Settembre 2002

L’EUROPA UTILE

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Il sogno e i mercanti
Mario Pinzauti  
 
 

 

 

 

 

Ma, più di tutto,
ha influito
il crepuscolo
degli ideali,
di tutti gli ideali, compreso quello
europeistico.

 

E’ pronto, per i nostri lettori, un altro elenco di iniziative che l’Europa utile, amica dei suoi 376 milioni di cittadini, ha recentemente messo in atto o sta preparando. Riguarda, tra l’altro, un progetto per lo sviluppo delle biotecnologie, l’istituzione di un passaporto della salute, l’imponente insieme dei programmi per la cultura.
Tra poco, rapidamente, pur senza trascurare i dati essenziali, vedremo insieme questo elenco. E non mancheremo – come facciamo ogni volta che su questa Rivista ci occupiamo dell’Europa utile – di esprimere la nostra approvazione e di sollecitare la vostra. E’ giusto e doveroso di fronte a una serie di atti che stanno modificando – e in meglio – la nostra vita. Com’è però anche giusto e doveroso non chiudere né occhi né bocca di fronte a un aspetto, questo purtroppo in buona parte negativo, dell’attività europea: quello politico.
Già, cari lettori, proprio così. Mentre l’Europa utile procede di buona andatura, a volte corre, l’Europa politica ha il fiatone, trascina le gambe, ogni tanto si ferma, perde fiducia e convinzione. Detto con una sentenza fatta di tre parole: è in crisi. In una brutta crisi, aggiungiamo, guardando i fatti. Talmente brutta che potrebbe, nel giro di qualche anno, far sbiadire prima e poi cancellare l’esaltante prospettiva degli Stati Uniti d’Europa proposta da Carlo Cattaneo nel 1848, rilanciata nel 1941 da Altiero Spinelli e dagli altri due autori del “Manifesto di Ventotene” (Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi), reclamata con impazienza nel 1945 dai giovani federalisti francesi e tedeschi (tra loro c’era il futuro cancelliere Helmut Kohl), dichiarata non solo possibile ma indispensabile e urgente dai cosiddetti “padri fondatori” del processo d’integrazione europea, cioè Monnet, Schuman, Adenauer, Spaak, De Gasperi, Martino.
Qualcuno tra voi si chiederà e ci chiederà se non c’è un eccesso di allarmismo nella nostra analisi. Nei suoi cinquantadue anni di storia (cominciata il 9 maggio del 1950, con l’appello dell’allora ministro degli Esteri della Francia, Schuman, all’allora cancelliere della Germania, Adenauer, per la messa in comune delle risorse di carbone e acciaio dei due Paesi), l’integrazione europea ha ottenuto risultati che, nell’insieme, costituiscono una rivoluzione epocale senza precedenti. Su un territorio dove, per secoli e millenni, i popoli si sono confrontati con guerre di sterminio, ora, da oltre cinquant’anni, c’è una pace lunga e sicura. Accordi di collaborazione economica, commerciale, culturale, hanno dato vita a una comunità che, nata con sei Paesi (nel ‘57, con la firma dei trattati di Roma), oggi ne comprende 15 e si prepara ad accoglierne, nel giro di pochissimi anni, altri 12, forse 13 (con la Turchia), forse, successivamente, altri ancora (di recente, come si ricorderà, il presidente del Consiglio ha ipotizzato che perfino la Russia possa essere accolta nell’Unione).
Dodici degli Stati membri dell’Europa integrata hanno, da quest’anno, una moneta comune, l’euro. Altri l’adotteranno in seguito. L’istituzione del Mercato Unico, nel ‘93, ha abolito le frontiere doganali, ha stabilito la libertà di lavorare, risiedere, studiare in un qualsiasi Paese dell’Unione. Gli accordi di Schengen hanno eliminato o ridotto (secondo i casi e secondo i Paesi) i controlli dei passaporti o di altri documenti d’identità al passaggio tra una frontiera e l’altra.
Tutto questo – e il molto altro qui non menzionato per ragioni di spazio – è forse poco? Certamente no, è tanto, tantissimo. Ma in questo tantissimo manca la realizzazione del sogno che molti anni fa indusse molti (noi compresi) a sposare e sostenere con grandi entusiasmi la causa europea; il sogno della nascita di una federazione di Stati che all’interno e all’esterno dell’Europa esprima una politica comune e che, usando tale politica, lavori per risolvere i suoi problemi e quelli del mondo. Appunto gli Stati Uniti d’Europa chiesti da Cattaneo, da Spinelli-Colorni-Rossi, dai “padri fondatori”, anche da tutti noi che ci sentiamo europeisti.

