Settembre 2002

IL MANCATO RISCATTO DELL’AFRICA

Indietro
Il suicidio del Continente Nero
Jean-Paul Ngoupandé Già Primo Ministro del Centroafrica, ora in esilio
 
 

Di fronte al Mezzogiorno d’Italia, uno scacchiere instabile, quello del Vicino Oriente, e un territorio continentale lacerato da malattie, corruzione, violenza tribale, con un unico nemico: se stesso. Ciò condiziona fortemente lo sviluppo delle relazioni fra l’Europa mediterranea e le “finestre di fronte”, mentre l’alibi della colonizzazione non è più credibile come alibi alla povertà e all’arretratezza di centinaia di milioni di persone.

 

Il discredito che colpisce gli africani non ha l’eguale nella storia contemporanea dell’umanità. Durante i secoli della tratta dei negri, eravamo senza alcun dubbio delle vittime. Oggi siamo noi stessi i principali becchini del nostro presente e del nostro futuro.
Alla fine dell’era coloniale disponevamo di apparati statali certo embrionali, ma che avevano il grande merito di assolvere efficacemente i compiti elementari che erano stati loro affidati: sicurezza, sanità pubblica, sistema scolastico nazionale, manutenzione delle vie di comunicazione. Oggi, nella maggior parte dei nostri Paesi, gli Stati sono liquefatti: le guardie pretoriane e le milizie politico-etniche hanno soppiantato l’esercito, la polizia e la gendarmeria si sono ridotte a ombra di se stesse. L’insicurezza è generalizzata, le nostre strade e le vie delle nostre città sono ridotte alla condizione di bassifondi.
La tragedia dell’Aids ci ricorda drammaticamente che con amministrazioni efficienti e responsabili avremmo potuto arginare questo flagello nella fase iniziale. Invece più di venti milioni di africani, in maggioranza giovani e quadri altamente addestrati, sono già stati strappati alla vita, vittime delle tergiversazioni dei nostri Stati e di un clima sociale deleterio e frivolo in cui si è dissolto il senso della responsabilità individuale e collettiva.
Le crisi politico-militari e le violenze di ogni specie, l’impoverimento degli Stati presi in ostaggio da consorterie predatrici, la propensione dei dirigenti a preoccuparsi essenzialmente della loro sicurezza e dei mezzi per conservare il potere: tutto ciò ha condotto un po’ dappertutto al naufragio di un settore così decisivo per il presente e il futuro come quello dell’istruzione.
L’insicurezza e il disordine generalizzato, la criminalizzazione strisciante di Stati sempre più controllati da sistemi mafiosi, le goffaggini amministrative e l’assenza di regole trasparenti – tutti fenomeni generati da una corruzione endemica – fanno sì che gli investitori privati non si affollino certo alle nostre porte. E anche i donatori pubblici ci considerano ormai pozzi senza fondo e casi di accanimento terapeutico.

Più di quarant’anni dopo l’ondata indipendentista degli anni Sessanta, non possiamo più continuare a imputare la responsabilità esclusiva delle nostre disgrazie al colonialismo, al neocolonialismo delle grandi potenze, ai bianchi, agli uomini d’affari stranieri, a chi più ne ha più ne metta. Occorre che accettiamo finalmente la realtà: i principali colpevoli siamo noi.
Lo slittamento dei nostri Paesi verso la violenza, il lassismo nella gestione degli affari pubblici, il saccheggio su grande scala, il rifiuto del riconoscimento reciproco da parte di etnie e regioni: tutto questo ha cause prevalentemente endogene. Ammetterlo sarà il punto di partenza della presa di coscienza, e dunque della saggezza.
Mi si potrà obiettare che questo significa liquidare troppo facilmente le responsabilità del mondo esterno. Ma sono quarant’anni che non facciamo altro (soprattutto noi, gli intellettuali) che lanciare accuse di questo tipo. Il problema è che oggi gli accusati non prestano più la minima attenzione alle nostre requisitorie, le quali, sia detto per inciso, sono discretamente invecchiate, perché il mondo di cui parliamo non è più il loro.

