Settembre 2002

LE SCELTE DIFFICILI DELLA MODERNIZZAZIONE

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Fermi sulla Linea Maginot
Claudio Alemanno  
 
 

 

 

 

Sulle differenze tra dialogo sociale
e concertazione
si può disquisire
a lungo, ma resta il problema di trovare attori credibili per avviare le riforme.

 

Cosa c’è dietro la maggiore affidabilità del nostro debito pubblico, dietro la promozione dell’Italia da parte dell’agenzia di rating Moody’s? C’è lo scheletro del sistema Paese formato da piccole e medie imprese che detengono il tasso di sommerso più elevato d’Europa, ci sono poche imprese di caratura internazionale (con le preoccupazioni prodotte dalla crisi Fiat), c’è un sistema bancario ancora impegnato in tortuosi percorsi di riassetto proprietario e organizzativo, c’è una capacità di ricerca e innovazione molto debole, c’è un sistema di servizi infrastrutturali fortemente lacunoso, ci sono le note asimmetrie tra economia dei flussi finanziari ed economie dei territori.
Con queste premesse si può pensare di uscire dalla mediocrità del made in Italy per navigare con sicurezza e maturità nel mare aperto della competizione globale?
L’effetto immagine di una migliorata finanza pubblica non è ossigeno sufficiente per analisi e valutazioni di prospettiva strutturale. L’enfasi data alla notizia fa venire in mente una battuta di Talleyrand: «Tout ce qui est esagéré est insignifiant», tutto ciò che è esagerato è insignificante.
Gli americani sono soliti dire che gli ebrei scrivono le canzoni e gli italiani le cantano. Questo cliché sembra fare proseliti anche nelle vicende interne dell’economia e della politica. In un modello di globalizzazione caratterizzato da forti collegamenti tra Europa, Usa e Asia nei flussi commerciali e finanziari non competono più le singole imprese ma i sistemi territoriali locali, nazionali, regionali. Tutto diventa più connesso e integrato. Sondaggi e statistiche di casa nostra continuano invece a raccontarci le ragioni e i numeri dell’accresciuto divario Nord-Sud, delle persistenti carenze strutturali, del declino della grande impresa (quando cresce la dimensione d’impresa crescono redditività, produttività per addetto e investimenti).
Sotto il profilo politico le matrioske operanti nell’area liberale subiscono la suggestione del vecchio modello thatcheriano, mentre quelle che si riconoscono nelle idee del socialismo riformista subiscono il fascino del disgelo sociale proposto dalla terza via di Clinton e Blair. C’è un vuoto propositivo sostanziale che si traduce nell’assenza di iniziative strategicamente funzionali ai processi di globalizzazione in atto. Restiamo in surplace, in attesa di essere trainati da un’inversione di tendenza della congiuntura internazionale. L’aggravante è costituita dal fatto che ciò non è casuale ma lucidamente voluto.
L’Italia – diceva Flaiano – ha un popolo di reduci. Ci sono i partigiani nostalgici e i post-missini. Al netto del diluvio retorico resta il retrogusto amaro di un Paese diviso, che ama invertire spesso le parti in commedia. Così accade che i blocchi storici più sensibili al rinnovamento predichino oggi ragioni di conservazione. Mentre in Europa continuiamo a restare sotto la lente d’ingrandimento per essere europei senza impiegare regole europee.
Ci dev’essere inoltre un serpente nell’uovo che sparge veleni a profusione, creando inquietudini sociali, scontri istituzionali e nostalgie dorotee.
Riducendo all’osso il lavoro di prospettiva, c’è da sanare una crisi di governabilità alta e minuta e da creare ex novo una cultura dell’innovazione in antitesi all’attuale, prevalente, cultura della conservazione. L’ultimo “libro dei sogni” delle forze di governo è stato scritto con mano sinistra, ma ha offerto alle forze di opposizione solo spunti per una maxi vertenza nazionale. Invece di prove di dialogo si offrono alla società civile nuove lezioni sui vecchi, criticati e mai smessi veti incrociati.
Con l’avvento del maggioritario s’impone una colta riflessione sull’emancipazione della politica, dei suoi rapporti con le istituzioni e la società civile. Sciolto il collante delle classi, ogni individuo deve costruire da solo la sua sfera di appartenenza. Impresa certamente più difficile e rischiosa. Del borghese, che tanto sembra interessare all’analisi politica, Eugene Ionesco aveva già detto: «E’ uno che ha dimenticato l’archetipo per perdersi nello stereotipo». C’è in realtà una forte aspettativa per una nuova organizzazione della società civile, mentre da più parti arrivano segnali classisti di continuità che di fatto impediscono alla gente di credere e di creare.
Non tranquillizza un bipolarismo politico che produce polarizzazione sociale. Occorrono nuove leadership meno sensibili all’egoriferimento, occorrono meno occasioni d’impegno che mascherano occasioni d’impiego.
