Settembre 2002

GUERRE FREDDE EUROPEE

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I giorni della risacca
a.b.  
 
 

 

 

 

 

Temibile,
il dilemma:
l’Europa diventerà una specie di super Svizzera o aspira
a diventare una
potenza, con unica
politica estera
e unica politica
di difesa?

 

Erano in molti ad attendersi che, con l’avvento della globalizzazione, in Europa si sarebbe affermato uno spirito di sovranazionalità: di fronte alla concorrenza non soltanto di natura economico-finanziaria di potenze vittoriose (come gli Stati Uniti), o in fase di riorganizzazione dopo le rottamazioni ideologiche (come l’ex Unione Sovietica), o in crescita potenziale (l’India, la Cina), il Vecchio Continente non avrebbe potuto che scegliere la via della più stretta coesione; e questa avrebbe dovuto passare necessariamente attraverso la cessione di quote di sovranità legislativa ad organismi non nazionali, ma, appunto, continentali. Era stato questo il patto nucleare dell’Europa dei Sei, che emerse da una constatazione elementare: gli orrori causati dal potere assoluto degli Stati-nazione andavano superati in virtù di una limitazione di quei poteri e di una progressiva delega di sovranità agli organi comuni, e superiori, di governo economico e politico. Ciò era reso possibile da una duplice strategia: della memoria, sulla quale fondare un sistema di valori condivisi; dell’autodisciplina, da attuare col ricorso sistematico, anche se parziale, alla sovranazionalità.
A mano a mano che si definiva la posta in gioco della guerra fredda Ovest-Est, il patto costitutivo dell’Europa comunitaria si caratterizzava per un triplice ripudio: del nazionalismo nazifascista, del totalitarismo marxista, delle dominazioni coloniali. In altri termini, la formula del diniego, prevalendo su quella affermativa, diventava consustanziale al processo di costruzione europea. L’idea di pacifica convivenza all’interno dei Sei, la forza centripeta esercitata sul resto d’Europa, l’esportazione del modello oltre i confini continentali, erano fondate su questo invalicabile non possumus riaffermato in Campidoglio, col Trattato di Roma.
A questo ordine di cose si erano assoggettati i Paesi che avevano vinto o perso il secondo conflitto mondiale. Ma si erano piegate soprattutto le nemiche totali di sempre, Francia e Germania. La Francia aveva deciso di mettere una pietra sopra la violazione del principio di convivenza, della propria integrità territoriale, dei diritti dell’uomo. La Germania aveva scelto di non recriminare sulle distruzioni vendicative di Dresda e di Colonia, oltre che sul punto più doloroso del dopoguerra: la deportazione di dieci milioni di tedeschi dai territori recuperati dai sovietici, dai polacchi, dai cecoslovacchi. Di questi dieci milioni, (di civili, si badi bene, non di militari), ben due milioni erano stati uccisi in modo brutale.
In centinaia di migliaia i tedeschi del Volga, dapprima nel ‘41, poi nel ‘45-‘46, erano stati deportati in Siberia e nell’Asia centrale; quelli scacciati dalla Polonia erano stati oltre sei milioni; quelli espulsi dalla Cecoslovacchia tre milioni e mezzo; dall’Ungheria e dalla Slovenia, centomila. Avevano trovato così applicazione spietata i famosi “Decreti Benes”, vale a dire le 143 leggi che nel ‘45-‘46 erano state volute dal presidente cecoslovacco per regolare la questione dei Sudeti.
Decreti di cui si è tornato a parlare anche ai nostri giorni: da parte di Praga, per un’iniziativa nazionalista che non ha ragion d’essere, dopo le generose aperture di Vaclav Havel, e soprattutto alla vigilia dell’ingresso della Repubblica Ceca in Europa; e da parte della Baviera, dell’Austria e dell’Ungheria, che furono nazionalità punite con una politica brutale di deportazioni, di spoliazioni e di privazioni di diritti.
Coniugando simultaneamente memoria e oblio, l’Europa dei Sei aveva cercato di superare il Male prodotto dai miti delle razze e dei confini inviolabili. Fino al giorno della caduta del Muro di Berlino, quando fu evidente che la sconfitta del totalitarismo marxista non venne vissuta né amministrata politicamente al modo della sconfitta del nazifascismo. La divaricazione ha poi finito col compromettere l’idea d’Europa voluta dai Padri Fondatori. I nuovi arrivati, infatti, non ritengono di dover rimettere in questione il loro bagaglio nazionale. Difendono l’ordine di Yalta, e dunque quello post-bellico, che hanno appreso nelle scuole di partito, avvelenando con insipienza le relazioni tra i popoli e mettendo a rischio il principio della sovranazionalità come diniego e superamento del pensiero nazional-totalitario e dei suoi orrori di ieri.
Allargare l’Unione europea ai Paesi dell’Est, in una situazione come questa, comporta non poche preoccupazioni. Non a caso c’è chi ricorda che proprio dalla Mitteleuropa sono partite nel secolo scorso due guerre mondiali. Qui si concentrava, e sembra tornare a concentrarsi, il maggior numero di sussulti nervosi e di atteggiamenti contraddittori. Qui le nazionalità confliggono in nome di una memoria che sintomaticamente non è temperata o riassorbita dall’oblio.
E’ una risacca che globalizza soltanto l’instabilità. Se negli anni Trenta il groviglio dei problemi era individuato nelle clausole di Versailles, oggi il nodo gordiano è identificato ancora una volta in un Trattato internazionale, quello di Potsdam. Nel primo caso, con conseguenze nefaste per l’Europa delle Nazioni; oggi, per l’Europa allargata.
Chi, in modo palese o carsico, continua a riproporre discriminazioni verso popolazioni europee diverse, è fuori dagli ordinamenti giuridici, dalle consuetudini e dall’esemplarità etica dell’Unione europea. E’ bene tenerlo presente, in vista delle decisioni da prendere nel non lontano 2004.
Ciò non toglie che, come sostiene il presidente dell’Istituto universitario europeo di Firenze, Yves Mény, l’Europa possa esimersi dal disegnare un certo numero di confini, cinque per l’esattezza, nell’ambito di una Comunità allargata e, possibilmente, più forte. L’obiettivo della politica democratica, infatti, può essere definito come quello di tracciare linee di demarcazione, affinché ciascuno possa compiere le proprie scelte in funzione di opzioni più o meno radicali. Al contrario, la caratteristica dei sistemi non democratici (a prescindere dalla loro natura) è proprio l’assenza o il rifiuto delle divergenze interne. Questo meccanismo di inclusione/esclusione, sottolinea Mény, funziona con altrettanta chiarezza sia nelle tribù primitive sia nelle monarchie assolute e nelle dittature. La politica democratica è invece l’arte di costruire frontiere che polarizzano le opinioni e le scelte: uno degli esempi più semplici e noti è la frattura sinistra/destra, ma le linee di divisione che attraversano le democrazie (e che spesso si sovrappongono in maniera molto complessa) sono multiple: religioso/laico/borghese/proletario, urbano/rurale, centro/periferia, interventisti/liberali.
Comunque, per il futuro di un’Unione europea saldamente consolidata, a quindici, o venticinque o addirittura ventisette partners, i confini prevedibili (auspicabili) sono:

