Settembre 2002

ASTERISCHI

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La sfida euro-dollaro
Luigi Cappugi  
 
 

 

 

 

 

L’euro ancora
non ha modificato
sostanzialmente
i rapporti di forza economica e politica tra Stati Uniti ed Europa.

 

E’ tema che, pudicamente, gli economisti chiamano controverso. Ad esser chiari, più che controverso, il valore del cambio tra euro e dollaro è semplicemente imprevedibile, almeno nel breve periodo. Molti pensano che una valutazione qualitativa di questa grandezza abbia senso, almeno nel medio periodo, a condizione che nessuno chieda che vuol dire medio periodo. Tutto ciò premesso, vediamo cosa è successo, e cerchiamo di trarre alcune conclusioni.
Considerando un euro “sintetico”, ossia calcolato sulla base del valore nel tempo delle monete che si sono “sciolte” nell’euro, abbiamo un andamento fortemente altalenante e prima della sua nascita ufficiale (gennaio 1999) l’euro ha avuto quattro picchi di forza sul dollaro, ciascuno seguito da picchi di debolezza, oscillando più o meno tra un indice di cambio medio ponderato di 110/115 (inizio ‘99 = 100) e un valore dell’ordine di 90. Nella prima metà del 2000 l’euro ha oscillato poco sotto un valore medio di 85, risalendo poi attorno a valori attuali dell’ordine di 95.

Quali sono le variabili che hanno influenzato questo altalenante andamento? Fondamentalmente, il differenziale di inflazione attesa, quello dei tassi di interesse reali, i differenziali di produttività, i saldi delle partite correnti, il saldo delle partite commerciali; tutti fattori che ovviamente influenzano le previsioni e le attese sull’andamento delle economie nelle due aree. Ma anche considerando i vari modelli elaborati per “spiegare” l’andamento del cambio (il bollettino di gennaio 2002 della Banca centrale europea ne elenca ben diciassette), tutte le “spiegazioni” di fatto non spiegano niente, nel breve periodo. Sembrano qualitativamente adatte a spiegare un’ovvietà: se i fondamentali di un’area economica peggiorano relativamente ad un’altra, la sua moneta prima o poi si deprezza, e viceversa.

L’unica conclusione seria che si può trarre è che l’euro sta oscillando in una fascia di valori, ad esempio rispetto al dollaro, che è del tutto “normale”, nel senso che si è già riscontrata in passato. Ad esempio, il cambio lira/dollaro è oscillato negli ultimi vent’anni tra 1400 e 2200 lire circa: più o meno, fatte le conversioni, è la banda di oscillazione dell’euro, “sintetico” prima del 1999, di quello vero poi.
L’euro, quindi, ancora non ha modificato sostanzialmente i rapporti di forza economica e politica tra Stati Uniti ed Europa. Se questo è vero, come dicono i numeri, il problema reale torna ad essere la differenza di flessibilità e di efficienza tra i due sistemi più che un problema monetario e finanziario. Il rapporto di cambio è un termometro, non la cura dei malanni di un sistema economico.

ATTENZIONE AL FUTURO

Alle incertezze sul futuro della nostra economia e della politica economica del governo si è aggiunta la prescrizione del Fondo monetario internazionale di intervenire sul disavanzo pubblico, soprattutto sulla spesa pubblica per sanità e pensioni. La notizia ha avuto grande rilievo sulla stampa, ma non ha ricevuto quell’attenzione “comparata” che essa merita.
In una situazione di debolezza congiunturale, che si innesta in quella ancora più grave di debolezza strutturale (o, se si preferisce, competitiva) dell’economia italiana, suggerire una politica fiscale restrittiva, che si innesterebbe in una “già minacciata” politica monetaria dello stesso segno, sarebbe come portare vasi a Samo. Ovviamente, vasi rotti...
Il Fondo monetario internazionale conosce bene queste cose e, salvo prova contraria, (sempre possibile, ma, come suol dirsi, “carta canta”), la sua cultura resta fondamentalmente keynesiana, sia pure doverosamente mitigata dall’esperienza passata degli abusi che di essa sono stati fatti. Ma allora?
Per diretta esperienza, al quesito da me rivolto agli ispettori del Fondo, se essi condividessero le ipotesi rigidamente restrittive introdotte nei Trattati europei in materia fiscale, la risposta è stata: è irrilevante il nostro punto di vista, noi ci atteniamo alle «preferenze rivelate». Poiché l’Italia ha manifestato le sue preferenze a favore di una politica fiscale rigida e di un rientro dal debito pubblico in proporzione al Prodotto interno lordo, e le ha incorporate in trattati internazionali volontariamente cogenti, il Fondo non può se non prendere nota che il sentiero attuale diverge da quello democraticamente stabilito.
In questo ragionamento vi è spazio solo per diversità di interpretazione sugli andamenti congiunturali (e strutturali) previsti, e su questa strada si è avviato il nostro ministro del Tesoro. Noi gli auguriamo ogni successo, ma, per esperienza vissuta, gli raccomandiamo prudenza.
Il problema, però, è e resta di politica estera, dato che, da un lato, occorre convincere i partner europei ad abbandonare la linea farisaica di consentire la violazione del Patto di stabilità in nome della crescita, ma non interpretarlo diversamente o modificarlo; dall’altro, ottenere il sostegno del Fondo per questa azione, nonché degli Stati Uniti, più che convinti su questa politica, dato che la praticano attivamente. Nell’interesse di tutti. Chi ha infatti interesse che, in questo difficile momento politico internazionale, l’economia globale resti in recessione?
L’intervento che l’Italia deve effettuare nella spesa pubblica pensionistica e sanitaria non è giustificabile sulla base delle preferenze rivelate o di teorie che mal tollerano l’intervento dello Stato nel sociale, ma è giustificato dalla necessità di ridurre il peso degli oneri sociali sul costo del lavoro per rilanciare la competitività agendo su una delle sue componenti.
Più altri motivi, tra i quali giova ricordare la necessità che, per mantenere lo spirito di iniziativa in una società sviluppata, com’è certamente quella in cui noi italiani viviamo, occorre che i cittadini si diano carico in misura crescente del proprio futuro. Si chiama “responsabilità individuale” ed è alla base di questa fase del capitalismo mondiale, piaccia o non piaccia.

