La sua etica si
poneva all’incrocio del vangelo e del “verbo” tolstoiano,
ma contemplava
anche la morale delle severe responsabilità
e dell’apertura
mentale.
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Di quasi tutti i meridionalisti e del loro pensiero fu propria
una grande qualità, e cioè che la loro riflessione
sulla “questione meridionale” non fu mai una riflessione
settoriale e geograficamente ristretta. Scaturì, invece,
da una riflessione più generale, come certamente accadde
per Giustino Fortunato. Per lui, infatti, il problema del Mezzogiorno
non fu mai soltanto un problema meridionale. Fu il problema dell’Italia
moderna, tesa a rientrare, col Risorgimento, dopo due secoli, fra
i protagonisti della vita europea.
Beninteso, Fortunato era lontanissimo dal pensare che i meridionali
nella genesi e nell’incancrenirsi della “questione”
non avessero responsabilità: del passato e del presente,
della mentalità e del comportamento. Gli doleva specialmente
la mancanza di fiducia che gli sembrava ravvisare nella gente del
Sud. Montanelli ha ricordato una sua affermazione particolarmente
significativa. Li vedete – diceva – i grandi e aridi solchi
delle nostre montagne, «quei grandi mari senza una macchia
di verde? Non ce li ha mandati il Signore; li abbiamo fatti noi
che non piantiamo alberi perché non crediamo nel domani,
e ci mandiamo a pascolare le capre che divorano tutto, erbe e virgulti,
quasi prima che nascano».
In effetti, c’era in lui una profonda contraddizione. Alla
richiesta di un fermo impegno per una grande azione politica e sociale
egli accoppiava una visione estremamente dolente e pessimista della
realtà. Le sue vicende personali e familiari lo disposero
ad una malinconia profonda, che non era tristezza e non ne frenava
l’attività e l’impegno, ma certo toglieva respiro
alla speranza e all’illusione, che di ogni grande azione sono
componenti indispensabili. Una intelligenza straordinariamente acuta
e una cultura classica e moderna di grande raffinatezza si confrontavano
in lui con una sensibilità ancor più acuta e con un
animo disposto molto di più all’introspezione e all’analisi
che all’estroversione e alla semplificazione. La sua etica
si poneva all’incrocio del Vangelo e del “verbo”
tolstoiano, ma contemplava anche la morale delle severe responsabilità
e dell’apertura mentale propria di un liberismo nativo e di
un pensiero tormentatamente laico. La generosità era pari
all’avvedutezza, la ricchezza al disinteresse. Lo spirito essenzialmente
conservatore non riluttava e anzi aspirava al confronto e alle misure
della storia. Di famiglia di tradizioni borboniche, era diventato
uno dei più schietti rappresentanti del più vero e
profondo spirito del Risorgimento, che per lui non fu mai solo la
questione dell’unità; fu, insieme e indissolubilmente,
una questione di fondazione liberale della nazione italiana.
Aveva conosciuto il Mezzogiorno di prima e dopo il 1860. Ricordava
quando, adolescente, doveva viaggiare dalla natia Rionero ad Eboli
con una scorta armata per evitare i rischi di quel viaggio. Non
conservava nessuna nostalgia del vecchio Mezzogiorno. Per lui la
cosa era chiara: senza l’aggancio all’Italia, il Mezzogiorno
si sarebbe allontanato dall’Europa e saldato all’Africa.
Perciò trepidava per lo Stato italiano, di cui conosceva
bene i molti vizi. Nei giorni di Caporetto era disperato. Tornò
a Rionero per spiegare – lui parlamentare locale per decenni
– ai concittadini e soprattutto ai contadini la necessità
di scapolare quel momento drammatico. Uno del luogo, infatuato dalla
propaganda che addossava ai “signori” come Fortunato la
responsabilità del tremendo conflitto e delle sue stragi,
lo accoltellò; ed egli non volle più tornare a Rionero.
Egli sapeva che quel Mezzogiorno contadino era un’enorme polveriera
sociale e che l’ordine vigente riposava su un vulcano, ma il
suo impegno per il Mezzogiorno e i suoi contadini non scaturiva
da questa percezione: si collocava su un piano molto più
alto.
La sua visione della storia del Mezzogiorno era sconsolata, anche
se, per molti aspetti, di un realismo illuminante: natura e geografia
nemiche; popolazioni devastate da secoli e secoli di malsano governo
e di malsano comportamento sociale. Considerava perciò Benedetto
Croce un idealista lontano dalla verità dolente e negativa
di quella storia.
Ciò non gli impedì di stringere con Croce un’amicizia
in cui affetto e stima e molta solidarietà di spirito e di
idee facevano tutt’uno. Ma anche con Salvemini, con il suo
spirito impetuoso e polemico di ispirato radicalismo, ebbe rapporti
e consonanze rilevanti. La sua casa napoletana in via Vittoria Colonna
fu negli ultimi suoi anni un punto luminoso di riferimento per chi
voleva capire qualcosa di Mezzogiorno e del sentire di un grande
liberale (ne salirono perciò le scale, tra gli altri, giovani
giornalisti di grande avvenire, come Ansaldo e Montanelli); ed è
davvero singolare e, insieme, confortante constatare che il pessimismo
profondamente malinconico di quel vegliardo non trasmettesse un
messaggio di rinunzia e di catastrofe, bensì di intelligenza
e di apertura al futuro.
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