Paradossalmente
in Europa l’ordine
economico svolge opera di supplenza rispetto al disordine istituzionale.
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La cronaca quotidiana racconta molte passioni fuori corso. Quella
parlamentare ci mostra come in campo europeo e nazionale gli appartenenti
alla classe “eletta” difficilmente possono fare i duri
in un mondo di tiepidi, difficilmente possono assumere iniziative
senza il “marchio d’azienda”, difficilmente possono
coltivare ambizioni se non praticano il culto del “rischio
zero”. Il potere degli organigrammi è più forte
di ogni ipotesi di governo ecumenico.
Quanto queste condizioni oggettive di condizionamento siano compatibili
con le aspettative di regolamentazione dei mercati è materia
di quotidiani tormenti. Eppure, dovendo stare in Europa, i partiti
nazionali sono obbligati a trovare maggiore sintonia con i movimenti
e le idee continentali in cui si riconoscono. Invece sul piano legislativo
la tradizione solidarista viene spesso ribaltata da spinte decisioniste
di tipo individualista che privilegiano interessi nazionali o di
ben definite lobbies economiche.
Certamente non è facile far convivere ordinamenti diversi
che non sono fatti solo di norme ma anche di prassi, convenienze
e tradizioni. Si vorrebbe soltanto un’opera di regia e di elaborazione
più attenta alle istanze generali dello sviluppo e della
Società civile. Nella costruzione di un ordinamento europeo,
al di là delle grandi questioni di architettura costituzionale,
conta l’opera quotidiana di livellamento giuridico che viene
portata avanti. Speciale impatto ha la legislazione economica da
cui dipende molto l’effettiva capacità d’integrazione.
C’è un accordo recente sullo statuto della società
europea che appare largamente ispirato da istituti di diritto tedesco
(vertice di Nizza). Invece di guardare alle regole della “corporate
governance” di tradizione anglosassone, si è preferito
cercare formule compromissorie di matrice continentale.
La futura società di diritto europeo prevede l’intervento
dei lavoratori negli organi dirigenti, anche se le pressioni della
Presidenza francese hanno consentito di lasciare agli Stati membri
la facoltà di recepire o non recepire i contenuti della direttiva
nella legislazione nazionale. Il tema richiederà certamente
un’elaborazione più sistematica in ordine ai poteri
degli organi societari, con appiattimento meno palese sul diritto
tedesco, ma sotto la spinta della globalizzazione l’Europa
non può lasciar passare l’immagine di una SpA appiattita
sugli interessi degli shareholders (azionisti) ignorando gli stakeholders
(i dipendenti in primo luogo). Finirebbe per essere abolita una
delle principali conquiste sociali del dopoguerra.
In ambito bancario l’ultima direttiva registra un palese compromesso,
finendo con l’accettare sia il modello tedesco della banca
universale, sia quello italiano della banca commerciale. Anche in
questo caso una riflessione più approfondita dovrebbe condurre
ad un istituto europeo meno esposto alle influenze nazionali, con
l’intento di rendere il “rischio bancario” funzionale
alla mobilità e duttilità dello “sviluppo impresa”.
Mentre per l’erogazione del credito, palesi ragioni di equità
suggerirebbero di stabilire su base europea tassi minimi di riferimento,
almeno per i mutui e il credito al consumo.
Un recente rapporto sull’integrazione dei mercati dei servizi
finanziari e dei capitali (rapporto Lamfalussy) sottolinea il persistere
di forme molteplici di rigidità nei fattori produttivi del
capitale (non solo del lavoro) e pone con forza la ricerca ulteriore
di flessibilità per dar vita ad un mercato integrato con
regole e regolamenti comuni.
Il sistema bancario sembra remare invece in senso contrario, come
prova la recente scoperta del “fascino” svizzero. La Deutsche
Bank ha deciso di trasferire in Svizzera le sue attività
di gestione patrimoniale internazionale e passi analoghi si apprestano
a fare altri istituti europei.
Le ragioni principali sono di carattere fiscale. Ma un tale atteggiamento
(allocazione di sedi e attività su piazza extraeuropea) è
compatibile con la politica di armonizzazione sempre proclamata
da quindici governi dell’Ue? I commissari per il mercato interno,
le imprese e gli affari economici non hanno niente da dire?
Rileva inoltre Tommaso Padoa-Schioppa, membro del Comitato esecutivo
della Bce, che la crescita di banche europee è ostacolata
«dall’atteggiamento delle autorità che tendono
a considerare le aggregazioni nazionali più favorevolmente
rispetto a quelle tra banche di Paesi diversi». E’ palese
il richiamo ad un eccesso di tutela esercitato dalle Banche centrali
nazionali.
C’è poi il nodo Borsa sul cammino dell’internazionalizzazione
dei mercati. Il progetto IX che prevedeva la nascita di una Borsa
europea da costituirsi fra Londra e Francoforte è stato accantonato.
Ma restano in piedi tutte le problematiche e le preoccupazioni che
lo avevano patrocinato.
Restano in piedi principalmente i limiti che i protagonisti delle
Borse domestiche incontrano quotidianamente sullo scenario globale.
In un’ottica di tutela dell’interesse collettivo risulta
sacrificato un processo di progressiva razionalizzazione e di maggiore
qualità nell’informazione, nonché la possibilità
di conseguire costi minori nella gestione del capitale trattato.
