Marzo 2001

Controcanto sul Naviglio

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Per Alda Merini
Antonio Errico
 
 

 

 

Poesia piena di voci, di grida udite
e scordate o serbate nel fondo più fondo del ricordo, di volti persi, dispersi.

 

Il volto ha la bellezza del dolore: la bellezza assoluta dell’assoluto dolore che si stringe, si raggruma tutto dentro la pupilla, quella bellezza spaurita dal dolore del tempo, dell’uomo, della memoria, della follia, della ragione perduta, della parola che fiotta, che scende nell’abisso, che svetta verso orizzonti possibili solo ai poeti, a quelle creature che avvertono sulla propria pelle, nella propria mente lo stupore e il tremore di vivere, ogni istante.

Una casa sul Naviglio. Il manicomio di Milano. Dal Paolo Pini entra ed esce. Dopo la prima volta, ogni volta che sente salire l’onda del delirio, si presenta da sola al cancello dell’inferno.
Schizofrenia, dicevano i medici. Lei dice che non è stato vero. Mai. Era nevrosi, esaurimento, dice. Ma per Alda Merini la follia è una delle cose più sacre che esistano sulla terra. E’ dolore che purifica; sofferenza come quintessenza della logica; è la madre, il padre, la casa; può prendere il posto di un amore. «Non si può portare all’esterno una figura così carismatica, bella, di sogno com’è il delirio, perché verrebbe distrutto, inghiottito dal quotidiano. La follia va invece allevata in un ambiente adatto, e allora può dare alla luce cose straordinarie».
Cose straordinarie: che sfondano i confini dell’ordinario, che sfidano, violano l’ordinarietà del senso, la banalità del senso. Che deragliano dai consueti tracciati del pensiero. Che scardinano le categorie rassicuranti della logica. Lampi nel buio. Eclissi nel chiarore. Ossimori che catturano l’indicibile, l’impensabile. Che provocano vertigini.
Cose straordinarie: come una poesia di Dino Campana; come una poesia di Alda Merini. Poesia che è luogo in cui si rinnova il caos originario, dove reale e irreale si contaminano, si sovrappongono, si confondono fino a rendersi indistinguibili, fino a diventare indecifrabili, indefinibili. Così la poesia diventa “luogo del nulla”. Forse del nulla che è tutto, com’è il mito per Fernando Pessoa: del tutto racchiuso nell’evento del logos.

Poesia. Follia. Poesia e follia polverizzano qualsiasi macigno del reale, qualsiasi cosa visibile, tangibile; annullano i nessi logici; consentono la regressione, la catarsi, l’abbandono. Hanno il potere di trasformare la realtà, di raggrumarla in un simbolo, di dare ad essa un senso nuovo. Tutto quello che rientra nella sfera della scrittura e della follia abbandona il senso originario per caricarsi di un altro senso, spesso indicibile, a volte persino incomprensibile. E’ un vascello sulle rotte dell’ignoto, uno scandaglio di pensieri radicali.
Ancora: poesia, follia. Ancora: amore. Dolore. Parole estranee ad ogni assonanza. Tenute insieme soltanto dalla disarmonia, dallo stridore del vivere, dallo squilibrio dei giorni che oscillano freneticamente tra una percezione di felicità intensissima e breve e un’angoscia di incommensurabile durata.
Poesia che si genera dalle viscere come gravidanza, creatura che nasce da un atto d’amore, da un sentire le cose, le stagioni, gli altri dentro di sé.
Poesia come un pulsare del sangue, una ferita sul cuore, come un dono incredibile, un altro tra i tanti suoi amori, come un altro dolore tra i tanti dolori.
E’ una narrazione dell’io profondo: dell’io che si espande e abbraccia ogni altro io; è un ascolto dell’altro, un parlare ad un altro, un dialogare infinito.
E’ un sentire e un dire che qualcuno c’è al di là di te, che comincia dove finisce il tuo corpo, il tuo pensiero, la tua miseria d’uomo, il giorno che attraversi, l’ansia che ti invade, la paura che ti assale per una ragione che non sai riconoscere, che non riesci a capire.
Pesante come un ricordo, leggera come un racconto, slegata da tutto e da tutti ma avvinta ad ogni occasione: a un’emozione, uno sguardo, un silenzio, un tremore. Poesia che nasce comunque: dalla memoria e dal sogno, da una fantasia e da un bisogno, da un abbandono, un delirio, un mistero; tra i barboni del Naviglio, sotto il cielo di Milano, tra le vite crocefisse nelle stanze di un manicomio.
Poesia piena di voci, di grida udite e scordate o serbate nel fondo più fondo del ricordo, di volti persi, dispersi.
Figure. Sono figure fragili, tenere, quelle che si aggirano per i versi di Alda: figure che seguono un sogno, che rifiutano il sonno, creature spaurite che domandano a Dio le ragioni del dolore, della morte: di quell’allungarsi d’ombre sugli uomini e le cose, di quel silenzio che le assedia o le sorprende. Hanno paura di quel niente che a un certo punto attraversa la vita.
Poesia è riattraversare la vita per raccontarla così com’è stata e anche come lei, Alda Merini, avrebbe voluto che fosse: e avrebbe voluto che fosse più leggera, l’avrebbe voluta meno aggrovigliata. Sa che la vita è niente ma sa pure che è l’unica che ha, e allora si aggrappa ad essa, la trasforma in parole perché duri di più, per catturare ogni istante di allegria, di erotismo.
Ha detto Thomas Mann da qualche parte che Eros è il compagno e la guida nella strada verso la bellezza.
Per Alda Merini l’eros è anche questa tensione conscia o inconscia verso la bellezza, ma, più di questo, è bisogno di sentire che qualcuno le appartiene e di appartenere a qualcuno.
Semplicemente, giocosamente, allegramente. Anche se il gioco e l’allegria sono spesso avvelenati da un rimpianto più o meno segreto e dalla scoperta inquietante che il tempo passa anche per i poeti, e travolge.
Alda Merini lo scopre, fa finta di scoprirlo, perché in realtà è una cosa che ha intuito, come tutti o quasi tutti hanno intuito, qualche istante dopo essere nata. Ma come tutti, o quasi tutti, finge di non pensarci. O ironizza. Ironizzare è un po’ come convincersi che quel che trova e quel che perde appartiene a lei solo a metà e che solo su quella metà potrà contare in ogni caso: la metà finta, sognata, inventata, la metà che è favola della vita, che ti permette di rispecchiarti nell’acqua del fiume del tempo, e qualche volta anche di innamorarti di te, delle tue stesse parole.
Ma cosa c’è di più malinconico del narcisismo, del guardarsi essere con la consapevolezza che non si sarà mai più così, che non si sarà comunque.

Poesia come consapevole triste illusione.
Poche illusioni ha consentito la vita ad Alda Merini o forse una sola: quella di potersi sottrarre all’oblio, alla voragine del tempo, consegnandosi senza condizioni al richiamo delle sillabe di un verso.

   
   
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