Al di là del Mediterraneo e dell’Atlantico, le nostre lamentele, il nostro gesticolare non interessano più a nessuno. La mia paura è in verità che ci stiamo sbagliando di pianeta. Dopo la fine del conflitto ideologico tra Est e Ovest, gli africani non costituiscono più una posta da guadagnare o da perdere, perché non pesano più nella nuova competizione, quella della conquista di mercati in espansione. L’1,5 per cento degli scambi commerciali mondiali (e il 40 per cento di questo 1,5% riguarda il Paese di Mandela): ecco ciò che rappresenta l’Africa subsahariana sul nuovo scacchiere del nostro pianeta.
In altre parole, noi non siamo niente, e non abbiamo voce in capitolo. Non è difficile rendersene conto, per poco che si presti attenzione alle preoccupazioni dei grandi decisori, ai flussi commerciali e ai centri d’interesse dei media.
In questo inizio del terzo millennio, esiste dunque per noi un’urgenza assoluta: è indispensabile che riflettiamo su che cosa noi, in prima persona, dobbiamo fare per voltare le spalle alla logica dell’autodistruzione, per tentare di reinserirci nell’economia mondiale e per cercare ad ogni costo di farla finita con la marginalizzazione.
Il primo segno che attendono da noi i rari uomini di buona volontà che si esprimono ancora in favore dell’Africa è che cominciamo finalmente a denunciare la radice della malattia africana: noi stessi, in altre parole i nostri dirigenti, le nostre élites, e anche le nostre popolazioni, la cui rassegnazione talvolta disarmante lascia il campo libero ai signori della guerra e offre un margine di manovra ai governi tribalisti e prevaricatori. Un principio di visibilità della nostra presa di coscienza deporrebbe a nostro favore e incoraggerebbe coloro i quali ritengono che non è ragionevole cancellare dal gioco mondiale più di 700 milioni di africani subsahariani.
In questo consiste infatti l’altra faccia del dibattito sull’Africa: nel senso che bisogna dare all’afro-pessimismo radicale. Col pretesto che esistono impedimenti che sono alimentati dagli stessi africani, e che creano problemi apparentemente insolubili, il punto di vista sempre più diffuso nei Paesi sviluppati è che si deve ignorare una volta per tutte il Continente Nero, rivelatosi congenitamente incapace di farsi carico di se stesso. Dunque, basta con l’Africa, essa è perduta per lo sviluppo, a tal punto che diventa problematica persino l’assistenza umanitaria, l’unica cosa che sia ancora possibile fare nel nostro Continente.
Incredibile miopia! L’Africa è contigua all’Europa: lo Stretto di Gibilterra misura una quindicina di chilometri, e circa duecento chilometri separano il Capo Bon dalla Sicilia. La decomposizione di un Continente così vicino non può non porre dei problemi a nord del Mediterraneo. L’11 settembre 2001 ci insegna che l’interdipendenza è più che mai la regola sul nostro pianeta, e che i problemi sono molto più condivisi di quanto generalmente si pensi. Non esistono più compartimenti stagni.
In occasione del vertice che ha organizzato a Dakar il 17 ottobre dello scorso anno, e che purtroppo non ha mobilitato molti dirigenti africani, il presidente Aboulaye Wade ha osservato, con una formula azzeccatissima, che l’Africa è diventata un grande imbuto attraverso il quale passa ogni sorta di traffici illeciti. Basta osservare la “sicurezza” nei nostri aeroporti e alle nostre frontiere terrestri e marittime, la facilità con cui stranieri poco raccomandabili possono procurarsi i nostri passaporti diplomatici, accompagnati da valigie altrettanto “diplomatiche” che servono a far transitare sottobanco diamanti, oro, valuta (anche falsa), droga e ogni specie di refurtiva.
Dunque, nulla da obiettare, quando i nostri amici francesi ci interpellano con franchezza sullo sgretolamento dei nostri Paesi, di cui siamo i principali responsabili. E’ bene che non abbiamo paura di dirci la verità in faccia. Il complesso del colonizzatore non ha più ragion d’essere: l’amicizia deve ormai nutrirsi di verità, comprese le verità sgradevoli.

I peggiori per noi sono quelli che giocano a lisciarci il pelo. La pacca sulla spalla è certamente un gesto amichevole, a condizione però che non ci rafforzi nell’idea infantile secondo la quale siamo le gentili e innocenti vittime di un complotto internazionale contro l’Africa. Non devono adularci. Quanto a noi, guadagneremo in credibilità a partire dal momento in cui saremo capaci di guardarci allo specchio, riconoscendo finalmente che tutto quel che ci accade è innanzitutto colpa nostra. Saremo allora più credibili, quando diremo a tutti coloro che considerano l’Africa un Continente perduto che hanno torto.
Essa è sicuramente in panne, ma decretare la sua definitiva uscita di scena non risolve alcun problema. Tra la condiscendenza, che significa disprezzo e riduzione a uno stato infantile, e l’abbandono mascherato, che è una forma della politica dello struzzo, c’è posto per un esame responsabile della crisi africana.
Un esame del genere non può non cominciare che prendendo le distanze dai luoghi comuni, e in particolare dalle generalizzazioni frettolose e dalle conclusioni radicali.

L’Africa è un continente. E’ il primo, elementare punto che occorre ricordare. Su cinquantatré Stati, ce ne devono pur essere due, tre o quattro disposti a imboccare la via della serietà. Soltanto un’osservazione attenta e non dogmatica permetterà di individuarli. E una volta trovatili, l’interesse dell’Africa, dell’Europa e del mondo esige che siano risolutamente sostenuti, rinunciando a quella politica dei finanziamenti a pioggia che non ha mai avviato un ciclo di sviluppo. Un appoggio deciso e massiccio accordato a Paesi che abbiano chiaramente manifestato la loro volontà di uscire dall’impasse mediante la serietà e il lavoro duro servirebbe da contro-esempio per i cattivi amministratori.
E’ d’altronde ciò che aveva preconizzato il presidente francese in occasione del XVI vertice che nel 1990 riunì i capi di Stato africani e quello francese. Non bisogna cadere nella trappola della concentrazione dell’attenzione sui soli signori della guerra. Oggi, infatti, per attirare gli occhi della comunità internazionale non è meglio essere un capo ribelle o un presidente sovvertitore, che non un amministratore serio e discreto?

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000