Marzo 2001

SCIENZA A RISCHIO

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La fecondazione umana
tra etica e biotecnologie
Attilio Pisanò
 
 

 

 

La locazione del ventre costituisce offesa alla dignità della donna,
snaturando il ruolo sociale e naturale della maternità.

 

La tematica della fecondazione artificiale pone notevoli problemi sia da un punto di vista etico che dal punto di vista dell’ontologia medica. Ci si chiede, infatti, fino a che punto l’atto medico, l’intervento del medico, o del biologo che sia, abbia carattere di aiuto terapeutico oppure diventi atto sostitutivo e manipolatorio, in un campo in cui curare dovrebbe significare rimuovere degli ostacoli, favorire dei processi e non sostituirsi integralmente alla responsabilità delle persone, della coppia, in ciò che ad essa è proprio, esclusivo e inalienabile.
Punto di partenza obbligato per chi si voglia occupare della cosiddetta fecondazione assistita è il tema della procreazione umana, qui intesa non da un punto di vista biologico, ma come atteggiamento sociale, come atto influenzato da un certo milieu culturale, il quale ha visto, col diffondersi del permissivismo edonista, il superamento del concetto sessualità-genitalità.
L’evoluzione culturale della società moderna (e in particolare mi riferisco a quella occidentale) ha portato a rivendicare e ad incrementare non solo il distacco del comportamento sessuale da qualsiasi norma etica, ma anche il nesso inscindibile che lega, e ha legato per secoli, l’atto sessuale alla procreazione. Ciò in una duplice direzione: da un lato l’atto sessuale oggi è considerato come un mero atto fisiologico, una necessità istintiva e carnale da soddisfare irresponsabilmente senza il pericolo che esso porti alla procreazione (sesso senza genitalità), dall’altro gli incredibili progressi in ambito scientifico hanno realizzato quella che fino a pochi anni fa era considerata una mera ipotesi futuribile: la procreazione senza la consumazione dell’atto sessuale (genitalità senza sesso). Ed è proprio in quest’ultimo ambito che le questioni di carattere etico vengono ad assumere un ruolo fondamentale, investendo temi legati alla persona del nascituro, alla natura del matrimonio, al diritto ai figli (o meglio il diritto a procreare), alla responsabilità dei coniugi, all’insanabile contrasto tra tecnica e morale nella medicina e nella bioingegneria. Ci troviamo in un punto nodale delle applicazioni scientifiche e tecniche all’uomo, ove è più che mai necessario operare la distinzione tra ciò che è tecnicamente possibile e ciò che è moralmente lecito.

Fecondazione significa porre in atto un nuovo individuo. Questo tipo di intervento biomedico e tecnico non può, e non deve, essere valutato alla stregua di un qualsiasi atto fisiologico e tecnico. La fecondazione, o procreazione che dir si voglia, è atto personale della coppia e ha come risultato un essere umano. Questo principio implica che spetti alla coppia uomo-donna, legittimamente costituita in matrimonio e nella fondazione della famiglia (la prima e più importante istituzione sociale), la decisione se procreare o no, che è un diritto “personalissimo” (e come tale inviolabile e indisponibile) di coppia. E’ qui necessaria una prima e basilare distinzione fra coloro i quali individuano nel rapporto coniugale un vero e proprio “diritto ai figli” e coloro i quali, invece, sostengono l’esistenza solo di un “diritto a procreare”. Nonostante sembri, ad un primo e superficiale sguardo, una distinzione da poco e tautologica, essa nasconde dietro di sé due diversi approcci al tema: il “diritto ai figli” è sostenuto da coloro che in nome del consenso, della volontà imperante, si fanno fautori della “liberalizzazione della morale”, negando, in nome del piacere personale, ogni limite etico in materia di fecondazione artificiale e ammettendo, quindi, il ricorso alla locazione del grembo materno, all’utilizzazione di tecniche di procreazione asessuate, o, addirittura, alla possibilità di “avere figli” per le coppie omosessuali o per i singles. Il “diritto a procreare”, invece, è il diritto indiscutibile che ogni coppia, stabilmente unita in matrimonio, ha di poter porre in essere atti oggettivamente finalizzati alla procreazione, con la possibilità, nel caso di particolari forme di impotenza, di ricorrere solo ed esclusivamente a quelle tecniche “integrative”, giammai sostitutive, di procreazione (l’inseminazione artificiale omologa).

