Leuro ancora
non ha modificato
sostanzialmente
i rapporti di forza economica e politica tra Stati Uniti ed Europa.
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E tema che, pudicamente, gli economisti chiamano controverso.
Ad esser chiari, più che controverso, il valore del cambio
tra euro e dollaro è semplicemente imprevedibile, almeno
nel breve periodo. Molti pensano che una valutazione qualitativa
di questa grandezza abbia senso, almeno nel medio periodo, a condizione
che nessuno chieda che vuol dire medio periodo. Tutto ciò
premesso, vediamo cosa è successo, e cerchiamo di trarre
alcune conclusioni.
Considerando un euro sintetico, ossia calcolato sulla
base del valore nel tempo delle monete che si sono sciolte
nelleuro, abbiamo un andamento fortemente altalenante e prima
della sua nascita ufficiale (gennaio 1999) leuro ha avuto
quattro picchi di forza sul dollaro, ciascuno seguito da picchi
di debolezza, oscillando più o meno tra un indice di cambio
medio ponderato di 110/115 (inizio 99 = 100) e un valore dellordine
di 90. Nella prima metà del 2000 leuro ha oscillato
poco sotto un valore medio di 85, risalendo poi attorno a valori
attuali dellordine di 95.
Quali sono le variabili che hanno influenzato questo altalenante
andamento? Fondamentalmente, il differenziale di inflazione attesa,
quello dei tassi di interesse reali, i differenziali di produttività,
i saldi delle partite correnti, il saldo delle partite commerciali;
tutti fattori che ovviamente influenzano le previsioni e le attese
sullandamento delle economie nelle due aree. Ma anche considerando
i vari modelli elaborati per spiegare landamento
del cambio (il bollettino di gennaio 2002 della Banca centrale europea
ne elenca ben diciassette), tutte le spiegazioni di
fatto non spiegano niente, nel breve periodo. Sembrano qualitativamente
adatte a spiegare unovvietà: se i fondamentali di unarea
economica peggiorano relativamente ad unaltra, la sua moneta
prima o poi si deprezza, e viceversa.
Lunica conclusione seria che si può trarre è
che leuro sta oscillando in una fascia di valori, ad esempio
rispetto al dollaro, che è del tutto normale,
nel senso che si è già riscontrata in passato. Ad
esempio, il cambio lira/dollaro è oscillato negli ultimi
ventanni tra 1400 e 2200 lire circa: più o meno, fatte
le conversioni, è la banda di oscillazione delleuro,
sintetico prima del 1999, di quello vero poi.
Leuro, quindi, ancora non ha modificato sostanzialmente i
rapporti di forza economica e politica tra Stati Uniti ed Europa.
Se questo è vero, come dicono i numeri, il problema reale
torna ad essere la differenza di flessibilità e di efficienza
tra i due sistemi più che un problema monetario e finanziario.
Il rapporto di cambio è un termometro, non la cura dei malanni
di un sistema economico.
ATTENZIONE AL FUTURO
Alle incertezze sul futuro della nostra economia e della
politica economica del governo si è aggiunta la prescrizione
del Fondo monetario internazionale di intervenire sul disavanzo
pubblico, soprattutto sulla spesa pubblica per sanità
e pensioni. La notizia ha avuto grande rilievo sulla stampa,
ma non ha ricevuto quellattenzione comparata
che essa merita.
In una situazione di debolezza congiunturale, che si innesta
in quella ancora più grave di debolezza strutturale
(o, se si preferisce, competitiva) delleconomia italiana,
suggerire una politica fiscale restrittiva, che si innesterebbe
in una già minacciata politica monetaria
dello stesso segno, sarebbe come portare vasi a Samo. Ovviamente,
vasi rotti...
Il Fondo monetario internazionale conosce bene queste cose
e, salvo prova contraria, (sempre possibile, ma, come suol
dirsi, carta canta), la sua cultura resta fondamentalmente
keynesiana, sia pure doverosamente mitigata dallesperienza
passata degli abusi che di essa sono stati fatti. Ma allora?
Per diretta esperienza, al quesito da me rivolto agli ispettori
del Fondo, se essi condividessero le ipotesi rigidamente restrittive
introdotte nei Trattati europei in materia fiscale, la risposta
è stata: è irrilevante il nostro punto di vista,
noi ci atteniamo alle «preferenze rivelate». Poiché
lItalia ha manifestato le sue preferenze a favore di
una politica fiscale rigida e di un rientro dal debito pubblico
in proporzione al Prodotto interno lordo, e le ha incorporate
in trattati internazionali volontariamente cogenti, il Fondo
non può se non prendere nota che il sentiero attuale
diverge da quello democraticamente stabilito.
In questo ragionamento vi è spazio solo per diversità
di interpretazione sugli andamenti congiunturali (e strutturali)
previsti, e su questa strada si è avviato il nostro
ministro del Tesoro. Noi gli auguriamo ogni successo, ma,
per esperienza vissuta, gli raccomandiamo prudenza.
Il problema, però, è e resta di politica estera,
dato che, da un lato, occorre convincere i partner europei
ad abbandonare la linea farisaica di consentire la violazione
del Patto di stabilità in nome della crescita, ma non
interpretarlo diversamente o modificarlo; dallaltro,
ottenere il sostegno del Fondo per questa azione, nonché
degli Stati Uniti, più che convinti su questa politica,
dato che la praticano attivamente. Nellinteresse di
tutti. Chi ha infatti interesse che, in questo difficile momento
politico internazionale, leconomia globale resti in
recessione?
Lintervento che lItalia deve effettuare nella
spesa pubblica pensionistica e sanitaria non è giustificabile
sulla base delle preferenze rivelate o di teorie che mal tollerano
lintervento dello Stato nel sociale, ma è giustificato
dalla necessità di ridurre il peso degli oneri sociali
sul costo del lavoro per rilanciare la competitività
agendo su una delle sue componenti.
