In una società
segnata da profonde diseguaglianze,
trovare un punto dincontro tra
ipertutelati, tutelati ed esclusi è la trincea politica
del riformismo.
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Lentamente, ma in maniera costante, il Vecchio Continente si sta
muovendo nella direzione della modernizzazione del mercato del lavoro.
Il bilancio che la Commissione Europea traccia nel Joint employement
report 2001 è positivo: sono stati fatti progressi sia in
termini occupazionali che in termini qualitativi. Ma se dallUnione
europea si passa ai singoli Stati membri, saltano subito allocchio
grandi divergenze. Cè chi eccelle in tutti i campi,
chi arranca ma riesce comunque a tenere il passo, e chi infine versa
in una situazione disastrata. E il nostro Paese, purtroppo, rientra
nel novero di questi ultimi Stati.
Disoccupazione. Se il tasso di disoccupazione italiano decresce
anno dopo anno (le proiezioni dellOcse prevedono nel 2002
un tasso del 9,2 per cento), rimangono problemi irrisolti. In primo
luogo, la questione occupazionale nelle regioni meridionali, che
presenta picchi altissimi in diverse aree (fino al 21 per cento
della forza lavoro disponibile), che stanno tornando ad essere centri
di espulsione demografica, con un tipo di emigrazione non più
generica, ma connotata da un buon livello intellettuale.
Fra laltro, su un milione e 400 mila famiglie italiane prive
di reddito, oltre la metà sono localizzate nel Mezzogiorno,
eredità delle politiche scombinate in favore del Sud, ed
emblema dellinossidabile dualismo che caratterizza la politica
economica nazionale.
Altro problema, quello della disoccupazione femminile, che nel 2000
si è attestata intorno al 15 per cento di media nazionale:
un dato che relega lItalia nelle ultime posizioni. Solo Spagna
e Grecia, in ambito Ue, presentano tassi più elevati. Danimarca
(5 per cento) e Olanda (3,5 per cento) sono i Paesi più virtuosi,
mentre Francia (12 per cento) e Germania (8,7 per cento) si difendono.
Sul fronte della disoccupazione di lunga durata un utile
indicatore che evidenzia problemi strutturali nel mercato del lavoro
lItalia è il Paese con più persone disoccupate
da oltre dodici mesi di tutta lUe, col 60,8 per cento sul
totale dei disoccupati. Se il 6 per cento degli Stati Uniti può
essere spiegato in funzione del diverso tipo di mercato, il 42,5
per cento della Francia, il 28 per cento del Regno Unito e il 51,5
per cento della Germania denotano un distacco difficilmente giustificabile:
«Il lavoro sommerso commenta lOcse non
basta a spiegare un divario così grande».
Occupazione. Anche in questo settore lItalia si ritrova
nelle retrovie. I dati sono inoppugnabili: con soltanto il 53,4
per cento di impiegati sul totale della forza lavoro, siamo il fanalino
di coda dellUnione europea. Il 72,4 per cento del Regno Unito
e il 66,3 per cento della Germania sembrano traguardi irraggiungibili.
Per non parlare delloccupazione femminile, vera e propria
piaga del nostro Paese, lunico a scendere sotto la soglia
del 40 per cento. Regno Unito (65,5 per cento) e Germania (57,7
per cento) anche in questo campo ci guardano dallalto. «In
Italia confermano allOcse si comincia a lavorare
tardi e si finisce prima degli altri». Ma questo potrebbe
far parte anche della qualità della vita. O no?
Il lavoro. Con solo il 7,9 per cento degli impiegati a tempo
parziale sul totale della forza lavoro, lItalia è penultima
su scala europea. Soltanto la Grecia (6,1 per cento) è sotto
di noi. Davvero poca cosa, rispetto al 39,4 per cento dellOlanda
o al 24,8 per cento del Regno Unito. Ma anche rispetto al 19 per
cento della Germania e al 17,2 per cento della Francia.
Sul fronte normativo, persistono ampie divergenze in merito alla
definizione di questo strumento, agli incentivi e alla durata. Anche
il lavoro interinale presenta a livello europeo un quadro piuttosto
frammentario dal punto di vista normativo: mentre Francia, Spagna,
Italia e Germania hanno un modello di regolamentazione restrittivo,
Olanda e Regno Unito presentano un modello liberale. In materia
di sussidi alla disoccupazione, primeggia lOlanda, con una
spesa nel 2000 pari al 2 per cento del Prodotto interno lordo. La
Germania spende l1,9 per cento, mentre Italia e Regno Unito
poco più dello 0,50%.
