E’ stata
la borghesia
a liquidare
il feudalesimo,
a promuovere
le rivoluzioni
americana
e francese,
a volere
la rivoluzione
industriale.
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Europa in nuce
A Paderborn, in Vestfalia, nel 799, il pontefice Leone III incontrò
Carlo Magno. In quell’occasione fu anche fondata la diocesi
della città, sicché si è parlato (e la visione
teutonica del Vecchio Continente continua a parlare) di «terra
benedetta della latinità cristiana», lì nata
come Grande Patria, sostenuta dalla forza militare dell’Impero.
Ma di “Europa” si era parlato già prima, a Francoforte,
in sede di sinodo dei vescovi franchi, nel 794. “Europa”
erano le terre dei Franchi o occupate dai Franchi. In campo religioso,
questa Europa si sentiva autonoma, fino a quel momento, sia da Roma
che da Costantinopoli. Carlo era chiamato “rex et sacerdos,
christus Domini”, ovvero l’“Unto del Signore”,
e infine “Europae Pater”. In altre parole, la Chiesa franca,
che ora si diceva Chiesa d’Europa, si muoveva nell’ambito
di quella autonomia politico-religiosa che era stata elaborata dai
regni barbarici dei Visigoti nella Spagna e dei Longobardi in Italia.
Il travaglio religioso di Costantinopoli aveva tolto all’Impero
il ruolo di guida nell’ortodossia, distruggendo quell’ideale
universalità che era stata la promessa dell’antico Impero.
Ma anche Roma aveva risentito del crollo dell’ecumenismo imperiale.
Dal 781-782 i documenti ufficiali romani non recavano più
come data gli anni del regno dell’imperatore, ma quelli del
pontificato del papa; e anche le monete avevano il nome del papa
e di San Pietro. Secondo una leggenda elaborata a Roma, il diritto
di coniare moneta era stato concesso al papa Silvestro da Costantino,
insieme all’autorità su tutta la parte occidentale dell’Impero.
Nel 788 papa Adriano I fece acclamare Carlo Magno “Nuovo Costantino”.
Sarebbe stato lui, Adriano, il “Nuovo Silvestro”?
A Nicea (oggi Iznik), nel 787, il concilio ecumenico, cui avevano
partecipato due legati romani, aveva ristabilito il culto delle
icone, che la sinodo franca aveva invece condannato come idolatria.
Il papa, costretto fra Nicea e Francoforte, si trovava in una situazione
intollerabile. A Bisanzio, l’Impero era dal 797 nelle mani
di una donna saggia e coraggiosa, Irene. Si faceva chiamare “basileus”,
imperatore, e non “basilissa”, per rafforzare un potere
tanto insidiato quanto unico nella storia. Agli occhi di molti,
come Alcuino, Paolino di Aquileia, Teodulfo, ossia gli intellettuali
consiglieri di Carlo Magno, il trono occupato da una donna doveva
apparire vacante. Esattamente come la pensava la Curia romana.
Quando Leone III intraprese il lungo e faticosissimo viaggio verso
Paderborn, non era assolutamente in quella condizione di autorità
suprema che la leggenda aveva attribuito a papa Silvestro. Era un
pontefice minacciato, che aveva attraversato le Alpi e risalito
il corso del Reno in cerca di aiuto.
In aprile, una banda composta da parenti del defunto papa Adriano
l’aveva fatto prigioniero durante una messa, aveva minacciato
di accecarlo e di tagliargli la lingua, aveva lanciato contro di
lui tremende accuse, non ultime quelle di adulterio e di spergiuro.
Finito lo stato di guerra con i Longobardi, una sorta di “privatizzazione”
della Chiesa di Roma aveva portato a faide senza fine. Leone veniva
a chiedere protezione al re dei Franchi non contro nemici esterni,
ma per restituire l’ordine a Roma. Si annunciava quel periodico
intervento imperiale su Roma che avrebbe caratterizzato i secoli
del Medioevo.
794 o 799, Paderborn o Francoforte, mito o non mito moderno (quello
di un’Europa medioevale come prologo all’Europa di Maastricht),
è certo che in quel torno di tempo snodo ci fu. Lo fu ad
opera dei missionari irlandesi, scesi troppo a sud, come di quelli
anglosassoni che convertirono la Sassonia, terra di conquista dei
Franchi. Insomma, la grande e gloriosa unificazione culturale carolingia
uscì dai secoli bui anche con gli apporti, coevi e successivi,
di altre componenti civili e artistiche, oltre che politiche, (si
pensi ad Arechi “principe della gente longobarda”, a Desiderio,
e alle culture di Salerno e Benevento).
