Settembre 2002

SPAZIO ALLE REGOLE

Indietro
In Europa con le imprese
G. Br.  
 
 

 

 

 

 

La Carta di Nizza costituisce un’ottima premessa affinché
la Costituzione
europea traduca sul piano istituzionale
i diritti soggettivi
di intrapresa.

 

Tutti ormai dicono che in Europa e in Italia servono “riforme strutturali”. Di recente l’hanno ripetuto in molti, dalla Banca centrale europea al Fondo monetario internazionale. Vi sono alcune differenze tra ciò che è stato affermato a Francoforte, a Washington, a Parma. Ma c’è molto di comune, ed è utile sottolinearlo, proprio per capire le priorità che dovrebbe darsi il nostro Parlamento nei prossimi anni.
Tre aspetti meritano in particolare di essere chiariti. Anzitutto, si parla di “riforme” e non di “politiche”. In altre parole, ciò che dobbiamo cambiare sono soprattutto le regole di funzionamento del sistema, e non soltanto le politiche di governo.
Ormai siamo tutti convinti che è un errore, ed è anche una gran perdita di tempo, avere regole sbagliate che richiedono di essere poi continuamente corrette dalle politiche del governo. Si fa prima a migliorare le regole, in modo che l’ottimizzato funzionamento del sistema non richieda più continui interventi correttivi. Diciamo che deve lavorare molto il Parlamento, perché abbia poi meno da fare il governo.
E’ un’esigenza che vale assai nel caso dell’Italia – perché noi abbiamo tante regole, molte delle quali vecchie e sbagliate da cambiare – ma in proporzione vale anche per gli altri Paesi europei. I Paesi anglosassoni, che con Thatcher e Reagan hanno già conosciuto anni fa una stagione molto liberalizzante, oggi hanno meno da fare: perché possiedono regole più recenti e meno invasive.
Un’altra osservazione, più di merito, riguarda il contenuto delle regole stesse: la priorità è far funzionare bene i mercati, questi essendo il meccanismo che abbiamo per selezionare qualità dei prodotti e loro prezzi. Molte delle nostre regole – soprattutto quelle più vecchie, ma ciò vale anche per molta legislazione degli anni scorsi – i mercati semplicemente le ignorano. Come ignorano che ovvie protagoniste ne sono le imprese, realtà alla base di ogni produzione e suo progresso. Pensare che il Paese cresca di più perché lo vuole il governo è la più facile delle illusioni. Ragionare sui problemi, sulle opportunità e sulle condizioni di successo delle imprese e del Paese è sempre necessario. Chi lo trascura, così come chi ritiene che basti predicare il liberismo senza garantire anche l’equità, ci fa soltanto perdere del tempo. L’ultima osservazione, importante perché essenziale per l’Europa che resta da costruire, riguarda i criteri di scelta. Come siamo sicuri che ciò che è europeo nasca dalla selezione del meglio di ciascun Paese? Questo, e non altro, è il criterio di successo dell’Unione europea, ma non abbiamo ancora iniziato a farlo in modo sistematico. Anzi, stiamo ancora impedendolo in molti settori, quasi ragionando che prima di fare l’Europa sia ancora necessario... fare l’Italia (e lo stesso vale per gli amici francesi e tedeschi).
Non viene applaudito a caso il discorso che ricorda l’azione di freno delle “autorità centrali di vigilanza” volta a impedire che nascano vere banche europee. D’altra parte, lo Statuto della Banca centrale europea, perché modellato su quello della Bundesbank, non contempla un ruolo di vigilanza bancaria – né strutturale né prudenziale – a livello europeo. E le distanze tra i vari Paesi si stanno ampliando, visto che la Germania si appresta a seguire l’esempio inglese di un’unica autorità di vigilanza per tutti i servizi finanziari.
In questo campo, uno sforzo di maggiore integrazione è dunque urgente. Ma lo è anche in tutti i casi in cui – nonostante l’euro – le singole autorità nazionali continuano a fare giochi che, non essendo “cooperativi”, hanno somma zero: uno guadagna ciò che un altro perde. O in quei casi in cui le riforme si fanno imitando gli altri Paesi, senza però averle capite. Pensiamo all’odierno dibattito sulla riforma universitaria, dove c’è chi adesso dice che tre anni per giurisprudenza non bastano, e intanto 2.600 giovani diventano avvocati a Catanzaro. Ci sarà mai un ministro che proverà ad applicare l’art. 34 della Costituzione, che dice che all’università ci devono andare i giovani “capaci e meritevoli”? E quando mai destra e sinistra si confronteranno su come dare un’impostazione meritocratica al nostro intero sistema educativo?
In conclusione, l’avvio dell’euro è stato un successo “meritato” dall’Italia col ritorno alla normalità nel campo della stabilità monetaria e del bilancio pubblico. In ambedue questi campi, molto è stato già fatto e dovrebbe bastare proseguire sulla strada tracciata con un po’ meno polemiche.
Dove moltissimo resta da fare, e non abbiamo ancora neppure iniziato, è nel campo delle riforme grazie alle quali l’euro, cioè il grande mercato europeo, garantirà l’aumento di reddito e di benessere che dobbiamo ai nostri figli e nipoti.