Un’altra basilare distinzione rilevante eticamente oltre che tecnicamente è quella tra fecondazione artificiale omologa e fecondazione artificiale eterologa. La prima designa le tecniche volte ad ottenere un concepimento umano a partire dai gameti di due sposi uniti in matrimonio; la seconda, invece, designa le tecniche in cui ci si avvale di uno o più elementi biologici (spermatozoi, ovociti o addirittura utero) estranei alla coppia. Esse possono essere operate in vari modi: la fecondazione omologa per il tramite della fecondazione in vitro con embryo-transfer (FIVET), della inseminazione artificiale intracorporea (AIH) o del trasferimento intratubarico del gamete (GIFT) o ancora per mezzo della fecondazione microassistita (ICSI); la fecondazione eterologa (oltre alla FIVET eterologa e alla AIH con donatore) con un “semplice” trasferimento di embrione frutto dell’incontro di gameti, entrambi appartenenti a donatori, oppure utilizzando la surrogate mother. Le ipotesi sono ancor più complicate quando si proceda ricorrendo alla “banca del seme” o quando si utilizzino ovociti o addirittura embrioni congelati.
La fecondazione artificiale pone, quindi, differenti problemi a seconda che essa sia omologa o eterologa, in vitro o in utero. L’insemina-zione omologa è utilizzata, quasi con finalità terapeutica, per “curare” alcune forme di sterilità femminile o maschile, altrimenti non curabili. Questo è il primo indispensabile presupposto perché possa ammettersi la fecondazione omologa: l’esistenza di altri metodi terapeutici preclude la possibilità di utilizzare una qualsiasi forma di fecondazione artificiale, e ciò sia per la delicatezza dell’operazione, sia per il rischio (concreto e reale) di un’inutile produzione di embrioni destinati poi alla morte certa (visto e considerato che nella maggior parte delle tecniche fecondatorie si realizza in vitro un numero superiore a quello strettamente necessario di embrioni, nel caso in cui l’embryo-transfer non abbia successo).
Pertanto, l’inseminazione artificiale può ottenersi in vitro o in utero. Orbene, sulla liceità della fecondazione omologa intracorporea nessuno ormai discute; lo stesso magistero della Chiesa, da sempre molto sensibile a questo tipo di problemi, ha ritenuto ammissibile un simile intervento, qualificandolo come aiuto terapeutico e integrativo volto a far sì che l’atto coniugale, in sé completo in tutte le sue componenti (fisiche, psichiche, spirituali), possa avere effetto procreativo. I problemi etici non riguardano, quindi, lo scopo che si vuole perseguire nell’intervento sulla vita e sulla relazione di coppia, ma riguardano i metodi che si usano e le tecniche che si impiegano in relazione alle modalità di prelievo del seme maschile. Si distingue, a tal proposito, fra inseminazione artificiale omologa (AIH) e trasferimento intratubarico del gamete (GIFT). L’inseminazione artificiale omologa consiste nel trasferimento nelle vie genitali femminili dello sperma del marito, precedentemente raccolto. Questo tipo di intervento è da considerarsi come un aiuto tecnico, affinché il seme eiaculato, possibilmente in coincidenza con l’atto coniugale, possa unirsi alla cellula uovo e attuare così la fecondazione, con tecniche di micromanipolazione; la salvaguardia dell’unità fisico-spirituale dell’atto coniugale sarebbe così garantita e l’intervento del terzo, del ginecologo o del biologo, si collocherebbe solo ed esclusivamente nell’ambito di un lecito intervento finalizzato al completamente procreativo di un atto oggettivamente idoneo alla fecondazione. Se, infatti, si ritiene che la procreazione non può essere privata dell’elemento dell’unione sia fisica che spirituale di una coppia, allora nessuna controindicazione etica coinvolge questa tecnica fecondatoria così come appena descritta. Se, invece, il metodo di raccolta del seme si configuri non come una facilitazione alla procreazione, bensì come integralmente sostitutivo dell’atto coniugale, allora l’inseminazione artificiale pone dei problemi più delicati. E’ il caso in cui il seme maschile venga raccolto non in coincidenza di un atto coniugale, ma al di fuori e prescindendo da esso (mediante masturbazione o mediante biopsia testicolare). Ebbene, in questa ipotesi l’intervento medico non può essere assolutamente considerato come integrativo, bensì come un intervento “manipolatorio”, contra naturam operato affinché la fecondazione venga provocata dopo un atto oggettivamente inidoneo alla procreazione. Qui si presenta il punctum dolens dell’intera problematica: la fecondazione artificiale può essere ammessa solo ed esclusivamente allorquando essa non sostituisca gli esseri umani in un atto proprio della loro natura: l’atto sessuale.
Il trasferimento intratubarico del gamete omologo (GIFT) è una tecnica di fecondazione artificiale intracorporea che comporta il trasferimento simultaneo, ma separato, dei gameti maschili e femminili all’interno della tuba di Falloppio. Il discorso appena fatto per l’AIH omologa va in toto ripreso per ciò che riguarda la liceità etica della GIFT omologa, che, se utilizzata nell’ambito di una coppia legittima e del prelievo dei gameti in coincidenza di un rapporto sessuale fra i coniugi, non propone particolari tipi di problemi.
Sia la GIFT che l’AIH, quindi, devono essere ritenute ammissibili come tecniche terapeutiche finalizzate non alla cura dell’impotenza, come pur erroneamente si dice (l’impotenza infatti rimane), ma all’integrazione in direzione procreativa di un atto moralmente lecito, perché attuato nell’ambito di un rapporto di coppia e “scientificamente” idoneo alla fecondazione.
Diverso è il discorso per ciò che riguarda la fecondazione in vitro con trasferimento embrionale omologa. A favore della liceità etica di questo tipo di intervento si pronunciano coloro i quali evidenziano che essa sarebbe comunque attuata nell’ambito di rapporto di coppia regolarmente costituito, e che ogni coppia avrebbe, quindi, diritto ad avere dei figli, in quanto esso perfezionerebbe un rapporto costituito a tal fine.
L’argomento si presenta carico di conseguenze a livello scientifico, etico e sociale. Il trasferimento di embrioni fecondati in vitro, in provetta, prescindendo dall’atto sessuale, fa parlare di “autopoiesi” dell’uomo, di “ectopia” della generazione, di passaggio giuridico e sociale dall’esistenza di una sola paternità-maternità ad una sorta di “cooperativa” di genitori e costruttori del concepimento. E’ proprio in questo ambito che si evidenzia il contrasto, esistente e per certi versi insanabile, fra scienza e morale. Infatti, è scientificamente possibile compiere un atto così rilevante, e così umano, come il concepimento senza la necessità di porre in essere un rapporto sessuale. Sono sufficienti sia il prelievo di gameti, maschili e femminili, sia la successiva fecondazione della cellula-uovo in provetta, riducendo così la procreazione a mera operazione biologica attuabile anche artificialmente. E’ il problema dei limiti etici al progresso scientifico, è il problema più importante dell’etica moderna, sia laica che cattolica: fino a che punto può legittimamente spingersi il dominio dell’uomo sull’uomo? E’ eticamente legittimo un comportamento che privi la procreazione della sua dignità? Ed è un problema che coinvolge i rapporti tra il diritto, sempre più aperto alle spinte edonistiche provenienti dalla società, e la morale, unica custode ormai, potremmo dire, di quella dignità umana che ha nella nostra Costituzione e nel Preambolo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948 la sua massima espressione. Ma è soprattutto un contrasto fra etica oggettiva ed etica soggettiva, fra coscienza morale e coscienza individuale, fra tutela dell’uomo e liberalismo dilagante, in una società come la nostra che ha fondato sull’individualismo etico l’unico valore trascendente universalmente riconosciuto: il culto illimitato di se stessi, del proprio piacere, della propria unica e irripetibile “autenticità”.

