Settembre 2002

PROBLEMI DEL LAVORO

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Sommerso scandagliato
Innocenzo Cipolletta  
 
 

 

 

 

E chi non ricorda
la proposta
di un ministro delle Finanze italiano, che offrì
ai contrabbandieri pugliesi un posto
di lavoro, purché smettessero il loro traffico?

 

La lotta contro l’economia sommersa o illegale è un atto dovuto da parte delle autorità di un Paese. L’esistenza di corpose attività economiche svolte in regime di illegalità totale costituisce un elemento di degrado della società e dell’economia, per le distorsioni che ne derivano nei confronti di chi rispetta le leggi, per gli abusi e la lesione dei diritti nei confronti di lavoratori, clienti e concorrenti, per il sostegno che attraverso tale via si dà alla criminalità spicciola e a quella organizzata, che finisce per costituire la sola “autorità” che riceve rispetto, e perciò è la sola in grado di governare interi territori o fasce sociali ed economiche.
Per lungo tempo questo fenomeno è stato tollerato e giustificato in Italia come il prodotto di una società aliena alle regole in una prima fase di industrializzazione. Anzi, taluno ne ha visto una sorta di alternativa alla criminalità, quasi che l’una potesse fare a meno dell’altra. Chi non ricorda l’esegesi che ne fecero il teatro e il cinema del dopoguerra, rappresentando “onesti” e simpatici contrabbandieri? E chi non ricorda la proposta di un ministro delle Finanze italiano, che offrì ai contrabbandieri pugliesi un posto di lavoro, purché smettessero il loro traffico?
Oggi però l’Italia è una società moderna, che deve reprimere la criminalità, più che giustificarla, se vuole esprimere tutte le sue potenzialità di crescita. Per questo va dato merito ad Antonio D’Amato di aver avviato sin dall’inizio del suo mandato una forte campagna contro il sommerso; e va riconosciuto al Governo di essersi subito mosso con provvedimenti volti a favorire un rientro dal sommerso. Se queste misure non hanno ancora dato i risultati sperati, ciò non vuol dire che l’obiettivo fosse sbagliato, ma che occorre insistere, magari con altre misure, e senza dimenticare la repressione, che costituisce pur sempre la migliore arma per impedire al sommerso di vivere e moltiplicarsi.

I recenti dati forniti dall’Inps indicano chiaramente che il fenomeno può essere colpito con la repressione. Nel primo trimestre di quest’anno l’attività d’ispezione è stata incrementata del 24 per cento, e questo avrebbe prodotto, secondo l’Istituto, la scoperta di ben 3.956 aziende che operavano in nero. Sono così emersi ventottomila nuovi lavoratori.
Ciò testimonia come la repressione sia possibile solo che lo si voglia, e non si confonda, come troppo spesso si fa, il vero sommerso (ossia l’attività illegale) con le presunte irregolarità di posizioni lavorative derivanti dalle diverse interpretazioni dei dettami legislativi in materia di collaborazioni e prestazioni lavorative. In altre parole, serve una vera determinazione a sopprimere il sommerso, e non la pervicacia a spulciare le posizioni di imprese regolari, con la speranza di trovare inadempienze formali, che fanno lievitare il numero degli accertamenti, senza scalfire ciò che è veramente illegale.
Se la lotta al sommerso non produce risultati, questo non deve essere motivo di soddisfazione per l’opposizione, ma ragione per collaborare tutti a un risultato che va al di là delle posizioni politiche.
Ciò che invece mi ha lasciato sempre perplesso e contrario è l’idea di fare della lotta al sommerso uno strumento della politica economica a breve termine, per ridurre il disavanzo pubblico. Certo, se si riduce il sommerso migliora il clima economico e possono realizzarsi maggiori incassi per lo Stato. Ma la risultante complessiva nel breve termine è molto più controversa, e non necessariamente positiva.
La lotta al sommerso costa, sia che lo si voglia reprimere, sia che lo si voglia incentivare a emergere. A fronte di tali costi, i benefici immediati possono essere non corrispondenti. Molte attività illegali non potrebbero sopravvivere nella legalità. Anche quando si tratta di emersione volontaria, è probabile che l’azienda che si autodenuncia finisca per ridurre complessivamente la propria forza lavoro, per non risultare appesantita.
Molte attività sono illegali non solo per evadere tasse e tributi, ma soprattutto per evadere le regole relative alle condizioni di lavoro e ai processi produttivi (igiene, sicurezza, tutela di marchi, e così via). Per queste imprese le incentivazioni fiscali e contributive sono del tutto insufficienti; e non si può certo derogare sulla sicurezza dei lavoratori e dei clienti.
Sull’ammontare del sommerso in Italia si fantasticano cifre prive di ogni fondamento. Se fosse vero che il Paese ha un sommerso pari al 30 per cento del suo reddito, esso avrebbe un reddito pro capite superiore a quello degli altri Paesi europei, specie se valutato in parità di potere d’acquisto. Ciò, oltre che palesemente irreale, porterebbe ad escludere del tutto l’Italia dalle politiche di sostegno dell’Unione europea. Siamo pronti?
La speranza di risolvere i problemi della finanza pubblica italiana attraverso la lotta al sommerso è un’illusione coltivata a lungo. Negli anni Novanta, nel periodo delle grandi manovre di risanamento finanziario, a fronte dei sacrifici imposti dalle circostanze, l’estrema sinistra si ribellava, reclamando più lotta all’evasione e meno sacrifici per i lavoratori: quasi che un tale scambio fosse possibile. Si era soliti contrapporre alle ipotesi di manovre su pensioni e spesa pubblica da parte del governo la proposta di «ridurre del 10 per cento l’evasione fiscale»: ci si “accontentava” del 10 per cento per ottenere risorse pari all’ammontare delle manovre suggerite.
Oggi, di fronte alla necessità di ridurre la spesa pubblica per perseguire una riduzione della pressione fiscale, si tenta di ripercorrere la via della riduzione dell’evasione per abbassare le tasse a tutti. Nel medio e lungo termine questo è sicuramente un obiettivo da perseguire. Ma nel breve periodo questa possibilità non esiste, se non per importi marginali: quelli prodotti da una vera lotta all’evasione. Una lotta da condurre con gli strumenti di una repressione fatta più di “intelligence” presso gli ambienti dell’economia nera e illegale, che di controlli formali su chi già paga fin troppe tasse e contributi.

I controlli

La “guerra al nero” sarà condotta dall’Agenzia delle Entrate attraverso un sistematico controllo dei dati a disposizione.
Tutti i gestori di servizi di pubblica utilità (telefono, elettricità, acqua, gas) saranno tenuti a inviare le informazioni sulla titolarità dei contratti di utenze non riconducibili all’uso domestico.
Nella lista dei “cattivi” finiranno prioritariamente quei contribuenti sospetti che non hanno presentato la dichiarazione di emersione che scade il 30 novembre prossimo.
I datori di lavoro che presenteranno ai sindaci il piano per la cosiddetta “emersione progressiva” potranno applicare una retribuzione di partenza inferiore del 30 per cento rispetto al minimo contrattuale.

   
   
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