Settembre 2002

LE OCCASIONI STORICHE

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Sei sfide per il futuro dell’Europa
Mabel  
 
 

 

 

 

 

Occorre volere
e decidere le poche riforme istituzionali necessarie
alla creazione di
un governo europeo
che sia davvero
efficace, legittimo,
autorevole,
residuale.

 

Il futuro dell’Europa possiamo disegnarlo e prepararlo, non conoscerlo. La nostra storia di domani non è ancora scritta. La costruzione europea è oggi a rischio proprio per il suo successo: il benessere economico senza precedenti, la pace interna durata mezzo secolo hanno attenuato agli occhi dei cittadini europei la percezione dei pericoli che minacciano il pianeta, e noi con esso. Il mondo – dal Medio Oriente all’Africa, dall’America Latina all’Asia – ha invece un crescente bisogno dell’Europa come soggetto politico, con il suo patrimonio ineguagliato di valori e di dolori, di prospettive planetarie e di senso del limite.
I cittadini europei hanno compreso da tempo, più chiaramente di tanta parte delle classi politiche nazionali, che una difesa comune e una politica estera comune dell’Europa unita non tolgono nulla agli Stati, ma significano il recupero di una sovranità, dunque di una dignità collettiva e individuale, che ormai a livello nazionale semplicemente non esiste più.
L’alleanza con gli Stati Uniti non può bastare. Una civiltà che non è in grado di decidere autonomamente la propria linea d’azione e di assicurare con le sue forze la propria sicurezza è destinata al tramonto. E soltanto l’Europa unita potrà esprimere la volontà e la forza di dotare le organizzazioni internazionali e soprattutto l’Onu, debitamente riformata, dei mezzi e delle procedure per evitare la guerra, per garantire la pace e per rafforzare le istituzioni e le azioni necessarie alla sicurezza e al benessere dell’umanità. La costruzione europea, nata nelle crisi, può morire nelle crisi. Solo il suo completamento potrà far sì che l’obiettivo irrinunciabile dell’allargamento non comporti l’involuzione dell’Unione riducendola ad una semplice zona di libero scambio.
Ciò che manca al completamento è meno di ciò che è stato realizzato sinora: occorre però volere e decidere le poche riforme istituzionali necessarie alla creazione di un governo europeo che sia davvero efficace, legittimo, autorevole, residuale. Nel pieno rispetto delle diversità nazionali e regionali che sono una grande ricchezza della nostra civiltà.

Punti fermi della riforma dovrebbero essere: a) un quadro costituzionale unitario dell’Unione; b) la rimozione del potere di veto (solo chi accetta di venire messo in minoranza accetta davvero l’Unione); c) un’unica voce dell’Europa in politica estera, nella sicurezza, nella difesa e negli organismi internazionali; d) un diverso rapporto istituzionale tra Consiglio, Commissione e Parlamento europeo, nel segno della democrazia e della distinzione dei poteri e delle funzioni; e) l’implementazione effettiva dei principii di sussidiarietà e proporzionalità; f) la disponibilità a procedere sulla via dell’Unione anche senza la partecipazione di tutti gli Stati membri, pur nel rispetto dell’acquis communautaire.
L’istituzione della Convenzione è il sintomo chiaro di una crisi istituzionale dell’Unione in atto da anni, per la quale i governi da soli non sono in grado di individuare i rimedi. Ciò non deve sorprendere: perché l’impresa di creare un’unione di Stati nazionali attraverso il consenso – anziché con la guerra o con l’unione dinastica – è senza precedenti; e perché la cessione spontanea di poteri reali o anche solo nominali da parte di uno Stato è un evento “contro natura” nell’ottica tradizionale della politica.
La Convenzione è l’occasione storica per far raggiungere all’Unione europea lo stadio della irreversibilità. La composizione della Convenzione e la sua radicata legittimazione popolare potranno consentire di raggiungere gli obiettivi voluti se i suoi membri si porranno nella prospettiva di disegnare la costituzione europea per i propri figli e nipoti, cioè per i futuri cittadini europei. Se il progetto che uscirà sarà di alto profilo, è verosimile che la Conferenza intergovernativa decida di farlo proprio senza deformarlo: approvandolo, ove necessario, anche a maggioranza. Nessuno potrà costringere uno Stato europeo ad essere membro di una vera unione, ma nessuno Stato dovrà impedire agli altri Stati di realizzarla.
A questo fine sarà cruciale il ruolo della Francia, sinora restia a compiere il passo decisivo. Ma per convincere la Francia è indispensabile un’azione congiunta di Germania e Italia. Né va sottovalutato il ruolo potenzialmente risolutivo degli individui, anche di un singolo uomo (si pensi a Monnet, a Spinelli, a Delors, a Kohl), in un’assemblea quale la Convenzione, ove il confronto sarà duro e serrato.
Il tempo si è fatto breve. L’accelerazione impressionante del corso storico, le profonde trasformazioni demografiche, politiche e sociali in atto nel mondo, le drammatiche vicende internazionali, le guerre attuali e potenziali – ma anche l’eclissi della memoria storica delle tragedie europee del secolo scorso e la miopia di molti – sono fattori di crisi che mettono a rischio l’impresa, ovunque ammirata fuori d’Europa, dell’integrazione politica ed economica del nostro continente.
Il disegno dell’Unione va completato ora. Domani potrebbe essere tardi. Vorrei ricordare quanto scriveva con sorprendente preveggenza Luigi Einaudi in un articolo sugli Stati Uniti d’Europa nel lontano agosto del 1897: «Già i sei ministri degli Esteri delle grandi potenze si vanno ogni giorno più abituando, spinti dalla pressione degli avvenimenti, ad agire insieme, quasi componessero un gabinetto europeo. Finora le deliberazioni del gabinetto furono regolate dalla norma del liberum veto imperante nell’antico Stato polacco. Da questo stadio imperfetto in cui una sola delle sei potenze con la sua opposizione può rimandare i piani accettati da tutte le altre, si giungerà a poco a poco ad un punto in cui la maggioranza potrà imporsi alla minoranza e questa ne accetterà i deliberati senza ricorrere all’ultima ratio della guerra. In tal modo avvengono le grandi e durevoli creazioni storiche».