Certo, Carlo Magno fu sepolto in un sarcofago romano con il mito
di Endimione, ma i sarcofagi antichi, con i miti delle Amazzoni,
delle Grazie, delle Stagioni, ritrovati di recente in San Salvatore
di Brescia, la basilica dinastica dell’ultima famiglia regale
longobarda, provano un rapporto fiducioso con la tradizione antica
che precede quel risveglio della cultura che è il grande
lascito dei Carolingi, cui contribuì la prima grande migrazione
di cervelli dall’Italia, dall’Inghilterra e dalla Spagna.
Era immaginabile un mondo diverso? O meglio: gli uomini che vissero
all’epoca immaginavano un mondo diverso? Alla brevità
dell’unità carolingia corrisponde un’eredità
culturale di lunga durata. Il definitivo affossatore dell’unità
imperiale, Carlo il Calvo, fu il promotore di opere d’arte
altissime, imbevute della classicità resuscitata dalla Scuola
Palatina di Carlo Magno. Ma vi fu anche chi prese vie diverse. I
Longobardi del Sud non accettarono nemmeno la riforma della scrittura,
che fu una vera conquista dell’Impero, e perfezionarono, in
un processo secolare, quelle forme che per un breve periodo avevano
unificato l’Italia da Montecassino a Nonantola.
Vi fu chi pagò il prezzo del dominio assoluto carolingio
e del difficile rapporto con la Chiesa di Roma. Da un certo punto
di vista, pagò Roma, la cui spiritualità sarebbe risorta
in monasteri lontani che intendevano sottrarsi all’autorità
dei conti e dei vescovi locali. Pagò l’Italia, che non
fu più unita. Pagò l’Italia del Nord: marmi e
bronzi migrarono da Ravenna ad Aquisgrana, mentre la Lombardia si
ritrovò povera, come dimostrano le testimonianze delle monete
sempre più scarse. Pagò l’Italia del Sud, con
il profilarsi di una storia infinita di dominazioni. Pagò
la divisione insolubile fra l’Europa orientale e l’occidentale,
dove la regione danubiana e l’Adriatico dell’Est, una
volta distrutti gli Avari, divennero terra di conquista e di organizzazione
sul modello carolingio. Sappiamo che ogni rivoluzione ha il suo
prezzo: non è una novità. Ma oggi come oggi, per conoscere
a fondo il valore dello snodo europeo, dovremmo ascoltare con maggiore
attenzione le voci dei vinti, oltre a quelle dei vincitori.
Chi uccise il colonialismo
Nel 1859 Eduard Douwes Dekker diede alle stampe il romanzo Max
Havelaar, ovvero il Pubblico Incanto del Caffè della Compagnia
del Commercio Olandese, usando lo pseudonimo “Multatuli”
(dal latino: “Io che molto ho sopportato”). Il libro narra
le esperienze di un ufficiale coloniale a Giava, Havelaar, un olandese
idealista che scopre il sistema di coltivazione forzata di spezie
imposto dal suo governo ai contadini indonesiani, e vi si ribella.
Nella sua introduzione alla traduzione inglese, nel 1927, D.H. Lawrence
definì quest’opera «particolarmente irritante».
E aggiunse: «In apparenza, “Max Havelaar” è
un libello o un pamphlet sulla falsariga di “La capanna dello
zio Tom”. Invece della pietà per il povero negro, abbiamo
la pietà per il povero giavanese oppresso, con lo stesso
urgente appello perché le leggi, perché il governo,
si muovano. Beh, per gli schiavi negri il governo americano effettivamente
si mosse, e “La capanna dello zio Tom” diventò
un libro superato. Anche il governo olandese, ci dicono, a Giava
si è mosso in favore dei poveri, sull’onda sollevata
dal libro di Multatuli. Di conseguenza, “Max Havelaar”
è del tutto sorpassato».
Facciamo un passo indietro. Per centinaia di anni, le spezie, (il
chiodo di garofano, la noce moscata, il pepe), sono state la causa
principale dei conflitti di religione. Erano di valore inestimabile:
come conservanti per il cibo, come medicinali, per dar gusto alle
pietanze.
Nel 1596 un marinaio olandese della flotta portoghese, Jan Huygen
van Linschoten, pubblicò un libro, Viaggio, o Navigazione
alle Indie Portoghesi ovvero Indie Orientali, una vera e propria
guida della regione, velocemente tradotto in francese, inglese,
tedesco e latino. Due anni dopo, attraverso un consorzio di imprenditori
olandesi, i Paesi Bassi spedirono una propria flotta verso l’Indonesia.
