Settembre 2002

BUFERE A WALL STREET

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E se l’euro supera il dollaro?
Paul Samuelson Premio Nobel per l’Economia
 
 

 

 

 

 

Gli investitori
diffidano del mercato americano, ma sanno benissimo che
la locomotiva
resta questa, per la semplice ragione che al momento non
ce ne sono altre.

 

Arriveremo alla parità e si andrà anche oltre, tra euro e divisa americana, se non interverrà una correzione del clima di sfiducia nel mercato americano. La causa principale della debolezza del dollaro, infatti, è la questione morale.
In un certo senso, la fuga dal dollaro è una specie di voto all’America, perché c’è poco da illudersi: General Motors, Ibm, Microsoft non sono tanto diverse da Enron, Tyco, WorldCom, Xerox.
Si tratta di grandi conglomerati che potrebbero nascondere al proprio interno cosmesi di bilancio altrettanto devastanti, non per mancanza di fiducia nei confronti di queste specifiche aziende, ma perché ormai nessuno crede più all’onestà dei controllori.
In una situazione come questa, in cui i top manager realizzano profitti miliardari disfandosi delle proprie azioni cinque minuti prima della mezzanotte, mentre i piccoli risparmiatori, come nel caso Enron, restano imprigionati da una technicality e vedono sfumare tutti i propri risparmi senza poter vendere, è logico che la gente non abbia più voglia di investire a Wall Street.
Ma c’è un’altra causa importante della fuga dalla moneta statunitense. Il deficit della bilancia commerciale americana supera ormai il 4 per cento del Prodotto interno lordo e la regola generale dice che quando questo valore si avvicina al 5 per cento del Pil, la moneta locale tende a svalutarsi.
Ormai il ritmo degli acquisti americani all’estero è tale, che per finanziarlo abbiamo bisogno di un flusso di investimenti che superi il miliardo di dollari al giorno. Per innescare la svalutazione, gli investitori esteri non hanno nemmeno avuto bisogno di mettersi a vendere i loro asset in dollari; è stato sufficiente rallentare il ritmo degli investimenti. E in effetti risulta chiaro dai numeri che non stiamo perdendo capitali, semplicemente non ne arrivano abbastanza di nuovi. Si dice che i capitali che non giungono in America non vanno neanche in Europa, dove le Borse europee cadono, come quella di Wall Street. Per forza, qui non si tratta di una fuga verso qualcosa. In altre parole: gli investitori diffidano del mercato americano, ma sanno benissimo che la locomotiva resta questa, per la semplice ragione che al momento non ce ne sono altre abbastanza forti da tirare il mondo fuori dalla crisi.

Per ora, comunque, la crisi dei mercati è soprattutto psicologica. I fondamentali economici vanno avanti per la loro strada e la ripresa dell’economia americana rimane abbastanza robusta. Non continueremo certamente a crescere al ritmo del 5, 6 o oltre lo stesso 6 per cento, come nella prima parte dell’anno, ma ritengo che un aumento annuale del Prodotto interno lordo del 2-3 per cento sia plausibile, malgrado la crisi di Wall Street.
E già questo mi sembra un evento storico: in fondo abbiamo superato l’esplosione di una bolla gigantesca e di un attacco senza precedenti come quello dell’11 settembre, senza pagarne le conseguenze tradizionali, vale a dire il passaggio attraverso una durissima recessione. Certo, è anche la prima volta, dagli anni Venti, che i mercati continuano a cadere a ripresa già cominciata.
Ma l’importante è che il governo non si faccia prendere dal panico, come nel ‘29. Altrettanto certo è che da allora abbiamo imparato molte lezioni e la gente non è più così sprovveduta: se il governo dovesse fare delle stupidaggini, come fece Herbert Hoover, o come ha fatto il governo giapponese nel ‘90, gli americani lo manderebbero a casa.
Si sospetta, fra l’altro, che il governo americano stia orchestrando la caduta della divisa statunitense da dietro le quinte. Ebbene: so che si parla di un piano segreto del governo in questa direzione, ma io non ci credo. Non che il ministro del Tesoro si strappi i capelli per la discesa del dollaro, anzi. Sicuramente, il governo è ben felice di veder crescere la competitività delle imprese americane. Perché è ovvio che i primi a soffrire di questa situazione saranno l’Europa e il Giappone, le cui economie sono concentrate sulle esportazioni molto più della nostra.
Per compensare la perdita di clienti americani, le aziende europee dovranno rivolgersi alla domanda interna; ma non sarà semplice, perché, a differenza degli americani, gli europei si considerano innanzitutto lavoratori, e soltanto in secondo luogo consumatori.

   
   
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