Settembre 2002

CON L’EUROPA AI MARGINI

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Se andiamo al traino
di un’America claudicante
Flavio Albini  
 
 

 

 

 

 

Il mondo intero aveva tirato un gran sospiro di sollievo quando gli istituti
di analisi erano
tornati a parlare di una crescita al passo del 4-5 per cento.

 

Tutti sperano nella crescita dell’economia, in un aumento dell’attività produttiva a ritmi sostenuti e tali da agevolare la soluzione di problemi non soltanto economici, ma anche e soprattutto politici, attraverso un aumento delle risorse a disposizione delle autorità di governo, e anche sociali, attraverso una crescita dell’equità distributiva, dell’occupazione, delle motivazioni di fiducia nel futuro.
Ma ormai da tempo, ogni volta che questa auspicata ripresa sembra essere sul punto di decollare, ecco che si verifica qualche cosa che la blocca, la ricaccia indietro, la condiziona. E’ così anche questa volta: era prevista, quasi annunciata, per l’inizio di quest’anno; poi la si è promessa per il secondo semestre; ma ora che questo tempo si è avvicinato, ecco emergere nuove perplessità, limiti, squilibri irrisolti. Come dire che se ne parlerà più avanti. Quanto più avanti, nessuno si azzarda a dire.
L’origine – come sempre – è al di là dell’Atlantico. L’11 settembre ha determinato un buco: ha arrestato investimenti, decisioni di spesa, programmi; ma è durato poco, molto meno di quanto, sotto l’effetto dell’onda emotiva, era stato previsto. Tanto poco, che il mondo intero aveva tirato un gran sospiro di sollievo quando già per la prima metà dell’anno gli istituti di analisi erano tornati a parlare di una crescita al passo del 4-5 per cento. Ma non c’è stato neppure il tempo per rallegrarsene, che subito nuvoloni grigi si sono addensati sulle speranze che quella ripresa potesse estendersi al resto del mondo. I primi nuvoloni sono venuti dalla considerazione che 1a ripresa americana è stata determinata soprattutto dalla ricostituzione delle scorte.
Dopo l’11 settembre le strutture commerciali hanno centellinato al minimo necessario gli ordinativi alle imprese di produzione, e queste hanno centellinato il rifornimento di materie prime, di semilavorati, di beni di importazione. Quando si è visto che il trauma dell’aggressione terroristica era stato relativo, che l’occupazione aveva tenuto abbastanza bene e che le misure di sostegno prontamente decise dal governo federale avevano funzionato, il vuoto dei magazzini a monte e a valle del processo produttivo è stato almeno in parte colmato, e il tasso di crescita dell’economia ha potuto rimbalzare dall’avvallamento negativo degli ultimi mesi dell’anno passato. Ma di un rimbalzo, appunto, sembra essersi trattato: sulle scorte non si guadagna, e una volta ricostituite il processo rischia di affievolirsi nuovamente; i deludenti dati sull’occupazione negli Stati Uniti fanno pensare esattamente a un processo del genere.
E c’è anche dell’altro: appena la dinamica economica si è ravvivata, sia pure per effetto delle scorte, si è riproposto il vecchio problema del disavanzo commerciale, che è subito balzato a nuovi record del 4 per cento del Prodotto interno lordo. Vecchio problema, al quale è associato l’altrettanto vecchio dilemma: fino a quando il resto del mondo sarà disposto a finanziare un così ampio disavanzo, investendo risparmio negli Stati Uniti? E che cosa potrà accadere quando quel momento arriverà, visto che una volta o l’altra potrà pur arrivare?

In questo clima già di per sé abbastanza inquietante si addensa poi il nuvolone europeo. E’ costituito dall’inflazione, o meglio, dall’interpretazione che dell’inflazione sembra dare la Banca centrale europea. Che l’inflazione sia più elevata di quella desiderabile, non v’è alcun dubbio; ma la stessa Banca centrale conviene sul fatto che essa è determinata essenzialmente da due fattori: il primo è il solito petrolio, la cui quotazione è risalita a causa delle tensioni medio-orientali. Il rincaro si diffonde all’interno dei Paesi consumatori e, almeno nel breve e anche nel medio periodo, non c’è assolutamente niente da fare.
Il secondo è la sostituzione con l’euro delle unità monetarie nelle quali sono espressi i prezzi. Che la sostituzione avrebbe comportato un gradino di inflazione a motivo degli arrotondamenti era cosa facilmente prevedibile, tranquillamente prevista e negata soltanto dalla Banca centrale europea. Ora, di fronte all’evidenza, anche la Bce deve prendere atto che il cambio della moneta circolante un costo, sia pure modesto, lo ha avuto.
Ma nell’uno come nell’altro caso, si tratta di eventi non ripetibili, contingenti, sui quali c’è ben poco da arzigogolare.
Non si spiega quindi il timore espresso dalla Banca centrale europea che questa inflazione possa radicarsi nelle aspettative degli operatori economici anche per il futuro e che quindi, come si trattasse di un’inflazione patologica, deve essere combattuta: se lo sarà con adeguati comportamenti economico-sociali, bene; altrimenti – è il messaggio implicito – provvederà lei con una politica monetaria più restrittiva.
L’analisi sottesa da una siffatta posizione non è delle più lineari, ma occorre tener conto che è strumentale alla politica contrattuale: il suo messaggio è volto a rafforzare le resistenze alle richieste dei metalmeccanici tedeschi che, se accolte, rischierebbero di trasmettersi a tutta l’Europa dell’euro, consolidando in questo modo un’inflazione che, essendo determinata da cause contingenti, potrebbe essere invece rapidamente superata.
E’ la vecchia politica della Bundesbank, molto permissiva verso il governo, ma molto attiva in favore di un contenimento dei salari. Ora, però, c’è una differenza: a motivo della moneta unica, all’atteggiamento restrittivo sui salari deve unire quello ugualmente restrittivo sui bilanci pubblici, finendo così per svolgere un’azione frenante che si avverte non solo nell’esiguità dei tassi di crescita europei, ma soprattutto nella progressiva subordinazione del clima economico europeo a quello degli Stati Uniti. L’opposto dell’affrancamento dell’economia europea da quella americana, che era tra le motivazioni salienti dell’Unione monetaria.

   
   
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