Il primo tentativo finì in disastro: la flotta colò
a picco. Ma, gradualmente, un’ondata di navi olandesi dopo
l’altra cominciò a raggiungere le isole, spazzando via
i portoghesi e portando nei Paesi Bassi un benessere mai visto.
Nacque così il più grande emporio marittimo del mondo,
con sede a Batavia (attuale Giakarta). Col tempo, tuttavia, si ebbe
bisogno di una forza militare che salvaguardasse il monopolio. L’attività
commerciale si trasformò in conquista. Poi, per tenere alti
i prezzi sul mercato internazionale, si limitarono le produzioni
di spezie. Per questa ragione, all’inizio del ‘700, quasi
tutto il popolo delle Isole Banda, produttrici di noce moscata,
venne sterminato. Subentrarono gli impiegati europei della Compagnia,
che importarono schiavi e prigionieri di guerra per i lavori agricoli.
Vennero inoltre arruolati coercitivamente uomini delle Molucche,
che avevano il compito di distruggere le piantagioni di chiodi di
garofano e di noce moscata della concorrenza. L’isola Buru
diventò una savana devastata.
Metà dell’800. In conseguenza delle guerre napoleoniche
e del conflitto per Giava, i Paesi Bassi e le Indie Orientali erano
entrati in una fase di declino economico. Per incrementare i profitti,
si introdusse a Giava un sistema di coltivazione forzata (conosciuto
col nome di “cultuurstelsel”), per cui i coltivatori erano
obbligati a cedere una parte della loro produzione al governo coloniale.
In soli tre anni, così, si invertì la tendenza, e
l’economia rifiorì. Giava diventò, in cambio,
una catena di montaggio agricola, all’insegna dello sfruttamento
intensivo. I contadini furono vincolati per legge ai loro villaggi,
e dovevano pagare tasse ingenti. In caso di carestia o di scarsi
raccolti, era la fame. Decine di migliaia di famiglie perirono.
In questo clima socio-economico e politico, nacque Max Havelaar:
non nei Paesi Bassi, ma in Belgio, dove Dekker si era trasferito,
a 29 anni, disilluso, dimissionario, e deciso a raccontare la sua
verità.
L’Havelaar provocò un vero e proprio terremoto. Così
come La capanna dello zio Tom fornì cartucce da sparare al
movimento abolizionista americano, questo libro diventò un’arma
potente nelle mani del movimento liberale che cominciava a svilupparsi
nei Paesi Bassi e intendeva introdurre riforme in Indonesia. E in
parte riuscì, visto che indusse all’adozione di una
nuova linea politica, la cosiddetta “politica etica”,
che intendeva promuovere nelle Indie Olandesi l’irrigazione
e l’educazione.
Dopo un impatto modesto, le riforme ebbero sviluppi imprevedibili,
compreso quello di saper leggere e scrivere. E tra coloro che lessero
l’Havelaar e ne rimasero fortemente influenzati, ci fu Agus
Salim, che insieme con altri indonesiani educati all’olandese
avviò un movimento per l’emancipazione e la libertà,
che condusse nei fatti alla vera e propria rivoluzione degli anni
Quaranta. Non nacque soltanto una nuova nazione: diffuse le scintille
dell’anticolonialismo anche in Africa, che a sua volta risvegliò
altri popoli colonizzati e segnò la fine del dominio coloniale
degli europei.
E forse, in un certo senso, non poteva andare diversamente. Dopotutto,
gli europei non avevano colonizzato il mondo a causa delle Isole
delle Spezie indonesiane? Si direbbe che per l’Indonesia dare
inizio e dar fine al processo di colonizzazione e di decolonizzazione
era destino.
Lo strappo della borghesia
L’invenzione più grande del millennio appena concluso?
Il poeta, e irriducibile marxista-leninista Edoardo Sanguineti non
ha dubbi: «Un avvento: quello della borghesia». Un avvento
che si può collocare intorno al 1200, con i nuovi mercanti,
con i primi banchieri, con l’alba delle imprese artigianali:
perché è da allora che si mise in movimento quel processo
di straordinario sviluppo che, per tappe successive e lungo percorsi
accidentati, quindi mai in linea retta, ci ha portato a quella che
definiamo globalizzazione, al dominio del mercato e delle sue regole.
Un processo che oggi appare irreversibile è giunto a compimento.
