Settembre 2002

ANALISI

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Fed e Bce
in rotta di collisione
Edgar W. Robertson  
 
 

 

 

 

 

Allora,
chi ha ragione?
A giudizio delle
ultime statistiche economiche, sembra che la ragione
sia dalla parte
della Fed.

 

L’eredità della Bundesbank colpisce ancora! La Banca centrale europea continua a lanciare segnali di allarme sui pericoli di inflazione e questo significa che è pronta in qualsiasi momento a rialzare i tassi di interesse. Nel frattempo, le economie mondiali rivelano di essere più fragili di quanto si pensasse.
I mercati hanno ragione a spaventarsi, se il presidente Bce annuncia che l’inflazione potrebbe non scendere sotto il tetto del 2 per cento. E il costo del denaro si impenna, di conseguenza: proprio il contrario di quello che ci si aspetterebbe quando l’economia comincia a vacillare. Qualcuno sta sbagliando? Di sicuro, la Bce.
La situazione attuale dimostra benissimo la differenza tra la Banca centrale europea e la Federal Reserve americana. Ed è prova sia dell’inadeguatezza della strategia europea, sia del fatto che Eurolandia tende a crearsi problemi non necessari.
Mette anche in luce per quali ragioni, per tanti anni, i mercati globali abbiano ripetutamente male interpretato la Bce e il suo diretto predecessore, la Bundesbank. La Bce continua a concentrarsi sui rischi di elevata liquidità nell’economia dell’euro e in quella globale, provocata dalla convergenza dei tassi nel mondo industriale a livelli talmente bassi da essere quasi privi di precedenti. La Fed, al contrario, considera una crescita del 10 per cento della massa monetaria nell’economia americana come qualcosa d’irrilevante, senza implicazioni inflazionistiche significative, e si concentra sulla fragilità della domanda, sulla possibilità e disponibilità a consumare e investire da parte delle famiglie e delle imprese. La Bce ha fiducia nel fatto che la ripresa economica stia accelerando. E’ preoccupata dai rischi d’inflazione per le richieste salariali. La Fed, al contrario, non è sicura che il risveglio economico attuale sia sostenibile. Teme un balzo indietro, verso una crescita zero, o addirittura negativa, nonostante la scoppiettante crescita del Prodotto interno lordo americano aumentato del 5,8 per cento nei primi tre mesi di quest’anno.
Allora, chi ha ragione? A giudizio delle ultime statistiche economiche, compresi i dati sull’occupazione e sull’attività nel settore dei servizi, sembra che la ragione sia dalla parte della Fed. Una cosa difficile da capire è perché mai la Bce al suo interno ammetta (come d’altra parte hanno fatto i sei principali istituti tedeschi di ricerca economica nelle loro previsioni di primavera) che una quantità di moneta abbondante nell’economia porta sempre a un rimbalzo dell’attività, ma poi in pubblico i suoi funzionari danno scarsa importanza a questo meccanismo. Chi guida la Bce evidentemente non vuole subire pressioni e richieste di stimolo all’economia.
In effetti, ogni volta che c’è stata una rapida espansione della moneta nei decenni passati, l’attività industriale ha fatto un balzo in avanti, facendo sì che la Bce alzasse poi i tassi a breve per bloccare l’inflazione. Questa correlazione normale del ciclo è stata molto netta in Eurolandia e anche più costante negli Stati Uniti. Dunque, il discorso è stato valido, almeno finora.
Il periodo attuale è infatti il primo, da quando si è iniziato negli Stati Uniti nel 1960 a raccogliere statistiche, in cui l’economia non risponde a un’espansione della moneta. Ci sono molte similitudini col Giappone, dopo che era scoppiata la bolla dei mercati azionari della fine degli anni Ottanta. Si tratta di una delle principali preoccupazioni dei mercati. La Fed ritiene quindi che la ricetta migliore per i tassi di interesse sia di lasciare le cose come stanno. La Bce invece, obbedendo alla lettera alla strategia del predecessore teutonico, non sta prendendo in considerazione la fragilità della domanda mondiale. E potrebbe cominciare presto ad alzare il costo del denaro.
E’ uno scenario che abbiamo già visto con la Bundesbank. Ma questa volta a soffrire potrebbe essere non soltanto la Germania, ma i Dodici membri dell’euro, insieme con un numero indefinito di economie ad essi legate.

La locomotiva d’Europa deraglia e finisce per bloccare tutti gli altri vagoni. E’ la sensazione che si prova a guardare il non felice periodo della Germania, cominciato con le difficoltà a onorare i limiti di deficit del Patto di stabilità, e continuato con la serie di rovesci finanziari che ha colpito le sue aziende. La bancarotta di Holzmann (costruzioni) e di Kirch (televisione) sono solo i “gioielli” di una lista che, secondo le previsioni, raggiungerà la bella cifra di 40 mila fallimenti entro il 2002, con una crescita di oltre il 25 per cento sull’anno precedente. Le difficoltà economiche dell’ultimo anno hanno evidenziato tutte le rigidità di un modello che non è stato mai liberale, ma che finora aveva funzionato grazie all’alto livello di coesione sociale. Il capitalismo renano è fatto di interconnessioni: le imprese operano in mercati protetti sia per esplicita regolamentazione sia per l’implicita identificazione che il sistema crea.
Il credito bancario, molto più del mercato, è il vero finanziatore delle imprese, spesso anche azioniste. Le banche sono in mano pubblica, o comunque fortemente regolamentate. La politica, attraverso l’intervento in economia, gode di un alto consenso e mantiene la pace sociale attraverso un alto livello di protezione per i lavoratori.
Ma di fronte all’ultima crisi congiunturale il meccanismo si è inceppato: solo lo 0,6 per cento di crescita del Pil nel 2001; i già sottolineati problemi di deficit; quattro milioni e mezzo di disoccupati; la necessità di porre mano alle riforme, contro sindacati sul piede di guerra. A tutto questo va aggiunto il gran numero di insolvenze che si ripercuote direttamente sullo stato patrimoniale delle banche, che peraltro – come dimostra il caso Kirch – sono costrette a prestar soldi seguendo le indicazioni dei politici piuttosto che i criteri industriali e finanziari.
Se la ripresa si affaccia nel resto d’Europa, in Germania tarda. D’altra parte, sarebbe difficile sperare nel contrario, con un sistema così poco flessibile, che richiede una stagione di grandi cambiamenti. Una prospettiva tutt’altro che rassicurante, visto che i problemi di Berlino si ripercuotono direttamente nelle nostre tasche, come ha fatto notare l’economista-capo della Bce, Otmar Issing, quando ha affermato che «le debolezze dell’euro hanno consistenti radici in Germania». Passati i tempi in cui i tedeschi insegnavano il rigore ai partner, forse è ora il caso che accettino qualche lezione dall’Europa.

   
   
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