Settembre 2002

CONTRADDITTORIO

Indietro
Sostenere Maastricht
Tommaso Padoa-Schioppa Membro dell’Executive Board della Banca centrale europea
 
 

 

 

 

 

Il Patto è uno
dei migliori alleati
del ministro
dell’Economia;
il giorno in cui non ci fosse più, la sua vita diventerebbe più difficile.

 

Il Patto di Stabilità non è morto e non va cambiato. Come italiano, vengo dall’esperienza di una Costituzione che conteneva una regola ferrea, voluta da Luigi Einaudi: nessuna spesa poteva essere approvata senza copertura. Ho vissuto in prima persona il disfacimento di questa disciplina negli anni Settanta e Ottanta, quando si è arrivati al punto che la stessa Corte costituzionale sostenne che non violava la norma indicare come forma di copertura il ricorso al debito. Questo, per dire che perfino una regola ottima come quella di Einaudi si è disgregata e poi si è ritornati alla disciplina soltanto negli anni Novanta. Che le regole di bilancio stiano strette, e che ci sia inclinazione a ribellarsi, è naturale. Io non prendo questi segni di fastidio come una debolezza del Patto, ma come sintomo dell’inevitabile attrito tra la regola e il desiderio di avere mano libera.
Il Patto non è una norma di trattato. Dunque, alla domanda se si può cambiare, ove i Paesi membri decidano di farlo, la risposta è sì: è tecnicamente possibile. Se questo avverrà oppure no, dipenderà dalla valutazione complessiva dei costi e dei benefici che verrà fatta. I benefici dello spendere di più sono allettanti nel breve periodo. Però possono essere molto più alti i costi di uno squilibrio dell’economia e della perdita di reputazione sui mercati.
Allora: in quasi ogni Paese il ministro dell’Economia deve dire di no ai ministri della spesa che chiedono più spazio. Il Patto è uno dei migliori alleati del ministro dell’Economia: il giorno in cui non ci fosse più, la sua vita diventerebbe più difficile. Egli deve lamentarsi del Patto, ma non per questo è detto che convenga romperlo. Mi auguro che il risultato di queste tensioni non sia la modifica degli impegni presi per il 2003: l’Italia ha un debito pubblico che nessuno degli altri Paesi ha.
Certo, il passaggio dalle promesse elettorali alle azioni di governo è difficile per il vincitore, sia esso di destra o di sinistra. Più nuovi governi ci sono in giro, più la tentazione di sottrarsi alle regole ereditate rischia di essere diffusa. L’avvento della destra in Europa dovrebbe portare maggiore sensibilità all’equilibrio dei conti. Ma la divisione fra rigore e assistenzialismo, fra accettazione della disciplina del mercato e inclinazione alle istanze sociali passa sia all’interno della sinistra sia della destra. Quello che in realtà pesa, è che verso la Commissione europea i governi diano segni di fastidio, come del resto accade da quarant’anni, ma non mi sembra che ciò abbia nociuto alla salute.
Ora, tra i partner europei sembra far breccia un espediente: togliere dal calcolo del deficit le spese per investimenti. Soluzione, questa, già esaminata all’epoca della costituzione del Patto, e scartata, come quella di ricalcolare i saldi di bilancio aggiustati secondo la condizione ciclica. Si è preferito attenersi a cifre visibili a tutti e oggettive, non frutto di elaborazioni statistiche. Ma è anche vero che la procedura dei ministri delle Finanze permette già di tenere conto sia di un’eventuale recessione sia delle spese per investimenti pubblici: argomenti che si possono far valere nell’interpretazione politica degli andamenti di finanza pubblica.
La difficoltà che alcuni Paesi trovano sta nel compiere la traversata dalla situazione attuale all’altra parte del fiume, verso il pareggio di bilancio o il surplus. Otto Paesi sono già arrivati al di là del fiume, quattro no. Di questi, Germania e Portogallo sono in una situazione delicata, per cui è scattato il meccanismo di preallarme; gli altri due, Francia e Italia, devono completare il guado. Ma nessuno ha chiesto di cambiare tabella di marcia. In tutti ha prevalso il giudizio che violare gli impegni avrebbe fatto più male che bene. Non vi è alcun motivo per modificare questo giudizio. Tanto più che il 2002 sarà un anno di ripresa della crescita.
Oltre tutto, secondo la Banca centrale europea il 2002, che era partito con crescita zero, finirà con un tasso vicino alla crescita potenziale europea, cioè intorno al 2 o 2 e qualcosa per cento. La media sarà una cifra intermedia. Più precisi di così è difficile essere. E poi Germania e Italia sono state poco dinamiche negli ultimi anni: la crescita economica in Eurolandia dipende molto da questi due Paesi. Ma non è questione di stimoli macroeconomici tradizionali, di politica monetaria o di bilancio: è questione di mancanza di flessibilità del sistema economico, sia a Berlino come a Roma, come anche in altri Paesi. E non intendo solo la flessibilità del lavoro, ma anche quella delle strutture amministrative, del sistema di distribuzione, nella concorrenza, e via dicendo, oltre a un’ulteriore correzione da fare nel sistema del welfare, che prima si fa, meglio sarà.
Negli ultimi dieci anni, la finanza pubblica italiana ha camminato verso il risanamento, sia a livello centrale che locale. Ora c’è un nuovo test. Ma certo i pericoli esistono. La discesa dell’inflazione sotto il 2 per cento sta prendendo più tempo di quanto prevedessimo qualche mese fa. Quindi, stiamo attenti. E andiamo avanti.

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000