Settembre 2002

RADIOGRAFIA IMPRESE

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Piccolo era bello. Ora è vischioso
Paolo Cini Rovati  
 
 

 

 

 

Se la struttura delle aziende si modifica verso assetti più
ristretti, il risultato è che la dinamica della produttività
in tutto il sistema economico frena.

 

Paese davvero complicato, l’Italia, con i suoi mille campanili e gli oltre quattro milioni di imprese, e i suoi tre milioni di lavoratori “atipici”. E chi vuole misurarne la qualità della vita fa fatica, visto che per longevità lassù Qualcuno ci ama, dando una speranza di 83 anni alle donne e di 76,7 agli uomini; però i sociologi che si occupano di Mezzogiorno debbono vedersela con la tipologia della “famiglia disoccupata” e col problema del sommerso che interessa un lavoratore su quattro. Per questo le indagini statistiche battono il tasto delle diversità come opportunità, ma anche come rischio.
Parliamo delle imprese. Nel contesto europeo, il nostro sistema produttivo ha mantenuto la sua fisionomia particolare: da noi opera infatti circa un quarto di tutte le imprese industriali europee e un quinto delle aziende di servizi, ma in termini di addetti la percentuale è rispettivamente del 15 e dell’11 per cento. La spiegazione del fenomeno è semplice: la dimensione media delle aziende italiane è molto piccola. Si tratta di 3,6 addetti se si considerano tutte le imprese, mentre la media nell’industria è di 8,6 addetti a fronte dei 15 della media europea. La dimensione è un tallone d’Achille, se si guarda alla produttività del lavoro, che nelle aziende con meno di 10 addetti è pari al 44, 3 per cento di quella delle imprese con meno di 250 addetti. Certo, questa situazione di svantaggio non si verifica sempre e comunque. Accanto a un milione e mezzo di imprese piccolissime (1-2 addetti) che non manifestano segnali di modernizzazione organizzativa, ci sono 400 mila imprese altrettanto piccole che hanno una buona struttura informatica e introducono innovazione di prodotto o di processo.

Nell’epoca del lavoro flessibile, anche la disoccupazione è diventata un affare di famiglia. Sono 700 mila le famiglie disoccupate, per circa due milioni di persone, il 68 per cento delle quali vive al Sud. Dal ‘97 il benessere è cresciuto anche nei nuclei familiari disagiati, ma la disuguaglianza Nord-Sud è aumentata. Insomma, i 2.178 euro che rappresentano la spesa media annua nascondono standard di vita familiare molto differenti. Sotto il profilo congiunturale, tuttavia, l’impatto redistributivo della Finanziaria 2002 dovrebbe comportare un aumento del reddito disponibile familiare di circa 172 euro, con l’uscita dalla povertà relativa per circa 300 mila famiglie.
Insomma, siamo un Paese a crescita lenta. Lo sviluppo dell’Italia è piuttosto vischioso, ormai da parecchio tempo. E se la malattia è difficile, ancora più ardua sembra la terapia d’urto. Perché troppe volte è stato detto che “piccolo è bello”, e pertanto si è valutata la salute economico-produttiva del Paese sul metro della vitalità e della prolificità delle piccole imprese. Si è definita “virtù” la microdimensione, un mondo che ora si illumina di tratti distintivi non del tutto nuovi, ma non meno preoccupanti in termini di produttività, redditività e innovazione.
Ne esce rafforzata la tesi, sostenuta da studiosi e da capitani d’industria, che la tendenza alla diminuzione della grandezza aziendale sia il lato “micro” del fenomeno “macro” della lenta crescita del Paese. Perché se la struttura delle aziende si modifica verso assetti più ristretti, e questi sono penalizzanti nel valore aggiunto per addetto, il risultato è che la dinamica della produttività in tutto il sistema economico frena. Mentre la chiave di volta del rilancio della crescita passa ineludibilmente per un’accelerazione della produttività e dunque per l’inversione della tendenza al rimpicciolimento delle aziende.
La produttività di un’impresa medio-grande (oltre 250 addetti) è più doppia rispetto a quella delle piccole (1-9 addetti); nell’industria manifatturiera il gap è ancora più ampio. E’ vero che anche il costo del lavoro è maggiore, ma l’aumento di questo al salire di dimensione è meno che proporzionale ai guadagni di efficienza che derivano da una migliore organizzazione, economie di scala, innovazione; tanto che l’incidenza degli utili sul valore aggiunto sale dal 20,4 per cento nelle piccolissime, fino al 37 per cento nelle medio-piccole (20-99 addetti) e poi si stabilizza. Il “volume” dei profitti per addetto continua ad aumentare, quadruplicandosi nel confronto tra la grande e la mini-azienda. Si può sostenere che il minor costo del lavoro è almeno un non-incentivo a crescere, ma certo la soluzione non è l’aumento di questo costo.

La grandezza dell’impresa influenza il grado di informatizzazione (che è un veicolo di produttività), l’innovazione di processo e di prodotto, e l’investimento in ricerca e sviluppo, dunque in innovazione futura. Tra le imprese di 1-2 addetti, che sono la stragrande maggioranza, solo il 43,7 per cento è dotata di Pc o sistema informatico, quota che è già al 93,3 per cento in quelle con 10-19 addetti. Nelle prime, solo il 3 per cento ha introdotto innovazioni, quota che supera il 35 per cento tra le imprese con 50-99 dipendenti. Sotto i dieci addetti le indagini di rilevazione italiane sono abbastanza limitate. Ma il risultato non cambia: le migliori tra le migliori aziende, in Italia, sono quelle con almeno 20 dipendenti.
Eppure, tendono a rimpicciolirsi. L’evoluzione delle imprese attive tra il ‘98 e il ‘99 (anni di espansione, sia pure lenta) evidenzia che il passaggio prevalente è verso le classi dimensionali più piccole, non quelle più alte (con l’unica eccezione della classe 1-2 addetti). E’ vero che gli sviluppi della tecnologia aiutano a risparmiare risorse e quindi a ridimensionarsi; ma questo fenomeno funziona a parità di produzione, non in espansione, verso la quale andrebbero rivolti i benefici delle nuove tecnologie. Tutto questo, per giunta, si è verificato in un contesto di aumentata flessibilità (orari, turnover).

Spesso si indica nella creazione dei gruppi un modo di crescita delle aziende. Verissimo: attraverso le aggregazioni, che accrescono la specializzazione e la competitività, si raggiungono masse critiche che permettono una maggiore penetrazione e controllo dei mercati, specie esteri. Ma i gruppi interessano una ridottissima parte delle aziende attive (2,6 per cento del totale, con 26,4 per cento degli addetti), e a far gruppo, di nuovo, sono soprattutto le aziende dai 20 addetti in su.
Ci sono infine i distretti, quelli veri, dove le economie esterne all’impresa (cultura del prodotto, rapidità di cambiamento, innovazione condivisa) compensano l’handicap dimensionale, anche in termini di redditività. Ma resta la bassa crescita del sistema pur nel successo distrettuale, che quindi da solo non basta.
Tornano in mente indagini in cui i giovani ribadiscono e accentuano la propensione dei padri ad essere indipendenti, padroni del proprio lavoro. Aspirazione legittima, purché non sia realizzata con nuovo sommerso, già a livelli di patologica concorrenza sleale. E che comunque mal si concilia con la necessità del Paese di essere competitivo in un sistema globale.

   
   
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