Ma finora è stato un passo del gambero
g.b.

Fino a poco tempo fa, la direzione sembrava quella auspicata dagli europeisti: su questioni come i Balcani, la Macedonia, lo Scudo stellare o il protocollo di Kyoto, l’Unione europea pareva sempre più in grado di parlare con una voce sola. E’ d’altra parte logico che le competenze militari e diplomatiche tendano ad accentrarsi: ciò garantisce infatti l’efficienza delle maggiori dimensioni e il consenso di un’opinione pubblica che vede nelle aspirazioni di pace il fondamento dell’iniziativa europea. Con questi piani l’Europa si preparava a disporre di una forza di reazione rapida di 60 mila uomini entro il 2003 e a recuperare il ritardo tecnologico delle proprie forze armate.
La crisi dell’11 settembre ha messo in luce alcune ambiguità che fanno capo in particolare al ruolo, peraltro non comunitario, della politica estera europea. La lentezza di decisione e la scarsa legittimazione hanno dato la sensazione che l’Europa sia sempre impegnata a prepararsi per “la prossima crisi”, ma mai a risolvere i problemi urgenti.
In questo quadro si sono risvegliati gli istinti nazionali dell’Inghilterra, della Francia, della Germania. Quest’ultima ha parlato di un «nuovo ruolo protagonista di politica estera e della difesa della Germania», scordandosi per la prima volta (negli ultimi cinquantasei anni) di aggiungere «nell’ambito dell’Europa». Londra ha ritrovato ragione del proprio ruolo di interlocutrice privilegiata degli Stati Uniti. Parigi, a cui l’Europa sta a cuore tanto da aver sabotato gli ultimi due vertici, ha visto l’opportunità di sollevare lo stendardo francese anche per avvantaggiarsi sotto il profilo della politica interna. Come dimostra in tutt’altro ambito il dibattito sul Patto di Stabilità, rivolto soltanto a garantire margini opportunistici ai governi nazionali, l’istinto “domestico” dei leader europei è ancor molto vivo. Ha portato risposte fortunatamente utili a sostenere gli Stati Uniti, ad esempio, nell’impresa afghana, ma purtroppo controproducenti a sostenere l’Europa.
In questo spirito, (altro esempio), escludere l’Italia (com’è accaduto nell’incontro esclusivo tra Francia, Germania e Inghilterra, un’ora prima del vertice dei Quindici di Gand) è una scelta perversa ma coerente, essendo il nostro il Paese più disponibile a rinunce di sovranità nazionale a favore del progetto europeo. Sono queste rinunce di sovranità nazionale, d’altronde, il vero, autentico insegnamento di pace che l’Unione europea ha sviluppato, dopo aver vissuto la guerra sul proprio territorio e sulla propria pelle. Senza questo messaggio, resta l’armamentario dei vecchi Stati nazionali, il cui fallimento è legato proprio alle loro ambizioni belliche e di egemonia.

   
   
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