Settembre 2002

LE IMPRESE ITALIANE DOPO LISBONA

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L’economia della conoscenza
Manuel Rios Galante  
 
 

 

 

 

Toccherà agli
imprenditori trovare delle soluzioni
efficienti
che attraggano
gli investitori
e consentano una migliore governance delle imprese.

 

Secondo molti osservatori, gli imprenditori italiani non hanno nostalgia della vecchia politica industriale dirigista e creatrice di disastri, che trasferiva risorse alle aziende inette prelevandole da quelle competitive. Ma non sposano neanche la tesi opposta, secondo la quale l’unica politica industriale virtuosa è rappresentata da una buona politica economica. Quest’ultima era la richiesta avanzata dagli industriali fin dagli anni Settanta: gli imprenditori allo Stato chiedevano soprattutto di smettere di alimentare l’inflazione attraverso la spesa pubblica e di cessare di prendere tutto il capitale disponibile sul mercato a tassi rovinosi, spiazzando la loro domanda di finanza per investimenti.
Che non siano più queste le richieste prioritarie è un buon segno e misura il miglioramento conseguito dalla finanza pubblica. Ma c’è anche una maturazione sul versante imprenditoriale. Ci si rende conto che uno Stato contabilmente virtuoso non basta per competere al livello che l’Italia vorrebbe occupare a livello internazionale. Tallonati dalla crescita dei Paesi emergenti e a bassi salari, gli imprenditori italiani si accorgono, spesso guardando i loro concorrenti dei Paesi sviluppati, che è urgente innalzare la qualità dei prodotti esistenti e che alla lunga neppure questo è sufficiente; occorre sostituire almeno parzialmente il portafoglio dei prodotti e delle tecnologie.
Dal punto di vista aziendale, la sostituzione mira al conseguimento di vantaggi competitivi meglio difendibili e si attua iniettando nelle produzioni dosi crescenti di conoscenza scientifica e tecnologica. A livello di sistema, le conseguenze sono qualitative più ancora che quantitative. Lo sviluppo tende sempre più a distinguersi dalla crescita materiale. Si diventa più ricchi perché si vive meglio, senza necessariamente aumentare nella stessa misura i consumi di risorse primarie, al limite riuscendo a ridurli.

Questo tipo di sviluppo si basa sulla produzione intensa e diffusa di conoscenza nuova, per la massima parte di tipo applicato, ma con radici che arrivano sino alla scienza pura. Esso contribuisce ad affrontare i due principali nodi dello sviluppo globale: come renderlo compatibile con l’equilibrio ambientale del pianeta e come conciliare la globalizzazione dei mercati con l’impossibilità di livellare rapidamente i tenori di vita tra di essi. Le soluzioni tecnologiche nuove sono la chiave per rendere sostenibile la continuazione dello sviluppo; gestita dai Paesi avanzati, tale chiave produce abbastanza valore da proteggerne almeno temporaneamente il benessere, anche grazie al valore che le soluzioni stesse rappresentano per i Paesi emergenti.
Imboccare questa via di sviluppo significa contare sull’economia della conoscenza, ciò che l’Europa decise a Lisbona. Quando gli osservatori dicono che per gli imprenditori italiani la nuova Maastricht si chiama Lisbona, sembrano ritenere non soltanto che quella è la via da seguire, ma anche che va perseguita con lo stesso rigore. Naturalmente, gli strumenti dovranno essere diversi, perché protagoniste dell’economia della conoscenza saranno essenzialmente le imprese; nessuno può dar loro indicazioni né prescrizioni, come pretendeva la vecchia politica industriale. Ma da sole non saranno in grado di saltare in questa nuova dimensione, dove hanno bisogno di dialogare con il mondo della formazione e della ricerca, dove sono richieste dimensioni d’impresa maggiori, dove la relazione con i mercati finanziari si gestisce con modalità differenti.

Le premesse chiedono perciò che i responsabili della politica italiana introducano le riforme necessarie, che le amministrazioni rendano espliciti e prevedibili i propri comportamenti futuri, che il sistema giudiziario renda le sue decisioni riferibili a tempi non remoti, che le forze sociali non ostacolino l’attuazione del cambiamento. La stessa questione della flessibilità del lavoro, che tanto ha riscaldato le relazioni sociali, è un tassello indispensabile per il passaggio a un sistema basato sull’innovazione, nell’ambito del quale la staticità di una mansione produttiva è una minaccia alla sua stessa sopravvivenza economica.

