I leader alleati
devono
contrastare
la caricatura
dell’America come colosso
dominatore
dal grilletto facile.
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Era da molto tempo che una definizione del presidente degli Stati
Uniti non suscitava tanto livore, soprattutto in Europa, quanto
l’Asse del Male di George Bush. La disapprovazione, più
che la sostanza, riguarda i moventi: le elezioni del congresso (spiegazione
del ministro degli Esteri britannico); l’imperialismo americano
(capo della Commissione Esteri Ue); un modo di pensare semplicistico
(ministro degli Esteri francese); la tendenza americana all’isolazionismo
(influenti quotidiani tedeschi).
Eppure il presidente ha sollevato una questione centrale per la
sicurezza internazionale: il “legame” tra organizzazioni
del terrore estese, ben strutturate e implacabili (come al-Qaeda).
Stati che hanno usato e finanziato il terrorismo (come l’Iran
e la Corea del Nord) e Stati che hanno sviluppato (e, nel caso dell’Iraq,
anche usato) armi di distruzione di massa. Fino all’11 settembre
gli Stati Uniti e i loro alleati si erano astenuti dall’azione
militare finché gli attacchi terroristici non erano effettivamente
avvenuti. Valeva lo stesso principio di deterrenza che era stato
applicato alle armi di distruzione di massa nelle mani delle grandi
potenze: ci si aspettava che leader razionali avrebbero evitato
quegli atti che avrebbero portato alla loro stessa distruzione.
Quando però armi di questo genere sono alla portata di Paesi
che le usano contro i loro vicini e il loro stesso popolo (come
l’Iraq) o di nazioni che fanno dell’assassinio sistematico
una componente della loro politica, condannando centinaia di migliaia
di persone alla morte per fame (come la Corea del Nord), o di leader
nazionali che appoggiano gruppi terroristici virulenti o prendono
la gente in ostaggio (come l’Iran), e se gli attacchi vengono
fatti da bombaroli suicidi, ebbene, questi vincoli possono non avere
più effetto. Soprattutto là dove sono possibili legami
segreti con i gruppi eversivi, l’azione preventiva deve essere
presa in considerazione.
Va da sé che i tre Paesi citati dal presidente debbono essere
trattati con metodi appropriati alla situazione di ciascuno. L’Iraq
pone la sfida più urgente, l’Iran richiede la politica
più sofisticata, la Corea del Nord è simile all’Iraq
sul piano interno, ma in anni recenti è sembrata cercare
un nuovo approccio. Lo spazio per la diplomazia è minimo
con Baghdad, un po’ più grande per Teheran. E’
per questo che sia Bush sia il Segretario di Stato hanno espresso
l’intenzione di non ricorrere all’opzione militare né
con l’Iran né con la Corea del Nord. Alla fine, comunque,
il banco di prova di qualunque opzione politica sarà il livello
di riduzione del rischio per la sicurezza globale connesso alla
disponibilità di armi di distruzione di massa da parte di
regimi pericolosi.
L’Alleanza Atlantica, che è stata la chiave di volta
della politica estera dei suoi membri per una generazione, non può
più evitare questo problema. Da un lato, la controversia
riflette un cambiamento profondo nella politica interna europea.
Per tutta la Guerra Fredda, l’opposizione alla politica americana
è arrivata quasi sempre da sinistra ed era contrastata dai
governi in carica (di solito, di centro-destra). Oggi i governi
europei di centro-sinistra vengono attaccati, con le solite posizioni
antiamericane, dall’ala sinistra delle coalizioni al governo,
infastidita dalle scelte centriste dei loro leader. E i governi,
riluttanti a infiammare ulteriormente i loro elettori radicali,
tacciono o qualche volta si uniscono al coro. C’è poi
la questione del cambio generazionale. La prima generazione dei
leader europei all’interno della Nato, quantunque governasse
Paesi indeboliti e impoveriti dalla guerra, si era formata politicamente
quando l’Europa era il centro degli affari mondiali. Capì
facilmente che l’unica scelta possibile era l’alleanza
o una sorta di neutralità che, accettabile per alcuni gruppi
della sinistra, era invece assai mal vista dai governi di centro-destra.
Oggi non esiste un consenso del genere sul pericolo che incombe.
Gli attacchi all’America come Paese incline alla violenza,
unilaterale ed emotivamente sbilanciato – gli slogan dell’opposizione
negli anni della Guerra Fredda – sono diventati il commento
tipico degli intellettuali e dei media, contrastato debolmente,
o magari niente affatto, dai governi.
Questa tendenza è rafforzata dal fatto che, per i governi
europei, la preoccupazione dominante in politica estera per più
di dieci anni è stata la creazione di un’Unione europea,
un compito storico dal quale, per definizione, sono esclusi gli
Stati Uniti. E per molti leader europei l’identità europea
è stata cercata nella diversità, quando non nell’opposizione,
da Washington.
