Settembre 2002

 

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Epopea Iri
Adelmo Stabile  
 
 

 

 

 

 

 

Alla fine del Novecento, l’impresa pubblica è entrata in un cono d’ombra in tutto l’Occidente. Col “ritorno al mercato”, negli anni Ottanta, il principio dell’interventismo dello Stato nell’economia cominciò ad arretrare, e, insieme con esso, iniziò a mutare la linea di confine tra le sfere pubblica e privata. La parabola dell’impresa pubblica giungeva così alla fine: il suo declino appariva scandito dai processi di privatizzazione, che si incaricavano di restituire all’iniziativa imprenditoriale quel che aveva gestito a lungo la mano statale. A questa sorte non è sfuggita l’Italia, dove la tendenza del ritorno al mercato e il rilancio dell’iniziativa privata si sono specchiati nella decisione, nel 2000, di procedere alla liquidazione dell’istituzione-simbolo del modello italiano d’impresa pubblica, l’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri). Era la prova che una stagione si era chiusa.
Per un tratto non breve, l’Iri servì da termine di riferimento nella discussione sugli strumenti di gestione dell’economia mista. Un esempio, per i Paesi europei cimentatisi col problema delle nazionalizzazioni e con l’assetto da attribuire alle imprese pubbliche. Persino nell’America di Roosevelt, durante la depressione a metà degli anni Trenta, c’era stato chi aveva guardato all’Italia e alla struttura creata da Beneduce nel ‘33, alla ricerca di efficaci strumenti contro la crisi.
Ora che la sorte dell’impresa pubblica si è consumata, è possibile considerare il suo ruolo e le sue trasformazioni da una prospettiva storica. E’ quanto sta iniziando a fare la Fondazione Iri, erede del lascito documentale della grande holding pubblica, con l’avvio di una serie di attività che dovrebbero permettere sia un riordino di tutte le carte e dei materiali d’archivio, sia il varo di un programma di studi capace di approdare a una conoscenza empiricamente fondata dei risultati ottenuti dall’azione dello “Stato imprenditore” nel nostro Paese.
Quest’ultima si è incardinata nell’economia italiana grazie alla sua consonanza con alcuni caratteri specifici della crescita nazionale. L’Iri si è situato in un asse di continuità con l’intervento dello Stato come agente sostitutivo dello sviluppo economico e ha cercato di trarre una lezione dalla crisi delle “banche miste” dopo il 1929. Beneduce – il capostipite della figura del “grand commis” teso al governo dell’economia – puntava probabilmente a un’originale via italiana per integrare e coordinare fra di loro istituzioni, banche e imprese.
D’altro lato, la storia dell’Iri (e, più in generale, delle Partecipazioni Statali) si intrecciava con quella della grande impresa in Italia. In giorni in cui tutti i grandi soggetti che formano l’opinione economica del Paese (dalla Confindustria alla Banca d’Italia) lamentano la scarsità di imprese di grandi dimensioni all’interno del nostro tessuto industriale, e temono anzi nuove consistenti contrazioni dell’apparato produttivo, non sarà male ricordare che grandi unità industriali hanno potuto affermarsi in taluni settori (dalla siderurgia alla cantieristica) grazie all’impulso della mano pubblica. Il progetto dello Stato imprenditore è stato, dalle origini, un disegno finalizzato alla creazione di vasti impianti produttivi.
L’effetto modernizzante delle Partecipazioni Statali è avvertibile su almeno altri due fronti. Il primo è quello delle grandi infrastrutture: la rete autostradale, che costituì un solido sfondo al “miracolo economico”, è largamente opera dell’impresa pubblica, che contribuì a determinare la cornice entro cui poterono trovare slancio numerose iniziative imprenditoriali. Il secondo è quello, più controverso, delle relazioni industriali. La struttura della moderna negoziazione collettiva è stata messa a punto, da principio, entro le grandi concentrazioni dell’industria di Stato: la contrattazione articolata nacque all’interno dei complessi a ciclo integrale per la produzione di acciaio.
Certo, molti fattori oggettivi hanno interagito, in seguito, per decretare il declino dell’impresa pubblica. Nel contesto di un’economia internazionale aperta, si richiedono una libertà d’azione e un grado di mobilità operativa che non sono stati in genere appannaggio dell’industria di Stato, troppo soggetta per sua natura a vincoli di tipo politico e sociale. I diritti di proprietà finiscono inevitabilmente per essere condizionanti e l’autorità politica non ha mai mostrato molte remore ad avvalersene.
Il graduale ritiro dall’arena politico-economica delle imprese a partecipazione statale non deve quindi essere complessivamente ricondotto a specifiche ragioni italiane, ma rientra in uno scenario generale che ha imposto spazi più stretti all’autonomia dei soggetti economici.
La distanza storica che ci divide dal periodo in cui l’impresa pubblica si guadagnò una posizione centrale nell’ordinamento economico ci appare breve dal punto di vista temporale, ma è ampia, se la valutiamo nei termini della difformità rispetto al nostro presente. Una condizione, questa, che rappresenta di per sé una garanzia per una nuova fase di ricerca e di analisi.

   
   
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