Nel suo Manifesto, alla metà dell’Ottocento, Karl Marx
sosteneva che «la borghesia plasma il mondo a sua immagine
e somiglianza», parafrasando la proposizione biblica di Dio
che crea l’uomo. Ma è stata la borghesia a liquidare
il feudalesimo, a promuovere le rivoluzioni americana e francese,
a volere la rivoluzione industriale, a provocare prima e a demolire
poi quello che si definiva il socialismo realizzato, e a riprodursi
con straordinaria vitalità, fino all’omologazione (e
omogeneizzazione) dei nostri giorni, al trionfo irresistibile del
capitalismo, delle montagne di denaro che si spostano alla velocità
di un colpo sul mouse del computer. Pochi anni fa parlavamo di imprese
multinazionali, adesso è il mondo che è diventato
una multinazionale.
Se vogliamo, il primo testimone della presenza, della penetrazione
e della diffusione della borghesia è Dante Alighieri. Il
quale ci accompagna, nella Divina Commedia, all’appuntamento
con una data simbolica, e oggi particolarmente significativa: l’inizio
del 1300, quindi la fine di un secolo, e la vigilia del primo Giubileo.
Dante è nemico del papa Bonifacio VIII, che colloca nell’Inferno,
e che poi disonora nel Paradiso, davanti a San Pietro. Si scaglia
contro la mercificazione, il dominio del denaro (il fiorino di allora
può essere paragonato all’odierno dollaro), l’avarizia.
Dante, nella sua grandezza intellettuale e creativa, si comporta
però da rabbioso e intransigente fideista: un atteggiamento
tipico di chi soffre, e paga, in un mondo che non riconosce più
e che probabilmente lo spaventa. Se è profeta, però,
non azzecca la profezia, anche se è testimone essenziale
perché sente, e ci fa sentire, che si è giunti a una
svolta epocale. Ma più o meno negli stessi anni un altro
grande della letteratura, Giovanni Boccaccio, scrittore decisamente
borghese, nelle sue Novelle esalta il ruolo dell’avventura
terrena, e diventa il primo, autentico cantore della secolarizzazione.
Certamente, non si può rifare la storia a rovescio su basi
puramente ipotetiche, ma possiamo comunque ritrovare lo spartiacque
in uno scritto di Jacques Le Goff, Il tempo della Chiesa e il tempo
del mercante, con il tempo circolare delle campane che dettano il
ritmo naturale, contro il tempo orizzontale, imposto dal ritmo dello
sviluppo e del denaro. L’invenzione del Millennio, dunque,
è la parentesi che si apre con i mulini a vento e si chiude
con lo sbarco sulla luna. Sono conquiste ottenute con la tecnologia,
con la ricerca, con la scienza, con l’organizzazione della
società e del lavoro, che il tempo circolare delle campane
non avrebbe mai potuto materializzare. Ma l’avanzare baldanzoso
della borghesia non ha portato soltanto invenzioni e scoperte. Ha
messo definitivamente in discussione il nostro narcisismo.
Un tempo l’uomo si sentiva il centro dell’universo, perché
si pensava che tutto ruotasse intorno alla Terra. Poi si è
scoperto che la Terra ruota attorno al Sole, e infine siamo stati
ridotti ad essere gli abitanti di un pianeta periferico, e su di
esso, di conseguenza, è diventato periferico anche l’uomo.
Ci credevamo una specie eletta per volere degli Dèi, ma oggi
non è necessario essere darwiniani per capire che siamo solo
e semplicemente una specie più avanzata delle altre. Anche
nel rapporto con gli animali stiamo velocemente cambiando. Dio non
è morto, la nostra fortuna è dunque di non essere
restati orfani.
Sotto il profilo psicanalitico, infine. Dall’inizio del ‘900
non è più l’Io che gestisce fondamentalmente
il destino dell’individuo, ma sono le forze dell’inconscio.
Che – interpretazione riattualizzata – sono frutto del
soffio, della scintilla, della vita che ci è stata donata.
Ecco. Ogni passaggio è una tappa, e su ogni tappa ritroviamo
l’impronta della borghesia (del pensiero borghese). Lasciamo
pure da parte i computer e Internet, e limitiamoci a pensare alla
grandezza della “macchina moderna”, a quella che per prima
ha liberaro le braccia dell’uomo dal compito di produrre energia.
Pensiamo come, fino a poco tempo fa, anche se con qualche imperfezione,
si parlasse della fabbrica (altra invenzione-conquista della borghesia)
come luogo di conflitti sociali. Adesso siamo arrivati al compimento.
Si potrà procedere a correzioni, aggiustamenti, ma quello
che all’inizio non era un progetto ha dimostrato di esserlo
alla fine. Ci piaccia, oppure no.
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