dei grandi ossi ha consentito di concludere con ragionevole certezza che si tratti di strumenti a percussione: il primo complesso musicale del mondo.
Un altro oggetto di particolare interesse rinvenuto nella stessa area è una scheggia d’avorio sulla quale sono incise diverse immagini che raffigurerebbero l’accampamento stesso e il fiume che scorreva ai suoi margini. Se l’interpretazione è giusta, si tratta della più antica rappresentazione paesaggistica conosciuta.
Altri cacciatori di mammut, ancora più antichi (26 mila anni) li incontriamo a Dolni Vestonice, non lontano da Brno, in Cecoslovacchia. Qui gli ossi di un centinaio di mammut vennero usati per bonificare una palude in prossimità dell’abitato che ha restituito, fra l’altro, il più antico materiale artificiale creato dall’uomo. Tra i resti di un forno sono state infatti ritrovate diverse figurine in terracotta ottenute cuocendo un impasto di terra e di polvere d’osso. Sono rappresentazioni di un’antica Grande Madre, probabilmente la principale divinità del pantheon del paleolitico superiore.
Dal paleolitico al neolitico. E in Bulgaria scopriamo un altro primato: il primo oro d’Europa. Viene dalla necropoli di Varna, sulle sponde del Mar Nero, dove la diversa ricchezza dei corredi funerari indica una società del IV millennio prima di Cristo già strutturata in classi sociali. Fatto singolare è che alcuni dei corredi più ricchi d’oro provengono da tombe simboliche (senza inumato), di cui non si comprende ancora la funzione.
Altro enigma ancora in Bulgaria, dove alcune “tavolette” di terracotta, databili al 3000 prima di Cristo, (ma alcuni sostengono che siano nettamente più antiche), sono incise con segni che fanno pensare a una struttura ideografica correlata al culto di una divinità femminile. Finora tutti i tentativi fatti per interpretare le “tavolette di Tartaria” sono andati a vuoto e gli archeologi sono divisi tra l’ipotizzare contatti con la Mesopotamia (dove la scrittura comparve poco prima del 3000 prima di Cristo), o ammettere che anche nei Balcani si sviluppò un embrione di scrittura quasi un millennio prima che comparisse tra i Sumeri.
Per molti specialisti queste tavolette sono attribuibili alla cultura di Vinca che tra il 4500 e il 3500 prima di Cristo si estese dalla Jugoslavia all’Ungheria, dalla Bulgaria alla Romania. La località che ha dato il nome a questa cultura ha restituito una serie stratigrafica di dieci metri di spessore dove sono state trovate oltre duemila statuette della Dea Madre, simbolo di fecondità.
Divinità più misteriose compaiono invece in un’altra importante stazione preistorica jugoslava: Lepenski-Vir, un villaggio del 5500-4600 a.C., situato nella gola delle Porte di Ferro del Danubio. Il dio di questa comunità di pescatori mesolitici è rappresentato da sculture in cui si mescolano teste umane e corpi di pesce. Singolari immagini, che oltre a rappresentare il più antico complesso monumentale d’Europa, testimoniano il grado di elaborazione culturale raggiunto da pescatori sedentari, mentre in altre parti del Continente si andava affermando l’agricoltura.
Alla cultura di Cucuteni, in Romania, (4700-2700 a.C.), che si estese quasi fino a Kiev (dove prende il nome di cultura Tripolye), dobbiamo un’altra conquista fondamentale per lo sviluppo della civiltà europea: la domesticazione del cavallo. Anche in questa civiltà, come in molte altre del neolitico balcanico, la vita spirituale ruotava intorno al culto della Grande Madre e della fecondità; ma sia le grandi ceramiche decorate con episodi mitologici (come la scalata al cielo dei Titani), sia i numerosi modellini di case-tempio, rivelano un universo mitico molto articolato, che sembra fare da prologo a quello della civiltà ellenica.
Lungo le aride coste del Mar Nero, tra la Romania meridionale e la Bulgaria settentrionale, incontriamo la cultura di Hamangia, databile tra la fine del V millennio e il 3700 prima di Cristo.
Rappresenta la più antica cultura dedita all’agricoltura conosciuta in questa regione delle steppe, ma è nota soprattutto per le imponenti dimensioni delle sue necropoli, dove sono state rinvenute statuette di marmo o di terracotta raffiguranti uomini e donne spesso senza volto o con misteriose maschere, evidentemente destinate a nascondere (e rivelare nello stesso tempo) l’identità divina del personaggio. Celebre è quella detta “Il pensatore”, seduto e col mento appoggiato sulle mani, che evoca un’umanità impegnata a interrogarsi sui misteri di un mondo che preparava il cammino alle grandi civiltà dell’epoca classica. Questo, mentre mancavano almeno tremila anni alla nascita di Roma.

(E non soltanto in Europa, o nei Paesi del bacino mediterraneo vive – e sopravvive – il mito della Grande Madre. Non è da meno l’Asia, che con l’Anatolia si protende nel Mare Nostrum, come a farsi ponte e terra di saldatura tra i due continenti. Ancora oggi, in Cappadocia, terra profondamente matriarcale, le donne confezionano bambole di pezza o tessono figure femminili nei tappeti, quasi per riaffermare la propria preminenza di quest’isola in mezzo al fiume della misoginia islamica. Del resto, Anatolia significa “Terra di Levante”, ma anche “Madre Piena”, che è tutto dire. E percorrendo gli altipiani anatolici si ha modo di riflettere che da Cibele alle fantoline di pezza cappadocia permangono una subdola continuità, un’idea ribadita ad alta voce, e l’abdicazione negata, come nei disegni-stemmi orditi nelle trame dei tappeti che le donne portano in dote e che segretamente fanno tessere alle proprie figlie perché costoro, a loro volta, ne tramandino le inaccessibili tecniche alle generazioni
successive: vi compaiono forme antropomorfe esclusivamente femminili, di Madri Dee, definitivamente stilizzate, di donne non come semplici compagne della vita o signore dello spazio domestico, né come vivi amuleti scaramantici, ma proprio come eredi delle femminili divinità che avevano signoreggiato agli albori della civiltà, come tralci del ceppo primigenio, innestati, innervati nell’indole ribelle delle discendenze).

E tuttavia, qualche dubbio resiste, qualche mistero attende ancora di essere – se possibile – svelato. Certo, la costruzione imponente dell’antica religione europea o euroasiatica è per tanti aspetti affascinante, per altri invece sembra discutibile. Se l’idea di fondo, che del resto si collega, pur modificandola, a quella tradizionale della Dea Madre, è difficilmente contestabile, l’appassionata “reductio ad unum” di una quantità immensa di figurazioni preistoriche, largamente irradiate nel tempo e nello spazio, lascia non pochi coni d’ombra: e si è portati a chiedersi se sia mai possibile che per tutto valga la stessa, inalterabile interpretazione.
Per riprendere un’immagine di Joseph Campbell, non pochi studiosi avrebbero decodificato l’arte preistorica come Champollion decodificò i geroglifici. Ma vien fatto di osservare che Champollion ebbe nel senso articolato, differenziato e convincente delle traduzioni la prova piena della validità della sua opera; laddove nell’interpretazione del materiale figurativo emerso in tante regioni la spiegazione rigidamente univoca non può dare un’analoga certezza.

Resta, ciò posto, il grande merito di uno “scavo” tanto approfondito nel mondo e nel pensiero della preistoria, che sarà senz’altro punto di riferimento indispensabile per coloro i quali si dedicano tuttora a questi studi e ricerche su un’epoca e su una “mentalità” che è all’origine della nostra civiltà e della nostra cultura.

   
   
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