Il grande divario di potenza militare tra Europa e Stati Uniti
aumenta le differenze di prospettiva. Non esistono precedenti storici
di un predominio militare quale quello che gli Usa hanno raggiunto
sul resto del mondo. Questa situazione induce gli avversari a sfidare
gli Stati Uniti, se mai lo fanno, a un livello diverso da quello
convenzionale, ad esempio con il terrorismo. Alcuni Paesi amici
temono che gli Usa, essendo in grado di imporre le loro preferenze,
lo facciano in ogni situazione con il puro esercizio del potere.
Le differenze sono inevitabili, ma dovrebbero indurre i leader su
una sponda e l’altra dell’Atlantico a ricordare l’importanza
dell’alleanza tra democrazie, soprattutto in un mondo di disordini
crescenti. Gli Usa devono ai loro alleati qualche informazione sulle
opzioni militari in esame e sui risultati politici che cercano.
I leader alleati devono contrastare la caricatura dell’America
come colosso dominatore dal grilletto facile. Sanno, o dovrebbero
sapere, che i leader americani seri riconoscono che l’imposizione
di un ordine internazionale va contro il carattere di una nazione.
Non può essere nell’interesse a lungo termine dell’America
trasformare ogni questione in una prova di forza.
Il tema principale della politica estera americana è stato,
qualche volta un po’ ingenuamente, l’imposizione con la
forza dei nostri ideali e l’opzione militare come risposta
alle aggressioni. La tendenza americana dominante in politica estera
deve essere la trasformazione del potere in consenso, in modo che
l’ordine internazionale si basi sull’accordo anziché
sull’acquiescenza.
In gioco, nel dibattito sull’Asse del Male, non c’è
il tentativo dell’America di imporre un ordine internazionale,
ma piuttosto la possibilità che un qualunque Paese di una
coalizione ponga un veto su questioni fondamentali di sicurezza.
Una definizione del consenso basata sull’unanimità conduce
alla paralisi; una definizione di leadership che, su qualunque problema,
insista sull’unilateralismo porta a un imperialismo che sul
lungo termine esaurisce la potenza imperialista. Navigare tra questi
due estremi è la sfida della politica americana.
E’ questa una sfida ancora più profonda per i leader
europei. Gli Usa hanno suggerito una definizione ragionata dei pericoli:
possesso di armi di distruzione di massa da parte di governi che
hanno dimostrato l’intenzione di usarle, hanno professato ostilità
nei confronti dell’America o i suoi alleati. Questa definizione
merita una risposta irrinunciabile. I nostri alleati accettano la
definizione americana di pericolo? O l’accettano, ma rifiutano
l’opzione militare per affrontarlo? E in questo caso, qual
è l’alternativa? Se “impegno” viene definito
in termini psicologici (la pacificazione dell’avversario) esso
diventa sinonimo della tradizionale pacificazione al prezzo di concessioni.
Ma quali cambiamenti l’“impegno” ha ottenuto in Iraq?
O a Teheran? O a Pyongyang?
I critici dell’America generalmente suggeriscono la “costruzione
della nazione” come alternativa alla presunta ossessione per
i metodi militari. Anche dando per buona questa premessa, la più
radicale politica di costruzione della nazione e di alleviamento
della povertà richiederebbe un tempo esorbitante rispetto
alle scadenze definite dal presidente. E semmai la proposta di ricostruire
il Paese può diventare importante solo dopo il cambiamento
di regime, com’è accaduto con i talebani e potrebbe
accadere con l’Iraq.
La principale alternativa concreta avanzata da Bush (soprattutto
per quanto riguarda l’Iraq) è un sistema di ispezioni
per scoprire le armi di distruzione di massa. Ma nessun sistema
ora sul tavolo ha neppur remotamente rimediato al fallimento delle
precedenti ispezioni. E i nostri alleati non aiutano né se
stessi né altri membri della coalizione se trattano le ispezioni
in Iraq essenzialmente come uno stratagemma per bloccare l’azione
militare americana.
Comunque venga risolta la questione delle armi di distruzione di
massa nelle mani del cosiddetto Asse del Male, l’obiettivo
a più lungo termine deve essere quello di individuare un
metodo per affrontare nuovi tentativi, da parte di nuovi Paesi,
di acquisire armi di distruzione di massa o biologiche o chimiche.
La sopravvivenza della vita civilizzata richiede che questo problema
sia affrontato in maniera preventiva, che non può essere
un’azione unilaterale americana. Così il problema del
terrorismo si fonde con la sfida dell’ordine internazionale,
una sfida alla leadership e all’immaginazione con cui l’Amministrazione
americana ha gestito la sua risposta agli attacchi dell’11
settembre.
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