Ma la FIVET non è solo questo. Per necessità tecniche si costruiscono di solito più embrioni di quanti possano essere richiesti per l’eventuale trasferimento in utero, derivandone un “surplus” di embrioni congelati, che possono poi essere soppressi, destinati alla sperimentazione, come se l’embrione fosse un animale e negando così tout court il carattere umano dello stesso, già minato dalla legislazione abortista. Al momento della fusione dei gameti, pur se in provetta, si dà luogo ad una nuova e autonoma individualità umana che andrà sviluppandosi fino al raggiungimento delle forme umane. Ammettendo, anche solo a livello teorico, la possibilità di eliminazione degli embrioni, si procederebbe ad una soppressione di esseri umani che non è ammessa neanche dalla legge sull’aborto, e pertanto rappresenterebbe sic et simpliciter un delitto ingiustificabile nei confronti di un individuo, il quale, anche se nato in provetta, ha la stessa dignità e gli stessi diritti di tutti gli altri esseri umani (cfr. art. 1 Dichiarazione Universale).
Ma c’è un’altra ragione di carattere etico che va considerata: la fecondazione in vitro, anche quando è omologa, dissocia la dimensione unitivo-affettiva dell’atto coniugale dalla dimensione procreativa e fisica, determinando, in questo modo, una disgiunzione fra la sfera sentimentale e la sfera procreativa, elementi questi inscindibili in un rapporto di coppia. E bisogna aggiungere che nel caso della fecondazione in provetta si introduce una causalità genitoriale plurima ed estranea alla coppia. Mentre nell’AIH il medico compie solo un’azione sussidiaria e complementare che non espunge la fecondazione dalla volontà e dall’unione della coppia, nella FIVET il momento fecondativo (l’unione dei due gameti) è attuato da un operatore estraneo alla coppia, riducendo, così, la procreazione a fatto di mera tecnica, degradando l’atto procreativo sia in senso teleologico che antropologico: chi compie la fase decisiva alla procreazione è un estraneo alla coppia tanto che non sembrerebbe azzardato affermare che il concepito avrebbe così tre genitori, distinguendo, quindi, fra padre putativo e padre genetico.
Problemi ancora maggiori pongono le tecniche di fecondazione artificiale eterologa, indicata per ovviare a patologie più complesse rispetto a quelle prese in considerazione per la fecondazione omologa, perché si richiede la donazione di cellule uovo o di spermatozoi (tecnicamente più semplice da effettuare e più sicura, in quanto con la crioconservazione i gameti maschili possono essere conservati senza particolari problemi anche per lunghi periodi di tempo). Sull’illiceità etica di questo tipo di tecniche non vi è alcun dubbio. Si pensi all’aberrazione di una FIVET eterologa con coinvolgimento di problematiche (oltre a quelle già trattate) legate all’unità matrimoniale e coniugale, all’identità biologica, psicologica e giuridica del nascituro, il quale non avrebbe, da un punto di vista strettamente genetico, nessun tratto in comune con il padre “putativo”. E’ facile osservare che, quando si realizza la donazione del seme e dell’ovulo o di entrambi, si stabilisce una differenziazione tra la figura dei “genitori” e la figura dei coniugi. La struttura unitaria del matrimonio verrebbe ad essere infranta; si avrebbe un individuo concepito in provetta, con seme prelevato da un donatore, frutto di una fecondazione asessuata e scissa dal rapporto intercorrente tra l’individuo e i propri genitori.
Stante il fatto che ognuno ha diritto di sapere di chi è figlio (diritto sancito dalla Dichiara-zione sui diritti del fanciullo approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1959), il nascituro che avesse un’identità biologica non coincidente con quella giuridica potrebbe avere delle difficoltà di rapporto (difficoltà che esistono anche per i figli adottati e per i quali spesso l’adozione rimane un segreto) con i propri genitori, nonché problemi di identità personale. Il ricorso al trasferimento di embrione creerebbe casi strani e giuridicamente intricati, come nel caso di trasferimento di embrione dopo la morte del padre (FIVET omologa) o dopo che i committenti vengano a scomparire prima dell’impianto in utero di un embrione già esistente e già orfano prima ancora di venire alla luce. Il ricorso, poi, alla banca del seme (ricorso ammesso secondo un recente disegno di legge oggi in esame alla Commissione Igiene e Sanità del nostro Senato) potrebbe determinare una popolazione di un certo numero di consanguinei che non sanno di essere tali fra loro (con il rischio reale di unioni matrimoniali tra fratellastri con tutte le conseguenze di ordine biologico e giuridico conseguenti), e ciò perché con l’eiaculato di un uomo solo si possono fecondare molti ovuli. Il distacco fra paternità genetica e paternità “sociale” è talmente evidente che sarebbe necessario un apposito documento normativo per parificare ex lege i figli nati da una donazione di seme a quelli naturali di una coppia, degradando così un fatto essenzialmente naturale ad oggetto di disciplina giuridica. A ciò si deve aggiungere il pericolo di spinte verso l’eugenismo allorquando la coppia (o la sola donna) committente decida di rivolgersi a particolari banche del seme (esistenti già negli States) che raccolgono solo gameti di uomini con un certo grado culturale o con ben determinate caratteristiche psicosomatiche.
Le tecniche in questione sono assolutamente contro natura, atteso che rimettono alla volontà dell’uomo decisioni (quali i tratti somatici o il sesso del figlio) che non spettano a lui. Il ricorso alla banca del seme, o alle surrogate mothers, è aberrante, poi, nel caso in cui la coppia committente sia una coppia di omosessuali. Si pensi al caso di quel bambino inglese commissionato da una coppia di gay e procreato per il tramite della surrogate mothers: è la prova più evidente dei pericoli insiti in questo tipo di tecniche, che minano il fondamento della società tutta, la famiglia coniugale e bisessuale.