«Costruire una società democratica europea non significa costruire un superstato europeo, significa costruire una società in cui si diventa europei attraverso l’esercizio dei diritti e dei doveri della cittadinanza europea. Quello che proponiamo non è uno Stato con un governo europeo. Proponiamo un’unione di popoli e di Paesi che sia in grado di proteggere meglio i cittadini e sia in grado di garantire i loro interessi in settori nei quali nessun Paese dispone di un potere sufficiente»: ecco, nelle parole riportate tra virgolette, la conferma della crisi del sogno federalista. Sono parole di Romano Prodi, presidente della Commissione europea. Sono state pronunciate il 22 maggio, in un’occasione in cui il sogno federalista, se avesse ancora forza, sarebbe stato come minimo menzionato.
Le dichiarazioni di Prodi infatti illustravano il Progetto per l’Unione europea, documento con cui la Commissione intende dare un contributo di osservazioni e proposte alla Convenzione europea, l’Assemblea al lavoro dal 28 febbraio per delineare il futuro dell’Unione. Bene, anzi male: in quelle parole l’ipotesi federalista non c’era. Come non c’era nel Progetto della Commissione. E neppure, almeno finora, a quanto risulta, nel dibattito che si sta sviluppando in seno alla Convenzione tra i rappresentanti dei governi, dei parlamenti nazionali e delle istituzioni europee.
In queste e altre sedi, oggi e già da qualche tempo, il tema è addirittura ignorato mentre si fanno sempre più frequenti le levate di scudi contro i cosiddetti superpoteri di Bruxelles – la Commissione e il Consiglio dei Ministri – e le rivendicazioni del diritto dei vari Stati a mantenere intatta la loro sovranità.
Nessun dubbio, dunque: alcuni, anzi molti, si stanno impegnando per rimettere e rinchiudere in un cassetto il sogno degli Stati Uniti d’Europa.
E’ la crisi che Altiero Spinelli, il più appassionato, assieme al francese Jean Monnet, tra i crociati dell’europeismo, aveva già temuto una ventina d’anni fa, quando aveva denunciato il rischio che l’integrazione avesse, come traguardo finale, «l’Europa dei mercanti», un’Europa efficace, autorevole sul piano economico, attenta e attiva nella tutela dell’interesse degli Stati, delle imprese e anche dei cittadini e tuttavia politicamente debole e disinteressata.
Il rischio si sta ora avverando, peraltro dopo essere stato annunciato già da diversi anni. Fin dai suoi primi vagiti (nel 1954, con il no de ll’Assemblea nazionale francese al progetto della CED, la Comunità Europea di Difesa) l’Europa integrata ha rifiutato di darsi un esercito comune.
In tempi più recenti, nel 1993, con l’entrata in vigore del trattato di Maastricht (che istituisce l’Unione europea), si è inventata la PESC, la politica estera e di sicurezza comune, senza riuscire però a farla passare dalle parole ai fatti, salvo che per la nomina del responsabile del nuovo organismo (lo spagnolo Solana). Nei Balcani prima e nel Medio Oriente poi la PESC è stata solo una vetrina di diversità europee in materia di politica estera.