 

EPOPEA IRI

Alla fine del Novecento, l’impresa pubblica è entrata in un cono d’ombra in tutto l’Occidente. Col “ritorno al mercato”, negli anni Ottanta, il principio dell’interventismo dello Stato nell’economia cominciò ad arretrare, e, insieme con esso, iniziò a mutare la linea di confine tra le sfere pubblica e privata. La parabola dell’impresa pubblica giungeva così alla fine: il suo declino appariva scandito dai processi di privatizzazione, che si incaricavano di restituire all’iniziativa imprenditoriale quel che aveva gestito a lungo la mano statale. A questa sorte non è sfuggita l’Italia, dove la tendenza del ritorno al mercato e il rilancio dell’iniziativa privata si sono specchiati nella decisione, nel 2000, di procedere alla liquidazione dell’istituzione-simbolo del modello italiano d’impresa pubblica, l’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri). Era la prova che una stagione si era chiusa.
Per un tratto non breve, l’Iri servì da termine di riferimento nella discussione sugli strumenti di gestione dell’economia mista. Un esempio, per i Paesi europei cimentatisi col problema delle nazionalizzazioni e con l’assetto da attribuire alle imprese pubbliche. Persino nell’America di Roosevelt, durante la depressione a metà degli anni Trenta, c’era stato chi aveva guardato all’Italia e alla struttura creata da Beneduce nel ‘33, alla ricerca di efficaci strumenti contro la crisi.
Ora che la sorte dell’impresa pubblica si è consumata, è possibile considerare il suo ruolo e le sue trasformazioni da una prospettiva storica. E’ quanto sta iniziando a fare la Fondazione Iri, erede del lascito documentale della grande holding pubblica, con l’avvio di una serie di attività che dovrebbero permettere sia un riordino di tutte le carte e dei materiali d’archivio, sia il varo di un programma di studi capace di approdare a una conoscenza empiricamente fondata dei risultati ottenuti dall’azione dello “Stato imprenditore” nel nostro Paese.
Quest’ultima si è incardinata nell’economia italiana grazie alla sua consonanza con alcuni caratteri specifici della crescita nazionale. L’Iri si è situato in un asse di continuità con l’intervento dello Stato come agente sostitutivo dello sviluppo economico e ha cercato di trarre una lezione dalla crisi delle “banche miste” dopo il 1929. Beneduce – il capostipite della figura del “grand commis” teso al governo dell’economia – puntava probabilmente a un’originale via italiana per integrare e coordinare fra di loro istituzioni, banche e imprese.
D’altro lato, la storia dell’Iri (e, più in generale, delle Partecipazioni Statali) si intrecciava con quella della grande impresa in Italia. In giorni in cui tutti i grandi soggetti che formano l’opinione economica del Paese (dalla Confindustria alla Banca d’Italia) lamentano la scarsità di imprese di grandi dimensioni all’interno del nostro tessuto industriale, e temono anzi nuove consistenti contrazioni dell’apparato produttivo, non sarà male ricordare che grandi unità industriali hanno potuto affermarsi in taluni settori (dalla siderurgia alla cantieristica) grazie all’impulso della mano pubblica. Il progetto dello Stato imprenditore è stato, dalle origini, un disegno finalizzato alla creazione di vasti impianti produttivi.
L’effetto modernizzante delle Partecipazioni Statali è avvertibile su almeno altri due fronti. Il primo è quello delle grandi infrastrutture: la rete autostradale, che costituì un solido sfondo al “miracolo economico”, è largamente opera dell’impresa pubblica, che contribuì a determinare la cornice entro cui poterono trovare slancio numerose iniziative imprenditoriali. Il secondo è quello, più controverso, delle relazioni industriali. La struttura della moderna negoziazione collettiva è stata messa a punto, da principio, entro le grandi concentrazioni dell’industria di Stato: la contrattazione articolata nacque all’interno dei complessi a ciclo integrale per la produzione di acciaio.
Certo, molti fattori oggettivi hanno interagito, in seguito, per decretare il declino dell’impresa pubblica. Nel contesto di un’economia internazionale aperta, si richiedono una libertà d’azione e un grado di mobilità operativa che non sono stati in genere appannaggio dell’industria di Stato, troppo soggetta per sua natura a vincoli di tipo politico e sociale. I diritti di proprietà finiscono inevitabilmente per essere condizionanti e l’autorità politica non ha mai mostrato molte remore ad avvalersene.
Il graduale ritiro dall’arena politico-economica delle imprese a partecipazione statale non deve quindi essere complessivamente ricondotto a specifiche ragioni italiane, ma rientra in uno scenario generale che ha imposto spazi più stretti all’autonomia dei soggetti economici.
La distanza storica che ci divide dal periodo in cui l’impresa pubblica si guadagnò una posizione centrale nell’ordinamento economico ci appare breve dal punto di vista temporale, ma è ampia, se la valutiamo nei termini della difformità rispetto al nostro presente. Una condizione, questa, che rappresenta di per sé una garanzia per una nuova fase di ricerca e di analisi.

 

   
   
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