Marzo 2001

SCIENZA E SOCIETA’ CIVILE NEL SUD

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San Leucio,
per esempio
Ada Provenzano - Enrica Rivelli
 
 

 

 

Il Mezzogiorno
si veniva dotando
di una moderna
università, proprio quando nel resto d’Europa la ricerca trovava fuori delle università
nuovi modi
di aggregazione
e di organizzazione.

 

«In Napoli, in fatto di istruzione pubblica, non esisteva quasi nulla [...]. In tre o quattro mesi io ho creato, permettetemi questa superba parola, ho creato l’università di Napoli». L’affermazione di France-sco De Sanctis, secondo la quale l’università partenopea era nata con la sua opera di ministro, se politicamente comprensibile, se storicamente giustificata, ebbe paradossalmente il significato di non fare i conti col passato, ma di cancellarlo.
Gli effetti di una posizione come questa, analoga a quella di Antonio Genovesi riferita agli anni Trenta del secolo precedente e all’opera di Celestino Galiani, o ancora retrocedendo a quella di Giannone sulla svolta della metà del secolo XVIII, hanno in un certo modo giustificato e accreditato l’idea dell’inesistenza di una passata cultura scientifica, e di contro quella di una scienza sempre senza alcun passato, schiacciata sul presente, frutto di reiterate nascite piuttosto che di rinnovamenti o di rinascite.
Appare fin troppo semplicistico attribuire alla storiografia neo-idealista la responsabilità di aver trascurato, occultato, o ancor peggio determinato in senso negativo il ruolo della cultura scientifica del Mezzo-giorno, con i suoi risultati e con le sue sconfitte, e di averle invece sostituito i percorsi trionfali della filosofia e delle discipline umanistiche. In realtà, essa, e non solo essa – basti pensare che nella grande Storia di Napoli, pubblicata negli anni Sessanta da punti di vista molteplici, ma certo distanti da egemonie neo-idealiste, è ancora assente ogni considerazione sulla scienza – non fece che accettare il modo con cui si erano storicamente configurati il peso e il ruolo della scienza nel Sud, e il cui occultamento non era il prodotto di una malizia ideologica, ma il risultato del singolare rapporto tra scienza, Stato e società. E d’altra parte, quasi a riprova, basterà porre mente al fatto che, nell’importante storiografia dedicata alla storia della scienza italiana nel periodo positivista, la cultura meridionale ebbe una parte assai poco significativa.
Attualmente, (e lo ha rilevato autorevolmente Giuseppe Galasso), l’immagine storiografica che vedeva nelle opere e nell’epoca di Bruno e di Campanella, tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, l’ultimo grande momento del pensiero meridionale, con l’eccezione isolata e incompresa del Vico, si è trasformata e modificata profondamente, restituendo l’immagine di un Mezzogiorno dove i grandi momenti della discussione scientifica europea, da Galileo a Descartes, da Newton a Lavoi-sier, da Buffon a Lamarck, trovano pronta accoglienza e originale discussione. Così, tra il XVII e il XVIII secolo il dato costante che caratterizza la situazione napoletana è il divario dell’informazione e della discussione, sempre a confronto di quella delle altre aree della Penisola e di quella europea più avanzata, e la sua ricaduta nella società civile, l’incapacità di farsi ora scuola, ora istituzione, la difficoltà di incidere nell’organizzazione del sapere e del vivere civile.