L’Europa unita ha rappresentato sin dall’inizio un fattore di grandissima importanza per il libero mercato. Le “Quattro libertà” stabilite nel Trattato di Roma (di movimento delle persone, dei beni, dei capitali, dei servizi) sono state alla base della creazione del mercato unico europeo, senza il quale il nostro continente avrebbe conosciuto un declino inarrestabile.
Ma l’Europa ha rappresentato anche un elemento fondamentale per lo sviluppo di uno dei fattori che compongono il libero mercato: l’impresa.
Lo si può comprendere già solo sul piano giuridico. Se si guarda alla nostra Costituzione, si può vedere come l’impresa vi sia del tutto assente. Il Titolo III, dedicato ai rapporti economici, non tutela né l’impresa né la libertà di intraprendere, mentre tutela sia il lavoro sia la libertà sindacale. L’impresa viene menzionata soltanto nell’art. 43, per affermare che la legge può stabilire l’esproprio e il trasferimento, «ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti, di determinate imprese o categorie di imprese». A essere tutelata è solo la proprietà in generale, e comunque con una riserva fortissima. La Costituzione afferma infatti che la legge deve determinarne «i limiti»stabiliti «allo scopo di assicurarne la funzione sociale».
Vi è una distanza abissale rispetto a come l’impresa è trattata nella Carta dei Diritti di Nizza. In questa, l’art. 16 stabilisce infatti che «è riconosciuta la libertà d’impresa, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali». A sua volta, l’art. 28 stabilisce che «i lavoratori e i datori di lavoro, o le rispettive organizzazioni, hanno, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali, il diritto di negoziare e di concludere contratti collettivi, ai livelli appropriati, e di ricorrere, in casi di conflitti di interessi, ad azioni collettive per la difesa dei loro interessi, compreso lo sciopero». Vi è quindi una perfetta simmetria di diritti – del tutto assente nella nostra Costituzione – tra l’associazionismo dei lavoratori e quello degli imprenditori. Il che significa che l’impresa non è considerata inferiore al lavoro.
La Carta di Nizza costituisce un’ottima premessa affinché la Costituzione europea che dovrà essere scritta e adottata in un orizzonte temporale non molto lontano traduca sul piano istituzionale i diritti soggettivi di intrapresa. Ovvero, che l’impresa venga considerata come un soggetto fondamentale dell’ordinamento economico e sociale europeo, in modo che le norme e le politiche dell’Unione non siano mai in contrasto con lo sviluppo dell’imprenditorialità e dell’impresa. Tutto questo è perfettamente coerente con i princìpi del libero mercato, e quindi non deve portare a credere che la “costituzione economica” dell’Unione europea debba adottare il modello neo-corporativistico e dirigistico che ancora oggi è così influente in Paesi come la Germania e la Francia, come dimostra la forte opposizione di questi Paesi alla liberalizzazione del mercato dell’energia, dell’automobile o delle banche. Al contrario, la sola maniera efficace di tutelare realmente l’impresa è di crearle un ambiente concorrenziale, che ne permetta uno sviluppo basato su efficienza e competitività.
Una Costituzione europea che riconosca il ruolo fondamentale dell’impresa sarà un fattore molto importante affinché anche le legislazioni e le politiche dei singoli Stati membri mutino in questa direzione. Ma nell’attesa che la Costituzione europea sia una realtà, è del tutto auspicabile che i diversi Paesi adottino politiche adeguate a quella autentica “costituzione materiale” dell’economia che è costituita dal mercato unico europeo. Perché il mercato unico europeo non può rappresentare un vincolo e un’opportunità soltanto per le imprese – che sono sottoposte ad una concorrenza molto più elevata – ma deve costituire un vincolo e un’opportunità anche per le altre parti sociali e finalmente per il legislatore, al quale spetta la decisione su quali norme adottare per il funzionamento del sistema economico nel senso più ampio del termine.
Se l’Europa ha un ruolo positivo, questo è di permettere ad ogni Paese di imparare dalle migliori esperienze degli altri. Alla competizione tra le imprese deve quindi corrispondere la competizione tra i diversi sistemi normativi, che spinga le parti sociali e il legislatore ad apportare quei cambiamenti necessari per garantire la prosperità in un mondo in cambiamento.
Questo è oggi il problema fondamentale del nostro sistema economico. Vi è un’asimmetria tra la disciplina che il mercato europeo e globale impone alle imprese, e l’insieme degli interessi, delle rendite di posizione, dei privilegi, che legislazioni e normative del passato continuano a garantire sia a piccoli gruppi di persone sia a strati più larghi della popolazione. Il risultato di questa situazione è un gioco a somma negativa, perché la perdita o la mancata crescita della competitività delle imprese equivale all’impossibilità di soddisfare le aspettative di prosperità non solo di chi è oggi perdente nel gioco redistributivo, ma anche di chi ne è beneficiario. Senza risorse i diritti legittimi si svuotano di contenuto, e neanche i privilegi restano a lungo tali.
Insomma, le imprese italiane imparano dalle imprese europee, ma il nostro sistema politico-sociale non impara altrettanto velocemente. Questa è una realtà che non si può continuare a ignorare in un Paese come l’Italia, nel quale tutti o quasi si proclamano europeisti convinti. E’ nell’interesse generale di tutti i cittadini cambiare al più presto.

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000