Si può anche fare a meno di una parte delle riforme chieste dagli imprenditori. Il sistema economico trova altre soluzioni, anche se non allo stesso livello di efficienza. Per esempio, è stato notato che i due terzi dei lavoratori italiani sono impiegati in posizioni che si sottraggono alle rigidità lamentate, grazie all’estensione anomala e forzosa delle imprese piccolissime, ai contratti di lavori atipici, alle partite Iva. Ma poi è inevitabile che il sistema fallisca laddove sono richieste grandi dimensioni, capacità di pianificazione, proiezione internazionale. Quando questi fallimenti si manifestano, dobbiamo considerarli il risultato di una politica industriale implicita. Se vogliamo migliorare i risultati, la politica industriale può rimanere implicita, ma devono cambiare i contenuti.

Ci sono due modi di fare un discorso. Il primo è quello classico, ciceroniano, nel quale l’oratore riserva i suoi ragionamenti forti all’inizio, si intrattiene con quelli più sottili o deboli nel mezzo, e poi esplode in un gran finale «ut probet, ut delectet, ut flectat», per convincere, per dilettare, per commuovere.
E’ un modello preso a prestito da generazioni di politici che hanno imparato come bisogna concentrarsi su un argomento, massimo due, per essere efficaci, «tre soltanto se vi è un Primo ministro», come chiosava David Lloyd George, l’ineffabile premier liberale britannico di inizio secolo.
Il secondo è più discorsivo, una relazione in cui viene presentato un elenco di argomenti in cui si esprimono dei concetti, in una prosa più o meno elegante, ma dal contenuto tutto sommato prevedibile. Il trucco per l’oratore sta nel disseminare il discorso di qualche passaggio ove chi ha orecchi per intendere intenda, oppure lanciare qualche “ballon d’essai” per vedere la reazione degli ascoltatori a una particolare proposta. Se la platea rimane indifferente o negativa, il tema verrà rapidamente abbandonato o accantonato per momenti migliori. Se si riscontrano invece interesse e approvazione, allora si può riprendere l’idea e svilupparla meglio.
Sembra che il discorso degli industriali italiani fatto all’assemblea della loro associazione rientri in questa categoria. Infatti, hanno prospettato una carrellata dei problemi dell’economia nazionale e mondiale, nonché delle sfide che attendono in particolar modo gli imprenditori, ribadendo posizioni condivisibili e in parte note, e cose originali sull’Europa e su certe storture del mercato del lavoro. Infine, nella stessa sede sono state mosse critiche implicite alla stessa classe imprenditoriale, con la tesi che la modernizzazione dell’Italia, come di gran parte dell’Europa continentale, passa anche attraverso un rinnovamento delle strutture di governo delle imprese.

Prendendo spunto dal caso Enron, gli industriali hanno rilevato che in questo momento i rapporti e i potenziali conflitti di interesse tra azionisti, investitori istituzionali, management, analisti finanziari, informazione economica (una moltitudine enorme di soggetti) non sono regolati in modo lineare; per lo meno, non in modo abbastanza lineare per rendere tranquilli sul fatto che due elementi fondamentali per il buon funzionamento del mercato, fiducia e reputazione, siano oggi ben preservati nella Penisola. E, convenendo sulla necessità di porre regole adeguate a protezione di tali requisiti, hanno sostenuto che è interesse comune intervenire per migliorare in modo autonomo ed efficiente i meccanismi di controllo.
In sintesi: primo, il mercato funziona soprattutto grazie a meccanismi spontanei di cooperazione; secondo, proprio perché si tratta proprio di congegni che poco hanno a che fare con la regolamentazione statale (non si può imporre per decreto di avere fiducia nelle società per azioni) è opportuno, soprattutto nell’interesse delle imprese stesse, che esse operino in prima persona per trovare dei meccanismi di autoregolamentazione. Nessuno meglio di loro conosce le dinamiche economiche che hanno bisogno di correzioni. Nessuno più di chi è direttamente coinvolto sa come porre delle norme che in assenza di costi di transazione sarebbero spontaneamente adottate tra le parti.
Ed ecco dunque lanciato il “ballon d’essai”. Toccherà agli imprenditori raccoglierlo o lasciarlo cadere nel vuoto. Spetterà a loro, in poche parole, trovare delle soluzioni efficienti che attraggano gli investitori e consentano una migliore governance delle imprese, oppure far sì che qualcun altro, con le minacciose sembianze del Leviatano, si prenda cura di imporle dall’alto.
Il dibattito economico in corso in Italia dedica molto spazio all’Europa. Ma l’elemento significativo è che esso esprime una visione del Vecchio Continente molto precisa, e per alcuni aspetti diversa rispetto a quella che finora è stata più diffusa nel Paese, anche nel mondo imprenditoriale. Si è partiti dal riconoscimento dei problemi che l’Europa nel suo insieme presentava. Il Continente è in ritardo nella diffusione della “nuova economia”, è in ritardo sul piano del sostegno dei mercati finanziari alle nuove imprese, è in ritardo nella ricerca scientifica e nella produzione di capitale umano qualificato.
Termine di paragone sono ovviamente gli Stati Uniti, con i quali il divario nell’ultimo decennio si è allargato in termini di differenziale di reddito pro-capite: dal 31 al 35 per cento. Come reagire? Dobbiamo «aprire un nuovo libro, e provare a scrivere la storia di un grande progetto politico di rilancio e di sviluppo dell’economia europea», esattamente come avvenne nei momenti cruciali dell’Atto Unico e del Trattato dell’Unione.