Altra tecnica utilizzata nell’ambito delle tecniche di fecondazione eterologa riguarda la locazione del ventre materno nella duplice forma della “madre portante”, che affitta il proprio grembo per la gestazione e il parto di un embrione ottenuto in vitro con cellule germinali di una coppia e poi impiantato nell’utero della suddetta, e della “madre surrogata” che viene inseminata dal marito di altra donna (in vitro o in utero) contribuendo così col proprio corpo alla gestazione e al parto del concepito. Col fine ultimo, in entrambi i casi, della cessione del nato alla coppia committente. Il disvalore di questo metodo è evidente: si determina così una manipolazione della corporeità del figlio che riceve il patrimonio genetico da due persone, mentre riceve il sangue, il nutrimento e la comunicazione vitale intrauterina da un’altra persona, con il conseguente trattamento del figlio come un esemplare animale e non come un individuo che ha il diritto di riconoscere i propri genitori e di identificarsi con essi.
Si tratta di interventi che non si configurano come mero problema morale, di libertà o di coscienza individuale, ma che ledono il principio di salvaguardia della dignità umana. La locazione del ventre (non importa se retribuita o meno), infatti, costituisce offesa alla dignità della donna innanzitutto, snaturando il ruolo sociale e naturale della maternità e degradando la donna a puro organismo riproduttore, in contrasto evidente con il concetto di maternità responsabile (desumibile anche dalla 194/1978) e con lo stesso processo culturale di emancipazione della donna che da oltre trent’anni combatte perché non sia considerata solo ed esclusivamente un’incubatrice umana. Si lede, così, in ogni caso, la dignità del nato, poiché egli viene degradato a res commerciabile e commissionabile, ad oggetto di scambio, di contrattazione e di scambio. Anche perché la locazione del grembo materno comporta una cessione di nati che già la legge italiana del 1983 sulle adozioni severamente punisce.

