Settembre 2002

CON L’ITALIA AI MARGINI

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Globalizzazione “arcipelago”
Camillo Renzetti  
 
 

 

 

 

 

Quella attuale
è un’economia
che ha esaltato
la globalizzazione
e che ora si trova di fronte a forti spinte per la difesa
dei mercati e delle
identità nazionali.

  Quella che stiamo vivendo è un’economia che è diventata sempre di più, non soltanto per l’effetto 11 settembre, un’economia dell’incertezza, ma ancora di più dell’irrazionalità. Un’economia che ha esaltato la globalizzazione e che ora si trova di fronte a forti spinte per la difesa dei mercati e delle identità nazionali. Un’economia che ha visto diradarsi le prospettive di crescita e che è costretta a riscoprire il difficile sentiero di una competizione sempre più aspra. Il giro di boa del millennio sembra aver consumato in un battito d’ali le vecchie regole e i vecchi modelli. Ma ha anche dimostrato il pericolo delle nuove illusioni.
L’11 settembre ha reso tragicamente evidente la fragilità globale del sistema politico ed economico. Ma già nella seconda metà del 2000 si erano raccolte le briciole della bolla speculativa della new economy, e dalla fine degli anni Novanta la crisi delle economie asiatiche e della Russia aveva spezzato la speranza in una crescita senza frenate e senza confini. E’ così che il mondo, come è messo in risalto dal “Settimo Rapporto sull’Economia Globale” del Centro Einaudi-Lazard, non scoppia certamente di salute.

E’ giusto parlare ancora di una fase di economia dell’emergenza? Oppure l’immagine degli attentati alle Twin Towers si va sfocando, per lasciare spazio a un lento ritorno alla normalità? «Dall’emergenza stiamo uscendo, sempre che non intervengano altri fatti politici», risponde Mario Deaglio, economista e autore del Rapporto, intitolato “Economia senza cittadini?”. Ma le incognite sono ancora molte, emergono segni di stanchezza da parte dei consumatori e «la fiducia non si traduce in veri progetti di spesa».
Alcuni meccanismi del sistema economico globale degli anni Novanta risultano incrinati da fatti non direttamente correlati con la situazione di emergenza: pesa la situazione argentina, mentre la crisi della Enron ha colpito al cuore la credibilità del sistema contabile delle grandi imprese e ha segnato «una sorta di sconfitta morale del capitalismo finanziario americano».

E l’Italia? In questo faticoso cammino per riagganciare una ripresa particolarmente sfuggente, il nostro Paese si distingue per una serie di inefficienze e di rigidità che trasformano la strada in un percorso a ostacoli. Per Giuseppe Monateri, docente all’università di Torino e alla Bocconi di Milano, la giustizia civile è «un servizio-chiave per la coesione della società e il funzionamento dei mercati». Ebbene, la macchina della giustizia italiana è mastodontica quanto inefficiente.
La flessibilità normativa (vale a dire la capacità «di far fronte ai mutamenti del mondo esterno e quindi di mantenersi a livelli competitivi accettabili») è tra le più basse d’Europa: fatto uguale a zero l’indice di rigidità degli Stati Uniti, l’Italia è in testa alla classifica sia dei peggiori sia nel caso di società per azioni, sia in quello di società in nome collettivo o individuali. E se il giudizio sull’insieme della giustizia è «fortemente negativo», per Monateri si deve aggiungere «un analogo pessimismo sulle possibilità di adeguamento del sistema». La conclusione è semplice: l’Italia si trova al margine della globalizzazione.
D’altra parte, è vero anche che tutta la globalizzazione, così com’è stata concepita finora, sembra scricchiolare: il quadro complessivo del pianeta, sostiene Deaglio, «è incerto ed esitante, incline a una serie di aggregazioni regionali secondo le linee di una comune cultura, più che a una vera globalizzazione che si identifichi con un unico mercato mondiale. Non si tratterà, però, di regioni chiuse, ma di aree in vivace comunicazione reciproca. Una globalizzazione “arcipelago”».
Nello stesso tempo, mentre la consistenza demografica della civiltà occidentale e di quella giapponese appaiono in netto calo percentuale negli ultimi trent’anni, sono in forte aumento islamici, africani e latino-americani. Ben diversa è la dinamica del prodotto lordo, con una forte ripresa dell’Occidente (e della Cina) e un calo di africani, latino-americani e islamici. Questi ultimi, in particolare, con un prodotto che cresce poco e una popolazione che cresce molto, subiscono un notevole peggioramento in termini relativi, ma spesso anche assoluti.

Su tutto, poi, aleggia ancora un’ombra scura. E’ l’incertezza, reintrodotta sulla scena economica dagli avvenimenti dell’11 settembre. Deaglio mette le mani avanti e confessa il proprio (ma non solo) disorientamento: «Di fronte a situazioni di questo tipo i normali strumenti degli economisti non risultano particolarmente efficaci». Il rischio è compatibile con l’attività economica, l’incertezza no, perché non segue principii di razionalità.
Gli economisti, dunque, sono privi di schemi adeguati alla situazione («Sappiamo di non sapere», dicono parafrasando Socrate), e possono solo raggiungere conclusioni minime. E cioè che la crisi argentina e la crisi Enron hanno modificato il quadro globale, che siamo di fronte a una congiuntura di tipo nuovo e a un nuovo interventismo dei governi.
La fase recessiva iniziata l’anno scorso ha messo in luce caratteristiche nettamente diverse dal passato, che hanno portato alla caduta contemporanea (e spontanea, cioè non provocata da azioni di governo dell’economia) di quattro parametri-chiave: la produzione, l’occupazione, gli indici di Borsa, l’inflazione. La spiegazione di questo comportamento consiste nel fatto che questa volta i fenomeni recessivi dipendono da uno squilibrio opposto a quello del passato, vale a dire da un eccesso di offerta anziché di domanda.
Di conseguenza, la ripresa (se ci sarà per davvero) non sarà una ripetizione del passato, e pertanto la globalizzazione potrebbe essere bloccata o potrebbe addirittura terminare. Una cosa è certa, secondo gli autori del Rapporto: «Il processo di creazione di una cultura planetaria si rivela molto più lento, faticoso e problematico di quanto si potesse prevedere all’inizio del millennio».

   
   
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