1) Completare l’eliminazione delle frontiere interne e creare, invece, frontiere esterne. L’abbattimento delle frontiere interne è stato un obiettivo sempre dichiarato (e solo parzialmente realizzato). Occorre fare qualcosa di più. Per chiarire: la mobilità dei fattori produttivi è quasi totale, eccetto che per quei cittadini che si scontrano tuttora con parecchi ostacoli pratici nella vita quotidiana di europei (sistemi di protezione sociale, regimi fiscali, pensioni, ecc.). Ma è opportuno sopprimere anche le barriere interne legate ai sistemi di valori, alle culture nazionali o locali? In questo campo, è bene diffidare di tutte le forme di giacobinismo giuridico e politico, sia per motivi empirici (un Paese integrato come gli USA dimostra che questo processo non è incompatibile con una diversità/eterogeneità anche superiore rispetto a quella che esiste in Europa), sia per ragioni normative (la diversità/diversificazione costituisce lo stimolo migliore per la competizione e per il criterio di valutazione ideale).

2) Affrontare la questione dei confini esterni. Per ora, l’Unione è una sorta di open-ended process che richiama alla memoria quanto è accaduto negli Stati Uniti, che spinsero progressivamente le loro frontiere fino al Pacifico (l’epopea del West durò più o meno vent’anni), ma furono fermati a nord e a sud dal Canada e dal Messico. Visto che il “grande allargamento” dell’Unione sembra entrato nelle fasi finali, è il momento di porsi la domanda: – What’s next? Che cosa accadrà dopo? L’Unione sarà in grado di reggere dimensioni così grandi? E su quali basi, su quali criteri saranno definiti i confini futuri: di un’Europa storica, o geografica, oppure concepita come puro spazio economico o come progetto politico?

3) Altro tipo di frontiera, molto delicato, quello che separa le competenze dell’Unione da quelle degli Stati membri. Quelle comunitarie sono eccezionali e limitate a pochi settori (ad esempio, la pesca); quelle degli Stati sono ancora esclusive (difesa, politica estera, politica fiscale, istruzione, politiche sociali...), e ogni atto volto a limitarle è visto come un’espropriazione, con conseguenti venti di fronda, inizialmente da parte dei Länder tedeschi, poi da parte dei diversi Stati, non ultimo quello italiano. Il dibattito è legittimo e aperto, ma ad una conclusione si dovrà gradualmente pervenire.
4) Affrontare il problema delle relazioni tra democrazia e mercato. Come ha notato Altwater, «se la massima espressione della razionalità economica è la deregulation, la massima espressione della razionalità politica è la regolamentazione»: sarà quindi necessario definire i limiti e le sfere di influenza reciproca. Qual è la parte che deve rimanere affidata alla politica, ai cittadini, al voto, alle scelte ideologiche, ai valori non commerciali? E quale al mercato, ai produttori, ai consumatori e ai regolatori non politici?

5) Separare affari interni ed esterni. Nella prima versione della Comunità, gli Stati membri avevano mantenuto integralmente le prerogative esterne, tranne che in materia di commercio. In compenso, avevano ceduto numerosi elementi di sovranità, soprattutto in materia economica, mantenendo un nocciolo duro di Stato (polizia, sicurezza, giustizia, moneta). Dopo mezzo secolo, le carte si sono rimescolate: quel che consideravamo “interno” (ad esempio, l’immigrazione) tende a diventare esterno; e viceversa (come nel caso di una minaccia a un singolo Paese o un cambiamento politico radicale in un’area nazionale). Anche in questo campo vanno definiti i nuovi orizzonti dell’Unione: l’Europa sarà simile alla Germania degli anni Sessanta, «un gigante economico, ma un nano politico», con la conseguenza che le politiche estera e di difesa sarebbero al più coordinate, ma di fatto appannaggio dei singoli Stati? Cioè: diventerà una specie di “super Svizzera”? O aspira a diventare una “potenza”, con unica politica estera e unica politica di difesa? Temibile dilemma.

   
   
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