Il terzo tesoro

Di Caserta tutti conoscono la splendida reggia vanvitelliana; di Casertavecchia (“Casa irta”), molti conoscono lo splendore urbanistico e monumentale del borgo longobardo; pochi, o pochissimi, hanno visitato il terzo tesoro di questa città, il Real Sito di San Leucio, che, per la complessità e per la molteplicità degli aspetti d’interesse, è persino più importante dei primi due.
San Leucio è antica ma viva. La sua storia nasce da un’utopia concepita dal secondo re Borbone, Ferdinando IV, al tempo in cui porgeva orecchio all’ideologia dei Lumi. Idea portante dell’esperimento: una comunità basata sulla comunione dei mezzi di produzione e su un relativo affrancamento dalla soggezione a gerarchie, leggi e fiscalità. Un’idea già affiorata in Carlo III, il costruttore della reggia. In Calabria, costui aveva fondato Carlopoli, area in cui ai residenti erano stati assegnati gratuitamente terreni e attrezzi per la coltivazione, a patto che accettassero di essere stabilmente membri della comunità. Questa iniziativa influenzò sicuramente Ferdinando IV, che sotto la guida del Tanucci volle dar vita ad una comunità retta da regole del tutto innovative.
Un nucleo iniziale di residenti era già presente intorno al 1775, quando il re appuntò la propria attenzione sul bosco di San Silvestro, dove abitualmente cacciava, trovando poi rifugio nel casino di Caccia e, dopo che questo fu funestato dalla morte del suo primogenito, nel palazzo Acqua-viva. Fu questo il perno del complesso edilizio intorno al quale si mosse la colonia, con l’aggiunta dei corpi di fabbrica in cui si insediarono le filande della seta e i telai. Più a valle vennero dislocati i quartieri urbani, destinati ad ospitare le famiglie dei setaioli.
La fabbrica riunì in un articolato complesso le parti propriamente dedicate alla produzione e quelle destinate alla scuola di formazione. In un braccio del palazzo Acquaviva trovò posto l’alloggio reale, che era in diretta comunicazione con la stanza di telai e filande. Gli ambienti reali furono dipinti da artisti illustri, dall’Hackert (il vedutista i cui quadri figurano nella collezione di palazzo reale) al Fischetti, al quale si deve la decorazione della sala da pranzo, col trionfo di Bacco e Arianna.
Di pari passo con lo sviluppo industriale della produzione di seta, furono impiantate altre imprese, soprattutto in agricoltura e in zootecnia. In geometrica simmetria vennero impiantate le vigne della “Torretta” e del “Pomarello”, dello “Zibibbo” e del “Ventaglio”. Gli oliveti salivano morbidamente sul fianco della collina, fino al limite del bosco. L’insediamento di allevamenti di cavalli e di bovini diede il nome, tuttora conservato, al quartiere alto della Vaccheria, nel quale sorse la splendida chiesa di Santa Maria delle Grazie.
Sistemate le macchine per la filatura e la tessitura, fu la volta di gigantesche macchine idrauliche sospinte dall’acqua dell’acquedotto carolino portata fin là attraverso un condotto sotterraneo. Le opere di ingegneria civile e meccanica che accompagnarono lo sviluppo della colonia lasciano a bocca aperta chiunque, ancora oggi, le avvicina e riflette sui mezzi tecnici con cui venivano concepite e realizzate. I ponti della valle, l’acquedotto carolino, le ciminiere, le macchine tessili, oltre che prodotti della tecnica, sono opere d’arte. Della tecnica hanno il rigore formale e l’efficienza. Dell’opera d’arte portano il segno della creatività dell’autore e la leggiadria dei profili.
Ma il progetto ferdinandeo non si esauriva qui. Dal 1786 al 1799, nella parte bassa del sito, sorsero i quartieri di San Carlo e San Ferdinando, con case rigorosamente simili l’una all’altra, unite in un disegno modulare a costituire agglomerati, la cui vasta dimensione non tolse mai identità alle singole cellule che li componevano. Il piano della città nuova, cui preludevano questi quartieri, fu disegnato, ma non è giunto fino a noi. Ricerche filologiche, condotte soprattutto da Eugenio Battisti, dell’università di Milano, ce ne hanno tuttavia fornito esaustive ricostruzioni. Nel ‘99 tutto era pronto per dar corso all’attuazione della città, ma l’avvento dei francesi e della Repubblica napoletana interruppe un processo che avrebbe potuto offrirci una rara perla dell’arte urbanistica del Settecento.
La comunità leuciana fu dotata di una Costituzione coniata su misura, (“Leggi per il buon governo della popolazione di San Leucio”), ispirata a forme di paternalismo religioso e ad uno spinto egualitarismo. Il che fece scrivere a Croce che l’esperimento del sito si traduceva in una «Colonia razionalmente e comunisticamente ordinata». Fra le norme previste: una Cassa di carità, destinata al sostegno di coloro i quali, senza colpa, si trovassero in condizioni di non poter provvedere al proprio sostentamento; l’assicurazione dei mezzi di sostentamento e di produzione; il diritto al lavoro e all’assistenza sanitaria. La forma di governo della Colonia era improntata a garantire a tutti libertà d’iniziativa. I Seniori del popolo, cui erano conferiti i poteri esecutivi, avevano il compito di assicurare il rispetto della Carta dei diritti leuciani. I quali disciplinavano fra l’altro il matrimonio, la successione e i rapporti sociali; l’obbligo dello studio e del pieno impiego; persino l’intero cammino della produzione della seta, dall’allevamento dei bachi al prodotto finito.

Storicamente, la produzione, iniziata con i veli, (ancora oggi la tessitura manuale consente a due operai di produrre solo 15 centimetri al giorno), si articolò in tessuti di varia fattura e dai nomi suggestivi: Ormesini, Rasi, Pekin rigati, Lampassi, Spolinati, ciascuno frutto di tecniche sofisticate. Ogni tessuto ha il proprio ordito (i fili longitudinali) e la propria trama (i fili trasversali, della lunghezza standard di 130 centimetri, pari all’altezza del telo). Varie le densità di tessitura: dai 55 fili di ordito e 30 fili di trama del Lampasso, ai 136 fili di ordini e 40 fili di trama del Damasco, per ogni centimetro quadrato di stoffa. I disegni, spesso di grande ricchezza e di armoniosa composizione, erano impreziositi a volte da inserti di fili d’oro e d’argento.

