Il mondo intero aveva tirato un gran sospiro di sollievo quando
gli istituti
di analisi erano
tornati a parlare di una crescita al passo del 4-5 per cento.
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Tutti sperano nella crescita delleconomia, in un aumento
dellattività produttiva a ritmi sostenuti e tali da
agevolare la soluzione di problemi non soltanto economici, ma anche
e soprattutto politici, attraverso un aumento delle risorse a disposizione
delle autorità di governo, e anche sociali, attraverso una
crescita dellequità distributiva, delloccupazione,
delle motivazioni di fiducia nel futuro.
Ma ormai da tempo, ogni volta che questa auspicata ripresa sembra
essere sul punto di decollare, ecco che si verifica qualche cosa
che la blocca, la ricaccia indietro, la condiziona. E così
anche questa volta: era prevista, quasi annunciata, per linizio
di questanno; poi la si è promessa per il secondo semestre;
ma ora che questo tempo si è avvicinato, ecco emergere nuove
perplessità, limiti, squilibri irrisolti. Come dire che se
ne parlerà più avanti. Quanto più avanti, nessuno
si azzarda a dire.
Lorigine come sempre è al di là
dellAtlantico. L11 settembre ha determinato un buco:
ha arrestato investimenti, decisioni di spesa, programmi; ma è
durato poco, molto meno di quanto, sotto leffetto dellonda
emotiva, era stato previsto. Tanto poco, che il mondo intero aveva
tirato un gran sospiro di sollievo quando già per la prima
metà dellanno gli istituti di analisi erano tornati
a parlare di una crescita al passo del 4-5 per cento. Ma non cè
stato neppure il tempo per rallegrarsene, che subito nuvoloni grigi
si sono addensati sulle speranze che quella ripresa potesse estendersi
al resto del mondo. I primi nuvoloni sono venuti dalla considerazione
che 1a ripresa americana è stata determinata soprattutto
dalla ricostituzione delle scorte.
Dopo l11 settembre le strutture commerciali hanno centellinato
al minimo necessario gli ordinativi alle imprese di produzione,
e queste hanno centellinato il rifornimento di materie prime, di
semilavorati, di beni di importazione. Quando si è visto
che il trauma dellaggressione terroristica era stato relativo,
che loccupazione aveva tenuto abbastanza bene e che le misure
di sostegno prontamente decise dal governo federale avevano funzionato,
il vuoto dei magazzini a monte e a valle del processo produttivo
è stato almeno in parte colmato, e il tasso di crescita delleconomia
ha potuto rimbalzare dallavvallamento negativo degli ultimi
mesi dellanno passato. Ma di un rimbalzo, appunto, sembra
essersi trattato: sulle scorte non si guadagna, e una volta ricostituite
il processo rischia di affievolirsi nuovamente; i deludenti dati
sulloccupazione negli Stati Uniti fanno pensare esattamente
a un processo del genere.
E cè anche dellaltro: appena la dinamica economica
si è ravvivata, sia pure per effetto delle scorte, si è
riproposto il vecchio problema del disavanzo commerciale, che è
subito balzato a nuovi record del 4 per cento del Prodotto interno
lordo. Vecchio problema, al quale è associato laltrettanto
vecchio dilemma: fino a quando il resto del mondo sarà disposto
a finanziare un così ampio disavanzo, investendo risparmio
negli Stati Uniti? E che cosa potrà accadere quando quel
momento arriverà, visto che una volta o laltra potrà
pur arrivare?
In questo clima già di per sé abbastanza inquietante
si addensa poi il nuvolone europeo. E costituito dallinflazione,
o meglio, dallinterpretazione che dellinflazione sembra
dare la Banca centrale europea. Che linflazione sia più
elevata di quella desiderabile, non vè alcun dubbio;
ma la stessa Banca centrale conviene sul fatto che essa è
determinata essenzialmente da due fattori: il primo è il
solito petrolio, la cui quotazione è risalita a causa delle
tensioni medio-orientali. Il rincaro si diffonde allinterno
dei Paesi consumatori e, almeno nel breve e anche nel medio periodo,
non cè assolutamente niente da fare.
Il secondo è la sostituzione con leuro delle unità
monetarie nelle quali sono espressi i prezzi. Che la sostituzione
avrebbe comportato un gradino di inflazione a motivo degli arrotondamenti
era cosa facilmente prevedibile, tranquillamente prevista e negata
soltanto dalla Banca centrale europea. Ora, di fronte allevidenza,
anche la Bce deve prendere atto che il cambio della moneta circolante
un costo, sia pure modesto, lo ha avuto.
Ma nelluno come nellaltro caso, si tratta di eventi
non ripetibili, contingenti, sui quali cè ben poco
da arzigogolare.
Non si spiega quindi il timore espresso dalla Banca centrale europea
che questa inflazione possa radicarsi nelle aspettative degli operatori
economici anche per il futuro e che quindi, come si trattasse di
uninflazione patologica, deve essere combattuta: se lo sarà
con adeguati comportamenti economico-sociali, bene; altrimenti
è il messaggio implicito provvederà lei con
una politica monetaria più restrittiva.
Lanalisi sottesa da una siffatta posizione non è delle
più lineari, ma occorre tener conto che è strumentale
alla politica contrattuale: il suo messaggio è volto a rafforzare
le resistenze alle richieste dei metalmeccanici tedeschi che, se
accolte, rischierebbero di trasmettersi a tutta lEuropa delleuro,
consolidando in questo modo uninflazione che, essendo determinata
da cause contingenti, potrebbe essere invece rapidamente superata.
E la vecchia politica della Bundesbank, molto permissiva verso
il governo, ma molto attiva in favore di un contenimento dei salari.
Ora, però, cè una differenza: a motivo della
moneta unica, allatteggiamento restrittivo sui salari deve
unire quello ugualmente restrittivo sui bilanci pubblici, finendo
così per svolgere unazione frenante che si avverte
non solo nellesiguità dei tassi di crescita europei,
ma soprattutto nella progressiva subordinazione del clima economico
europeo a quello degli Stati Uniti. Lopposto dellaffrancamento
delleconomia europea da quella americana, che era tra le motivazioni
salienti dellUnione monetaria.
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