In questi nodi ci sono le principali contraddizioni della società italiana. I soggetti sociopolitici (partiti, sindacati, forze di governo e di opposizione) sono sostanzialmente attestati su strategie e tattiche di reciproca delegittimazione che logorano e rendono inadeguate le dinamiche istituzionali (sui guasti della nuova programmazione centrata sulle autonomie locali si leggano le osservazioni intelligenti dell’economista Nicola Rossi in Riformisti per forza).
Il consenso organizzato finisce così per cavalcare l’onda delle emozioni (Usa day, girotondi, cortei) che aggregano in modo estemporaneo e volatile, senza produrre solide identità collettive. Per creare nuovi valori aggreganti occorrono larghe intese culturali e istituzionali che sappiano mediare tra le dinamiche emergenti dal lato del conflitto e da quello del consenso.
Un passaggio cruciale è dato dai temi del lavoro, dove confluiscono competenze e valutazioni di più soggetti istituzionali. L’interpretazione giurisprudenziale non può essere ad esempio indifferente alle questioni di “governance”, di governabilità dell’impresa, ormai considerata principale soggetto aggregante di fattori economici e sociali (è nota la difficoltà della scienza giuridica di adattarsi alle innovazioni prodotte dall’economia).
Ancora, si fa un gran parlare di riforme del mercato del lavoro (ammortizzatori sociali, formazione, maggiore libertà di assunzione e licenziamento), ma nulla si sente in merito alla necessità di adottare contestualmente politiche monetarie e fiscali espansive.
Il principale problema italiano (ed europeo) non sta nella rigidità del sistema-lavoro (che pure esiste), ma nella debolezza della domanda interna (diagnosi su cui c’è un vasto consenso di economisti europei e americani). Il Presidente della Confcommercio denuncia da tempo la stagnazione dei consumi.
Tradizionalmente il sindacato è stato sempre soggetto promotore di riforme in tema di lavoro. Adesso si trova un po’ spiazzato poiché si assiste al fatto nuovo di un potere d’iniziativa assunto dal governo. Sulle differenze tra “dialogo sociale” e “concertazione” si può disquisire a lungo, ma resta il problema di trovare attori credibili per avviare le riforme.
Le forze in campo sentono molto il richiamo della foresta, delle rispettive supremazie storiche. Così si ostinano a non capire i propri torti e ancora meno le ragioni degli altri (un metodo che in politica ha sempre pagato), affievolendo gli slanci della necessaria collaborazione strategica.
L’esaltazione esasperata della sola flessibilità lavorativa rischia di essere inefficace e ancora peggio di compromettere i faticosi percorsi di dialogo costruiti nel tempo nei rapporti governo-sindacati.
La flessibilità va ricercata a 360 gradi, incominciando col chiedere in sede europea la revisione dei criteri anticiclici (troppo rigidi) stabiliti dieci anni fa a Maastricht (allora erano giustificati dagli alti deficit dei bilanci pubblici e dagli automatismi di spesa non contenibili). L’esperienza ci dice che hanno generato ristagno economico al limite della recessione (in Francia, in Germania, in Italia).
In uno dei tanti convegni sulle relazioni industriali ho assistito ad un episodio significativo. Mentre gli oratori parlavano di solidarietà, statuto dei lavori (non dei lavoratori), giustizia distributiva, un operaio ha chiesto di intervenire. «Se il governo volesse accelerare la ripresa e aumentare i consumi potrebbe lanciare un segnale preciso in questa direzione, potrebbe ad esempio detassare i Bot dove confluiscono i nostri risparmi». Giriamo la domanda agli addetti ai lavori. A noi preme sottolineare la visione lucida dei problemi, anche se un operaio che pensa ai Bot non desta molto interesse nei sindacati tradizionali. Forse nel confronto in atto si parla molto di relazioni industriali vetuste, poco di un mondo del lavoro in rapida evoluzione, reso più autonomo dai nuovi modelli organizzativi imposti dalle recenti tecnologie e nello stesso tempo più interconnesso con gli altri fattori che fanno impresa. Ormai diritto del lavoro, diritto dell’impresa, diritto della banca e dei mercati finanziari operano in stretta sintonia (non a caso Pierluigi Ciocca sostiene da tempo che non si può più parlare di un diritto dell’economia, ma di un diritto per l’economia).
C’è poi l’annoso tema della democrazia diretta che i politici ritengono allargata per l’ampliamento dei poteri concessi alle autonomie locali.
La singolare interpretazione data al federalismo amplia in realtà l’area della politica politicante, mentre una maggiore accentuazione della democrazia diretta attende in sede istituzionale un uso più ampio del voto referendario e del voto popolare.