Tutto questo era ed è più che abbastanza per far passare di moda i discorsi, i più prudenti compresi, su un futuro federalista per l’Europa. Perché è avvenuto? Tante sono le possibili risposte. Hanno pesato gli egoismi e le vanità, sia nazionali, sia dei partiti, sia dei singoli leader. Hanno pesato anche i cambiamenti politici che si sono verificati negli ultimi decenni nella gran parte dei Paesi europei. La crescita della famiglia comunitaria – dai 6 Paesi del ‘58 ai 15 di oggi – ha messo a confronto realtà ed esigenze lontanissime le une dalle altre, talvolta contrastanti. Ma più di tutto, almeno a nostro parere, ha influito il crepuscolo degli ideali, di tutti gli ideali, compreso quello europeistico. Per molti, anche tra coloro che per anni lo hanno coltivato con passione, il sogno degli Stati Uniti d’Europa è diventato vecchio, non più attuale.
Diversa è stata ed è la sorte dell’Europa dei mercanti paventata da Spinelli, l’Europa che ha prodotto la moneta comune, il Mercato Unico, anche le tante iniziative a favore dei suoi cittadini. Quest’Europa ha messo e continua a mettere al suo attivo molti e importanti successi. E’ il caso di rammaricarsene? Non sarebbe giusto.
I successi di quest’Europa un po’ bottegaia – o “utile”, come noi preferiamo chiamarla – sono anche nostri successi. Hanno migliorato la nostra vita, miglioreranno quella dei nostri figli. Lo conferma l’elenco di recenti iniziative di cui, all’inizio, abbiamo dato i titoli. L’Unione si prepara a spendere in alcuni anni la rispettabilissima cifra di 2.150 miliardi di euro per lo sviluppo della biotecnologia e delle scienze biologiche. In questo settore sono impegnate, nell’Unione, 1.570 imprese. Già ora la biotecnologia fornisce ai cittadini europei un buon numero di farmaci di sicura efficacia e a prezzi contenuti. Rende più sani e gustosi molti alimenti. Riduce i danni ambientali provocati dai fertilizzanti. In prospettiva, offre nuove possibilità d’intervento nella lotta alla fame, alla denutrizione, alla povertà.
I molti miliardi di euro che l’Unione comincerà a spendere presto, a partire dal 2003, per la biotecnologia, costituiscono un investimento per accrescere e migliorare il benessere e la qualità della nostra vita. Come lo sono, per altri versi, le iniziative europee per la cultura. Il programma “Cultura 2000”, le centinaia di manifestazioni per l’anno europeo delle lingue (il 2001), le centinaia e centinaia di spettacoli, mostre, dibattiti che si svolgono nelle più importanti città d’arte europee, la promozione del cinema e della televisione prodotti nell’Unione, il restauro di vecchi film, la collaborazione tra musei e università dei 15 Paesi: tutto questo e molto ancora avviene con la collaborazione e il sostegno dell’Europa comunitaria, ottenendo, tra l’altro, di ridurre i rischi di disoccupazione per i 7 milioni di uomini e donne che, nell’Unione, sono impegnati in attività culturali.
Non è positivo e importante? E non lo è il passaporto della salute che tra qualche anno, entro il 2005, assicurerà a tutti noi piena assistenza medica, ospedaliera e farmaceutica in ogni Paese dell’Unione europea? Certamente lo è. E lo sono i tanti altri benefici che l’Europa utile offre ai suoi cittadini: come, da qualche tempo, documentiamo sulla nostra Rivista.

Quest’Europa, l’Europa utile, pur dando spazio ai mercanti, merita dunque non rimproveri ma consensi, talvolta perfino applausi. Per senso di giustizia e di obiettività è d’obbligo riconoscerlo, pur senza negare, nemmeno nascondere la sofferenza per il destino cui sembra andare incontro l’Europa dei sogni giovanili di tanti di noi, quella politica, oggi apparentemente declassata da sogno ad utopia: speriamo non definitivamente.

   
   
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