A un fervore e a un fermento di discussioni, di opere, di traduzioni, di originali ripensamenti, corrispondeva un deserto di istituzione, dove quegli stessi fervori e fermenti avrebbero dovuto germogliare e crescere.
Singolare situazione, che non mancò di essere subito sottolineata da attenti osservatori e che costituì un punto fermo nelle successive riflessioni e nelle azioni degli intellettuali meridionali, da Intieri a Genovesi, a Matteo Galdi, a Pilla, a Piria, (e siamo con questi alla vigilia dell’Unità), nella comune consapevolezza che solo attraverso e con la riforma dello Stato e della società sarebbe stato possibile sviluppare le esigenze e le domande che la scienza poneva con urgenza crescente. Così proprio a Napoli, dove più carente appare e apparve il sostegno delle istituzioni statali alla scienza, divenne, rispetto al resto del Paese, il luogo in cui più preoccupante e più durevolmente si individuarono la natura e il peso del rapporto che legava la scienza moderna alla società e allo Stato, e dove, con un prezzo crudelmente alto, la società civile fu costretta a sostituirsi all’azione dello Stato, escogitando canali precari ma non irrilevanti, come accademie e scuole private, musei privati, osservatori privati, sicuramente capaci di mantenere alto il livello della discussione e dell’informazione, di rinnovarla e di rafforzarla, ma evidentemente non in grado di produrre risultati duraturi, né di risolvere il punto cruciale dei rapporti con l’industria e con la tecnica, così decisivi tra Sette e Ottocento.
Soltanto traumatici eventi esterni, come il periodo francese e, in seguito, l’Unità, furono in grado di produrre quel fatto di primaria importanza e di straordinaria novità per il Sud che fu quello con cui, per la prima volta in epoca moderna, lo Stato si assumeva in prima persona il compito di dar vita a centri di ricerca scientifica e di conservazione del patrimonio scientifico, riconoscendo nella cura e nello sviluppo della scienza uno dei suoi compiti principali. Non agevolmente, perché se lo sforzo dei “francesi” di dotare la capitale del Sud di musei naturalistici e di osservatori per il breve periodo a disposizione creò musei piuttosto che veri e propri centri di ricerca, i problemi politici posti dall’Unità, quelli organizzativi di collocare in uno schema ideato per minori esigenze – la legge Casati – un’università come quella partenopea, paralizzata da secoli ma frequentata da un numero incalcolabile di studenti, la volontà non miope, ma debole di non perderne con l’unificazione la specificità, finirono di fatto, in sintonia col resto del Paese, col privilegiare gli aspetti didattici e professionali a scapito di quelli della ricerca, nello stesso momento in cui grazie al protezionismo si applicava un atroce spoils system industriale a danno del Sud. Paradossalmente, il Mezzogiorno si veniva dotando di una moderna università, e su di essa basava la sua risorsa scientifica, proprio quando nel resto d’Europa la ricerca trovava fuori delle università nuovi modi di aggregazione e di organizzazione.
E Napoli conobbe ben presto quali fossero quei nuovi modi nelle sale affrescate della Stazione Zoologica fondata da Anton Dorhn.
Se, una volta raggiunta l’unità politica del Paese, dalla fine del secolo scorso appare superato quel dato che aveva caratterizzato dall’inizio dell’età moderna la cultura scientifica del Mezzogiorno, cioè la divaricazione tra una rilevante riflessione intellettuale e una scarsa ricaduta istituzionale, («Egli avrebbe certamente più fatto, se avesse trovato nella Corte chi l’avesse voluto secondare», osservava Genovesi a proposito di Galiani), quella medesima divaricazione ha impedito non solo la conservazione di strumenti, di apparati, di gabinetti che fortunosamente e sempre privatamente gli scienziati avevano utilizzato e si erano procacciati, (con alcune felici eccezioni), ma anche la creazione, persino embrionale, di istituzioni atte alla conservazione della stessa memoria storica, come pure in altre regioni è avvenuto. Non solo, ma il susseguirsi di eventi esterni significativi per la vita e per l’organizzazione della scienza ha prodotto l’effetto di cancellare di volta in volta quanto aveva dato il periodo precedente, in termini materiali, ma anche storici, di modo che ogni periodo, ogni cesura, dall’inizio del secolo XVII a De Sanctis, hanno potuto presentare e accreditare se stessi come un fenomeno tutto nuovo, senza alcun legame con la situazione precedente.
Riappropriarsi la memoria storica della vita scientifica nel Sud è un compito importante non soltanto da un punto di vista storiografico; è compito necessario per recuperare quel difficile rapporto tra scienza e società civile che ha caratterizzato negativamente un passato secolare. Non esercizio archeologico, né celebrazione di borie provinciali, né rivendicazione di misconosciuti primati: al contrario, si tratta di rimettere le mani nella storia della scienza del Sud, nei suoi archivi, nelle biblioteche, nei musei, negli istituti, di ricostruire vita e attività di istituzioni e di uomini, il sorgere e il tramontare di accademie scientifiche e di laboratori, di valutare mezzi e risorse, progetti, vittorie e sconfitte, anche per superare il rammarico con cui un testimone ottocentesco della vita culturale del Sud si doleva di un sapere che non riusciva «a dare a queste contrade i mezzi delle opere per sviluppare la vita propria delle genti moderne».

   
   
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