Realisticamente, si sottolinea come il percorso dell’unità europea è una storia «in cui si sono sempre coniugate forti convenienze economiche e grandi idealità politiche». Ebbene: negli anni passati siamo stati abituati ad una visione diffusa dell’Europa come il luogo di ogni positività politica ed economica. Una positività che ci spingeva ad adeguarci alle sue istituzioni e alle sue politiche in una maniera fortemente passiva, nella quale non trovavano posto né l’idea di un ruolo italiano primario nella sua gestione e nella sua evoluzione, né l’idea di un interesse nazionale legittimamente rappresentabile e altrettanto legittimamente difendibile.
Tutto questo è decisamente superato, almeno in prospettiva. Infatti, è vero che l’Italia deve superare un certo europeismo di maniera, imparare a declinare i propri legittimi interessi nazionali all’interno di una visione comune.
Si deve avere una “visione adulta” del ruolo italiano in Europa. E ancora, deve essere chiaro una volta per tutte che anche l’Italia è Europa. Una posizione, com’è facile capire, ben diversa rispetto allo slogan “Entrare in Europa”, che per diversi anni è stato il riflesso di una sorta di percezione di inferiorità e di estraneità che né la storia né la realtà della penisola italiana giustificavano.
Quella prospettata è un’Europa realistica, ma non per questo minimalistica. Nel senso che vi è bisogno di più Europa, e non di meno Europa, e che va rifiutata l’idea che il Vecchio Continente dovrebbe essere solo qualcosa di più di una zona di libero scambio. Posizione del tutto condivisibile, perché la creazione di una zona di libero scambio tra Paesi diversi difficilmente può aversi e mantenersi nel tempo se non vengono parallelamente create istituzioni comuni – le si voglia chiamare “federali” o meno, poco importa – che contrastino la tendenza “naturale” al protezionismo.

L’alternativa tra un’Europa che dovrebbe essere “debole” per essere liberale, e potrebbe essere “forte” soltanto al prezzo di essere dirigista, è errata. L’alternativa è semplicemente il risultato dell’idea che la forza e la capacità di agire delle istituzioni politiche sono direttamente proporzionali al controllo della mano pubblica su tutti gli aspetti della vita civile ed economica. Un’idea sbagliata, perché le istituzioni politiche sono tanto più forti, quanto più chiari e delimitati sono i loro compiti e i loro poteri.
L’Unione europea ne è una conferma. La sua deriva verso un’ “armonizzazione” del tutto ingiustificata e comunque maggiore di quella richiesta per assicurare il corretto funzionamento del mercato interno è il risultato negativo della volontà degli Stati membri di non trasferire alle istituzioni dell’Unione delle chiare e forti funzioni di contrasto delle loro proprie politiche protezionistiche. Si avrebbe “meno Europa” dannosa, se si avesse “più Europa” necessaria.
Sotto questo profilo, il declino dell’Europa deriva dal fatto che le politiche realizzate nel lungo periodo del “consenso socialdemocratico” – per usare la felice espressione di Ralf Dahrendorf – hanno sostanzialmente indebolito le sue capacità di creazione e di innovazione, tanto sul piano economico quanto sul piano culturale.
L’Unione europea rappresenta uno strumento formidabile per arrestare e invertire questo declino, perché può creare insieme spazi di libertà per gli individui, la società civile e le imprese, e aree di azione collettiva politica ed economica efficace su scala continentale e intercontinentale.

   
   
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