Un esempio aiuta a capire. Il difensore civico (ombudsman) è un’istituzione recente pensata per rafforzare la rete di tutela dei cittadini nei rapporti con la pubblica amministrazione. Nelle esperienze del Nord Europa, da cui proviene, esso è espressione di un voto popolare che conferisce neutralità e autorevolezza all’istituto. In Italia il movimento “Cittadinanza attiva” chiede da tempo l’elezione diretta del difensore civico, ma allo stato delle cose la maggioranza dei regolamenti locali privilegia l’elezione dei consigli comunali (con il risultato che per il meccanismo dei veti incrociati alcune grandi città non hanno ancora il difensore civico). Non è casuale che siano in molti, dall’interno e dall’esterno (Confindustria, Banca d’Italia, Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale), a chiedere per l’Italia “riforme strutturali”. Un’agenda parlamentare delle priorità dovrebbe tenere conto di questa richiesta. Va sottolineato che si chiedono “riforme”, non “politiche”. Si chiede cioè un quadro normativo organico volto a cambiare il funzionamento del sistema nel lungo periodo. Le “politiche” del governo, pressate dall’emergenza, finiscono per introdurre nel sistema provvedimenti tampone, che hanno respiro corto e carattere isolato.
Quando si è in presenza di regole sbagliate e non idonee, le politiche di tamponamento aggiungono emergenza a emergenza, cioè l’emergenza permanente. Se il Parlamento lavora bene e migliora l’efficienza globale del sistema, il Governo sarà meno indotto a svolgere interventi correttivi abborracciati e potrà dedicarsi meglio ad un lavoro di prospettiva dal respiro programmatico (realizzando ad esempio un parco-progetti per la costruzione di possibili scenari di sviluppo su cui impegnare il dibattito politico).
Vale la pena ricordare che le diverse realtà economiche territoriali per operare nella logica dei flussi globali non possono più fare affidamento solo sui valori di solidarietà e solidità delle famiglie. Per andare dal locale al globale, l’organizzazione delle comunità territoriali ha bisogno di tenere sotto controllo diversi indicatori: i dati dell’export, i flussi d’investimento in entrata e in uscita, il grado d’internazionalizzazione del sistema bancario, il sistema delle infrastrutture, il livello di offerta informativa (università e altre istituzioni in grado di dialogare con l’Europa e altre realtà internazionali, con spiccata sensibilità a raccogliere le istanze locali per farle rimbalzare nel globale). Sono tutte occasioni di verifica che richiedono il supporto di un articolato ed efficiente quadro istituzionale. L’attuale grado di assuefazione all’incertezza produce invece l’indignazione che stanca.
L’ultimo sondaggio dell’eurobarometro (Commissione europea) è significativo. Con riferimento al grado di soddisfazione nel funzionamento del proprio Paese le percentuali sono allarmanti. Solo 38 italiani su cento sono soddisfatti della propria democrazia, mentre 59 su cento si dichiarano insoddisfatti (siamo in assoluto i più scontenti d’Europa insieme ai portoghesi). Altri motivi di riflessione offre l’indice di fiducia verso quattro poteri fondamentali: Governo, Parlamento, Amministrazione pubblica, Partiti politici. L’Italia finisce all’ultimo posto con un tasso di fiducia del 31%, contro una media europea del 40%. C’è sfiducia anche nei media: il 49% si fida della televisione (media Ue 62%), il 44% crede nella radio (media Ue 62%), il 39% nei giornali (media Ue 46%).
Lo scetticismo generalizzato è palpabile ovunque: si partecipa e si crede meno alla vita pubblica, si vota anche meno. In compenso, cresce il sentimento della solidarietà corporativa. La società civile sembra disamorata della vita collettiva, mentre appare sempre più ripiegata sulla vita privata e più concentrata sulle occupazioni solitarie, ivi incluso il volontariato.
Se si scava nelle origini storiche della società civile (Hobbes) si scoprono le radici liberali, le simpatie per l’etica laica e lo Stato minimo, il rapporto privilegiato con il diritto naturale, che geneticamente costituisce la matrice originaria del “common law”, dell’importanza delle consuetudini nel diritto.
Un progetto per la creazione di nuovi esperimenti di democrazia, per l’elaborazione organica di cose straordinarie sul fronte istituzionale è certamente materia di riflessione politica, ma non può essere trattato solo nel recinto degli addetti ai lavori. Il deficit di modernizzazione ha bisogno di nuove reliquie laiche.
Si potrebbe partire abbandonando la Mecca dell’usato: il governo, la sua predisposizione all’estasi lirica; i sindacati e i partiti, le loro pregiudiziali ideologiche e di potere. Con il coinvolgimento di un’opinione pubblica attestata su posizioni di neutralità costruttiva.

   
   
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