L’applicazione delle più recenti scoperte scientifiche in tema di fecondazione artificiale, quindi, rappresenta uno dei più problematici campi con cui la bioetica deve confrontarsi. La peculiarità in questo campo è dovuta al fatto che, ad un potenziamento della tutela dell’essere umano, soprattutto in ambito sovranazionale, non fa riscontro un’adeguata politica dei legislatori dei singoli Paesi che compongono la comunità internazionale; si ha quasi l’impressione che all’accordo generalizzato sulla proclamazione dei diritti dell’uomo (in ambito bioetico in particolare mi riferisco al diritto alla vita sancito solennemente dall’art. 3 della Dichiarazione universale del 1948 e calpestato con la pratica dell’aborto o della creazione di embrioni in sovrannumero nei vari tipi di fecondazione artificiale, nonché al diritto personalissimo di ognuno ad avere un’identità personale sancito dalla Dichiarazione sui diritti del fanciullo del 1959, violato ogni qualvolta si ammettono pratiche di fecondazione assistita eterologa) non corrisponda un adeguato riscontro tutelatorio nel diritto interno. Probabilmente il villaggio globale, in via di costituzione, dovrebbe fare in modo che sia la comunità internazionale (in primis l’Unione Europea, anche se le differenze di approccio al problema della procreazione assistita sono evidenti nel contrasto tra i Paesi mediterranei, meno inclini allo sviluppo senza limiti della scienza applicata alla procreazione, e i Paesi nord-europei, più aperti a non limitare eticamente la scienza in nome dei diritti soggettivi – diritto ad una famiglia per le coppie omosessuali – il cui contenuto è certamente discutibile) a porre dei limiti efficaci all’affievolimento della tutela dell’essere umano operata sotto la spinta di un dilagante utilitarismo individualistico-edonistico capace di elevare il progetto nichilistico di morte, portato dal soggettivismo tendenzialmente illimitato, a sommo principio-guida della condotta umana. Solo, infatti, un accordo programmatico realizzato a livello mondiale, o quantomeno europeo, che specifichi in modo chiaro quali siano i limiti etici invalicabili della scienza, può garantire il rispetto di princìpi morali propri non di una particolare cultura, bensì dell’uomo e dell’intera umanità.

   
   
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