Settembre 2002

ANALISI

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Se il dollaro cede
Walter Weissberger  
 
 

 

 

 

 

La rivalutazione
dell’euro era
scontata; penalizza però le esportazioni e getta sabbia
su un’economia per vari motivi incapace di sostituirsi agli Stati Uniti come
locomotiva mondiale dell’espansione
economica.

 

La politica monetaria della Federal Reserve mantiene i caratteri dell’accanimento terapeutico, inonda i mercati di dollari a costo zero, lascia persistere l’esagerata esuberanza di Wall Street, il cesaropapismo del dollaro, la tendenza all’indebitamento delle imprese e alla dissipazione dei consumatori. Studiosi come John K. Galbraith e Paul Krugman hanno sostenuto che a nessuno sarebbe permesso quanto fanno gli Stati Uniti.
Ora però i nodi vengono al pettine, per quanto ancora aggrovigliati e difficili da districare per l’effetto di padronanza esercitata dall’unica superpotenza sul resto del mondo e anche per la consistenza della sua straordinaria capacità d’innovazione tecnologica: oltre alla bolla speculativa di Wall Street, si sta sgonfiando anche quella del dollaro.
Non si tratta di buone notizie per l’economia europea e per quella italiana. L’espansione americana si rivela molto più fragile e drogata di quanto non appaia nei pronostici di analisti e non emerga dalle valutazioni cosmetiche di strategisti, operatori di Borsa e delle istituzioni economico-monetarie. Alla marcia decisa dell’economia americana corrisponde una crescita europea e giapponese ugualmente asfittica, com’è il caso dell’Unione europea, dai fondamentali notevolmente più affidabili e rigorosi. Gli Stati Uniti rimangono l’unica locomotiva mondiale. Di qui, un colpo all’irragionevole ottimismo che contrassegna certe previsioni italiane.
Le riserve sulle statistiche e sulle previsioni americane devono valere quando esse inclinino verso l’euforia e quando indichino tendenze negative. L’aumento della disoccupazione è un dato cattivo, ma a ciò si contrappongono altri elementi che manifestano la robustezza americana, vale a dire gli indici sulle vendite d’auto e delle spese per l’edilizia, senza dimenticare la potenza dell’innovazione tecnologica e la consistenza della produttività, per quanto fondata sull’ampio ricorso a forme di darwinismo sociale e di flessibilità del mercato del lavoro che determinano l’attuale basso costo della manodopera e l’elevato utilizzo degli impianti.
E’ sbagliato sottovalutare la caduta sensibile dei margini di profitto, il pesante ridimensionamento degli investimenti, le condizioni di indebitamento delle imprese e delle famiglie, che tuttavia hanno proseguito a consumare e a dissipare. La politica espansiva adottata da Alan Greenspan con la continua e sostanziosa caduta del costo del denaro, la propensione de1 presidente americano all’incremento allarmante delle spese militari e alla riduzione delle tasse, non correggono le distorsioni di un’economia che si finanzia grazie all’apporto di ingenti capitali stranieri.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: il disavanzo delle partite correnti americane ha raggiunto il 4 per cento del Prodotto interno lordo; l’economia, doviziosamente riempita di ricostituenti e di droghe non tanto leggere, registra un andamento più modesto di quanto non emerga da certe statistiche sull’incremento del Pil. Il Financial Times ha recentemente proposto il quesito: siamo vicini alla resa dei conti? Considerazione coerente con lo squilibrio del saldo con l’estero ormai non coperto dall’afflusso di capitali.
La perdita di valore del dollaro rispetto allo yen e all’euro corrisponde al ritiro dei capitali dai mercati americani. Nel 2001 gli Stati Uniti hanno attirato circa 500 miliardi di dollari dall’estero, mentre per coprire il disavanzo delle partite correnti le cifre attirate nei primi mesi dell’anno dovevano essere almeno doppie. Il dollaro ne risente. Il rischio principale è l’enorme, crescente deficit delle partite correnti Usa – ha sostenuto Wim Duisenberg – e c’è solo da sperare che sia contenuto, perché è insostenibile. Le risposte americane appaiono insoddisfacenti e preoccupanti, assommano gli effetti del calo delle tasse e delle bolle speculative a quelli delle spese in armamenti e delle guerre commerciali. L’inasprirsi delle tensioni nel Vicino Oriente potrebbe favorire scenari terribili.
Nessuna soddisfazione per quanto sta avvenendo. La rivalutazione dell’euro era scontata, può favorire il contenimento dell’inflazione e l’afflusso di capitali in Eurolandia; penalizza però le esportazioni e getta sabbia su un’economia per vari motivi incapace di sostituirsi agli Stati Uniti come locomotiva mondiale dell’espansione economica. Altri rischi sono alle porte. Chi ha memoria ricorderà che negli anni Ottanta gli Stati Uniti adottarono una strategia unilaterale di riduzione del valore del dollaro. I giapponesi furono puniti per la loro tracotanza e la loro ingenuità, dopo avere fatto grandi investimenti in titoli e in aziende statunitensi smobilitarono il campo e tornarono a casa con la coda tra le gambe. E da allora, non si sono ancora ripresi.
L’incognita adesso sta nella rapidità della caduta del dollaro. Una rotta destabilizzerebbe l’economia mondiale. Banche e imprese europee stanno subendo gli effetti della caduta dei corsi di Wall Street, dei fallimenti visibili e di quelli meno appariscenti di tante società americane. Bankers Trust, Pimco, Case, Chrysler sono state pagate a carissimo prezzo e con il dollaro alto da Deutsche Bank, Allianz, Fiat, Daimler. Gli europei sono gravidi dell’infelice sorte dei giapponesi?
E’ stata avanzata la proposta di rinnovare l’accordo che servì a governare il ridimensionamento del dollaro. Buona idea. Ma il presidente degli Stati Uniti deve essere indotto ad abbandonare il suo unilateralismo e a sposare le ragioni di un nuovo ordine mondiale. Ragioni che furono molto care a suo padre.

   
   
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