E’ prevalsa la paralisi nata dall’incubo di una normativa
che produceva super-regolazione o dipendenza da legislazioni di
altri Paesi. Secondo un’ipotesi verosimile le società
italiane quotate a Milano avrebbero dovuto dare informazioni utilizzando
le procedure previste dalle leggi e dai regolamenti inglesi (blu
chips) e tedeschi (nuovo mercato), svuotando in modo sostanziale
il Testo Unico sulla Finanza introdotto in Italia nel 1998. E nuova
incertezza si sarebbe aggiunta alla disciplina che regola l’offerta
pubblica di acquisto (opa). Altre difficoltà alla convergenza
in una disciplina uniforme dei mercati derivano dal sistema dei
controlli che va dalla Bce (brilla per l’assenza di poteri
significativi) alle Banche centrali e alle Authority che in sede
nazionale svolgono compiti delicati, con ristretti margini di autonomia
rispetto agli organi politici di governo (si pensi ai conflitti
ricorrenti in Italia tra Antitrust, Consob, Banca centrale, ecc.
ed al contenzioso che non a caso una legge recente ha attribuito
ai giudici amministrativi con competenza esclusiva).
Una serie composita di carenze legislative produce un clima europeo
di sostanziale incertezza che come primo approccio si evidenzia
nella fragilità genetica dell’euro. Negli Stati Uniti
i mercati dipendono dalle decisioni della Federal Reserve, in Europa
invece avviene il contrario, con la Bce costretta ad inseguire i
mercati.
La riflessione si sposta dunque sulle logiche di articolazione del
potere a livello politico e istituzionale. L’esperienza del
dopo Maastricht non è esaltante. Si continua a privilegiare
una concezione verticale e verticistica dei poteri comunitari mentre
la Società civile organizza gli interessi collettivi su base
orizzontale (si pensi all’accresciuta importanza che in Italia
vanno assumendo le camere di commercio, gli enti fiera, le fondazioni
bancarie e le altre espressioni di autonomia funzionale).
Il futuro europeo si presenta dunque più motivato dal dinamismo
orizzontale, dall’interazione con altre culture e altri poteri.
Ciò rappresenta un limite esogeno dell’agire politico
cui si somma un limite endogeno costituito dall’alto tasso
di litigiosità che produce la gerarchia delle autonomie istituzionali
e che incrementa il contenzioso lungo il percorso imposto dalla
sussidiarietà verticale. Il decentramento commercializzato
con le vesti paludate del federalismo creerà un’articolazione
a rete dei poteri politici e istituzionali ma sarà scarsamente
produttivo di crescita se non si identificherà col policentrismo
funzionale verso cui si muove l’organizzazione della Società
civile.
Le contraddizioni evidenziate nelle direttive comunitarie costituiscono
un momento significativo delle difficoltà che s’incontrano
nel governare la complessità dell’Ue. Oltre alla questione
istituzionale, mettono in evidenza seri problemi metodologici lungo
il percorso decisionale che finisce molto spesso per coincidere
con la risultante algebrica dei diversi interessi nazionali.
Si avverte l’assenza di strutture intermedie (associazioni,
movimenti, mezzi di comunicazione) che possano formare un’opinione
pubblica europea. Così come si nota la tendenza centralistica
della Commissione, sempre più impegnata a produrre legislazione
di coordinamento nelle materie più disparate (industria,
agricoltura, politiche sociali, culturali, ecc.), oscurando di fatto
ogni ipotesi di confine con le legislazioni nazionali.
Negli Stati federali realizzati (Stati Uniti, ad esempio) il governo
centrale ha competenze limitate nell’area legislativa. E il
lavoro maggiore della Corte Suprema è volto a salvaguardare
l’autonomia degli Stati dalle interferenze federali.
Paradossalmente in Europa l’ordine economico (con tutti i limiti
del mercato) svolge opera di supplenza rispetto al disordine istituzionale.
Ma il prossimo allargamento della Comunità pone problemi
di convivenza che il solo mercato non può ammortizzare.
L’Europa possibile ha bisogno di organismi e regole che diano
senso compiuto alla collegialità delle decisioni e all’organizzazione
dei percorsi consultivi. Adesso si parte generalmente da un testo
preparato da inglesi, francesi e tedeschi. Poi viene affidato alla
lettura di italiani e spagnoli che apportano qualche emendamento.
Infine viene distribuito agli altri membri. E’ il cosiddetto
procedimento “a chiocciola” che sottintende una gerarchia
implicita.
E’ sufficiente sostituire la logica dell’unanimità
con quella della maggioranza negli organi deliberanti per migliorare
il sistema? Ne dubitiamo, se non si introducono a monte criteri
nuovi di concertazione, nella fase iniziale di analisi e studio
dei progetti.
La nota altalena tra i due assi, franco-britannico e franco-tedesco
non riesce più a fare da tessuto connettivo, a mano a mano
che dalla dimensione commercial-mercantilistica dell’Europa
dei Quindici si passa alla moltiplicazione dei fronti integrativi
che implicano tematiche negoziali a più ampio raggio.
Lungo il cammino che dal “social capital” conduce alla
“social cohetion” qualcuno dovrà pur scrivere la
storia dei silenzi infingardi. Non sappiamo se dal dibattito sulla
Carta dei diritti scaturirà un processo di accelerazione
per la costruzione di una società politica europea. Di certo
l’Europa possibile ora chiede meno maestri di cerimonia e più
attori senza teatro.
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