Pensare
che abolendo il G8, cioè il dialogo
tra i maggiori Paesi industrializzati,
il mondo divenga migliore, è un’idea sorprendente.
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C’è chi si affretta a dichiarare che ora i G8 andrebbero
non tanto modificati, quanto aboliti del tutto. E’ come suggerire
a chi si accorge di avere un’infezione a un dito che il rimedio
più semplice è di tagliarsi il braccio. Le prese di
posizione apodittiche, in casi come questo, possono soltanto alimentare
il clima di scontro, più che di confronto.
I G5, poi G6, poi G7, oggi G8, nacquero all’indomani della
crisi energetica, quando i maggiori Paesi industrializzati sentirono
il bisogno di consultarsi su come evitare in futuro che le decisioni
di pochi mettessero a rischio lo sviluppo economico e il benessere
dei più. Il loro obiettivo è diventato poi la ricerca
di punti di convergenza sui principali fatti economici, sociali
e politici del momento. Raramente questi vertici hanno portato a
storiche e improvvise decisioni operative, ma alle volte hanno dato
il via a proposte elaborate in precedenza: così è
stato anche a Genova, dove gli Otto hanno reso possibile, autorizzandone
il finanziamento, la creazione di un fondo per la lotta contro l’Aids,
al quale Kofi Annan stava lavorando da tempo.
Pensare che abolendo il G8, cioè il dialogo tra i maggiori
Paesi industrializzati, il mondo divenga migliore, è un’idea
così sorprendente che la si può attribuire solo all’emozione,
alla giovinezza o all’inconfessato desiderio del tanto peggio
tanto meglio. Basti pensare al tempo in cui non c’era alcun
dialogo tra le due superpotenze e come quel tempo sia stato pagato
con l’incubo dell’olocausto nucleare e con una corsa alle
spese militari quale mai si era vista prima. Né si dica che
le Nazioni Unite possono prenderne il posto: il Consiglio di sicurezza
non è certo un modello di democrazia e l’Assemblea generale
dell’Onu è, come Kofi Annan ben sa, l’organo più
rissoso e inconcludente del pianeta.
Certamente, il G8 può essere rivisto nel suo formato, esteso
ad altri grandi Paesi e ridimensionato drasticamente nel carattere
spettacolare di grande circo mediatico. Se ne parla da tempo, e
il Primo ministro canadese ha già annunciato che il prossimo
summit si terrà in una remota località montana. Ma
non illudiamoci: a Seattle si è contestato il Wto; a Göteborg
si è contestato un Consiglio europeo; a Nizza, dove la Francia
ha dovuto schierare la Legione straniera, si è contestata
una conferenza intergovernativa dei Quindici dell’Unione europea.
Si può al limite discutere il diritto degli Otto di decidere
le cose del mondo, ma non si può discutere il diritto dei
capi di governo europei democraticamente eletti di riunirsi per
decidere cose che riguardano i loro popoli.
L’obiettivo di questi movimenti non è dunque solo il
G8, e neppure solo la globalizzazione, ma qualsiasi forma razionale
di governabilità. Ad essere coerenti con loro, dovremmo abolire
non soltanto il G8, ma anche l’Europa, e anche i nostri stessi
governi.
Rambouillet si ebbe il 15 novembre ‘75: lì nacque il
G6 (mancava ancora il Canada). Pochi giorni dopo, a Mosca, al Presidente
Leone, in visita ufficiale, i russi chiedevano che cosa fosse accaduto
nel celebre castello francese, e che cosa si fosse deciso. Era la
Russia di BrezŠnev, della stagnazione comunista, ma anche dell’ultima
sfida all’Occidente, dopo il caso Watergate e la sconfitta
americana in Viet Nam e il ricatto petrolifero arabo a tutti coloro
che consideravano amici di Israele. I russi avrebbero scoperto dopo
che a Rambouillet non era accaduto nulla. Eppure, proprio lì
i Sei, incluso il Giappone, avevano invertito la tendenza negativa,
con la decisione di concordare da allora in poi le grandi scelte
strategiche economiche (e, indirettamente, anche politiche): era
cominciata la rincorsa delle grandi democrazie industriali verso
la vittoria nella guerra fredda.
A Toronto, nell’88, (ultimo G7 di Reagan), era stata affrontata
e vinta la crisi di Wall Street, che era stata peggiore di quella
del ‘29 (i titoli erano crollati del 22 per cento in un solo
giorno), ma erano stati del tutto diversi i rimedi: al posto delle
strette monetarie e delle svalutazioni competitive, era stato concordato
il sostegno agli investimenti e ai consumi. In questo modo si era
evitata una catastrofe sociale analoga, e forse più grave,
di quella degli anni Trenta.
A Tokyo, nel ‘93, il preavviso di pericolo. L’allora
presidente del Consiglio italiano, Ciampi, consigliò di lasciar
da parte ogni forma di compiacimento e di spettacolarità
conseguente, e di tornare alla discreta informalità dei vertici
precedenti. Non gli si diede ascolto, neanche quando la Russia post-sovietica
fu comprimaria (ma Eltsin era stato già presente a Tokyo).
Quello di Genova, dunque, era un disastro annunciato.
Istruzioni per il futuro. L’Occidente deve continuare a consultarsi
con regolarità, pena il ritorno ai nazionalismi, che non
risolvono i problemi né dei Paesi ricchi né di quelli
poveri. La formula deve aprirsi, accogliendo i Paesi poveri con
regimi rigorosamente democratici. I summit devono abbandonare ogni
forma di spettacolarità e tornare a forme di severa austerità.
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