Più altri motivi, tra i quali giova ricordare la necessità
che, per mantenere lo spirito di iniziativa in una società
sviluppata, comè certamente quella in cui noi
italiani viviamo, occorre che i cittadini si diano carico
in misura crescente del proprio futuro. Si chiama responsabilità
individuale ed è alla base di questa fase del
capitalismo mondiale, piaccia o non piaccia.
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EPOPEA IRI
Alla fine del Novecento, limpresa
pubblica è entrata in un cono dombra in tutto
lOccidente. Col ritorno al mercato, negli
anni Ottanta, il principio dellinterventismo dello Stato
nelleconomia cominciò ad arretrare, e, insieme
con esso, iniziò a mutare la linea di confine tra le
sfere pubblica e privata. La parabola dellimpresa pubblica
giungeva così alla fine: il suo declino appariva scandito
dai processi di privatizzazione, che si incaricavano di restituire
alliniziativa imprenditoriale quel che aveva gestito
a lungo la mano statale. A questa sorte non è sfuggita
lItalia, dove la tendenza del ritorno al mercato e il
rilancio delliniziativa privata si sono specchiati nella
decisione, nel 2000, di procedere alla liquidazione dellistituzione-simbolo
del modello italiano dimpresa pubblica, lIstituto
per la ricostruzione industriale (Iri). Era la prova che una
stagione si era chiusa.
Per un tratto non breve, lIri servì da termine
di riferimento nella discussione sugli strumenti di gestione
delleconomia mista. Un esempio, per i Paesi europei
cimentatisi col problema delle nazionalizzazioni e con lassetto
da attribuire alle imprese pubbliche. Persino nellAmerica
di Roosevelt, durante la depressione a metà degli anni
Trenta, cera stato chi aveva guardato allItalia
e alla struttura creata da Beneduce nel 33, alla ricerca
di efficaci strumenti contro la crisi.
Ora che la sorte dellimpresa pubblica si è consumata,
è possibile considerare il suo ruolo e le sue trasformazioni
da una prospettiva storica. E quanto sta iniziando a
fare la Fondazione Iri, erede del lascito documentale della
grande holding pubblica, con lavvio di una serie di
attività che dovrebbero permettere sia un riordino
di tutte le carte e dei materiali darchivio, sia il
varo di un programma di studi capace di approdare a una conoscenza
empiricamente fondata dei risultati ottenuti dallazione
dello Stato imprenditore nel nostro Paese.
Questultima si è incardinata nelleconomia
italiana grazie alla sua consonanza con alcuni caratteri specifici
della crescita nazionale. LIri si è situato in
un asse di continuità con lintervento dello Stato
come agente sostitutivo dello sviluppo economico e ha cercato
di trarre una lezione dalla crisi delle banche miste
dopo il 1929. Beneduce il capostipite della figura
del grand commis teso al governo delleconomia
puntava probabilmente a unoriginale via italiana
per integrare e coordinare fra di loro istituzioni, banche
e imprese.
Daltro lato, la storia dellIri (e, più
in generale, delle Partecipazioni Statali) si intrecciava
con quella della grande impresa in Italia. In giorni in cui
tutti i grandi soggetti che formano lopinione economica
del Paese (dalla Confindustria alla Banca dItalia) lamentano
la scarsità di imprese di grandi dimensioni allinterno
del nostro tessuto industriale, e temono anzi nuove consistenti
contrazioni dellapparato produttivo, non sarà
male ricordare che grandi unità industriali hanno potuto
affermarsi in taluni settori (dalla siderurgia alla cantieristica)
grazie allimpulso della mano pubblica. Il progetto dello
Stato imprenditore è stato, dalle origini, un disegno
finalizzato alla creazione di vasti impianti produttivi.
Leffetto modernizzante delle Partecipazioni Statali
è avvertibile su almeno altri due fronti. Il primo
è quello delle grandi infrastrutture: la rete autostradale,
che costituì un solido sfondo al miracolo economico,
è largamente opera dellimpresa pubblica, che
contribuì a determinare la cornice entro cui poterono
trovare slancio numerose iniziative imprenditoriali. Il secondo
è quello, più controverso, delle relazioni industriali.
La struttura della moderna negoziazione collettiva è
stata messa a punto, da principio, entro le grandi concentrazioni
dellindustria di Stato: la contrattazione articolata
nacque allinterno dei complessi a ciclo integrale per
la produzione di acciaio.
Certo, molti fattori oggettivi hanno interagito, in seguito,
per decretare il declino dellimpresa pubblica. Nel contesto
di uneconomia internazionale aperta, si richiedono una
libertà dazione e un grado di mobilità
operativa che non sono stati in genere appannaggio dellindustria
di Stato, troppo soggetta per sua natura a vincoli di tipo
politico e sociale. I diritti di proprietà finiscono
inevitabilmente per essere condizionanti e lautorità
politica non ha mai mostrato molte remore ad avvalersene.
Il graduale ritiro dallarena politico-economica delle
imprese a partecipazione statale non deve quindi essere complessivamente
ricondotto a specifiche ragioni italiane, ma rientra in uno
scenario generale che ha imposto spazi più stretti
allautonomia dei soggetti economici.
La distanza storica che ci divide dal periodo in cui limpresa
pubblica si guadagnò una posizione centrale nellordinamento
economico ci appare breve dal punto di vista temporale, ma
è ampia, se la valutiamo nei termini della difformità
rispetto al nostro presente. Una condizione, questa, che rappresenta
di per sé una garanzia per una nuova fase di ricerca
e di analisi.
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