In Francia. Il primo gennaio 2002 non doveva vedere solo
lesordio delleuro, ma anche la piena applicazione delle
35 ore, con lestensione dellorario ridotto alle aziende
con meno di 20 addetti e ai funzionari pubblici. Invece le aziende
più piccole hanno ottenuto una proroga di tre anni (sino
alla fine del 2004) per adeguarsi. Il governo ha concesso loro agevolazioni
in termini di costo e di tetto di ore di straordinario
in modo da consentire un periodo morbido di transizione. In particolare,
il tetto di ore straordinarie è stato portato da 130 a 180
nel 2002, per ridiscendere a 170 nel 2003 e a 130 nel 2004. Finora
sono passati allorario ridotto sette milioni e mezzo di lavoratori
appartenenti a 94 mila aziende; nel periodo di transizione sono
coinvolti 4,8 milioni di addetti del settore privato e oltre cinque
milioni di dipendenti pubblici. Lorario ridotto ha consentito
la creazione di 380 mila posti di lavoro: un bilancio ritenuto magro
dagli industriali, che sono sul piede di guerra per il ritorno allorario
pieno settimanale.
In Olanda. Si parla di miracolo olandese. Lentrata
in vigore del part-time è servita per combattere la disoccupazione,
soprattutto femminile. Oggi il Paese vanta un tasso di senza lavoro
pari al 2,4 per cento, con una quota di part-time che supera il
40 per cento del totale forza lavoro. Tra i lavoratori a tempo parziale,
il 75 per cento è rappresentato da donne.
Chiave di volta di una rivoluzione avviata negli anni Novanta è
stato il Flexicurity act, entrato in vigore nel gennaio
99, che da una parte ha reso più flessibile il lavoro
a tempo indeterminato, e dallaltra, grazie a un articolato
sistema di incentivi, ha reso più agevole il passaggio dal
lavoro temporaneo a quello fisso, (grazie al Flexicurity act,
la metà dei lavori precari olandesi in poco meno di un biennio
è diventata stabile).
E comunque un modello non esportabile. Un recente rilevamento
Eurostat dimostra che il lavoro a tempo parziale è ampiamente
accettato dai giovani e dai lavoratori con più di 55 anni.
Infatti in Olanda è diffusa labitudine ad avere impegni
di lavoro durante il corso degli studi, comè diffuso
il desiderio di combinare lavoro e cura dei figli, anche tra gli
uomini. Ugualmente diffuso lutilizzo del tempo parziale per
ridurre gradualmente lattività lavorativa prima del
pensionamento. Una mentalità allavanguardia, che trova
ben pochi riscontri nel resto dEuropa.
In Spagna. Lintroduzione di agevolazioni innovative
ha contribuito a ridurre la disoccupazione dal 23 al 14 per cento,
ma ora è scattata la fase di aggiustamento, con un rafforzamento
delle tutele per i contratti a tempo. Per combattere la tendenza
a impiegare in part-time lavoratori che in realtà svolgevano
attività continuativa, il governo ha varato diverse misure.
La prima impone il pagamento a scadenza dei contratti (la cui durata
massima viene portata da 13,5 a 12 mesi) di unindennità
pari a otto giorni di lavoro per anno lavorato. La seconda, al contrario,
mira a stimolare i datori di lavoro a offrire impieghi a tempo indefinito
prorogando la possibilità di stipulare i cosiddetti contratti
di stimolo alloccupazione, introdotti nel 97.
Si tratta di una modalità inizialmente rivolta ai giovani
dai 18 ai 29 anni, ai maggiori di 45 anni, ai disoccupati da oltre
un anno, agli occupati con contratto a termine, con unindennità
in caso di licenziamento non giustificato pari a 33
giorni per anno lavorato, contro i 45 dei contratti normali. Ora
tale contratto è stato esteso ad altre categorie, come i
giovani dai 16 ai 30 anni e le donne dei settori a maggiore disoccupazione.
Inoltre, si è reso più flessibile il riparto della
giornata. E stata introdotta lesenzione totale dei contributi,
per un anno, in caso di contratti a donne disoccupate da molto tempo
e nei primi 24 mesi dopo il parto.
In Germania. Si continua a lavorare per far fronte ai problemi
sorti con la riunificazione. Il sistema delle clausole di uscita,
introdotto nel 93 per il territorio dellEst, ma ora
applicabile in tutto il territorio tedesco, prevede particolari
deroghe al contratto collettivo (stabilito a livello federale o
di Länder) per permettere una maggiore flessibilità
salariale. Esistono quattro tipi di deroghe: per crisi, (introdotte
proprio nel 93 nel settore metalmeccanico dellEst per
consentire alle imprese prossime al fallimento, ma con un promettente
piano di risanamento, di essere esentate dagli accordi collettivi
e dai livelli salariali definiti); per uscita con diritto di veto,
(non limitate allEst, concedono libertà di contrattazione
a livello aziendale, ma possono essere sottoposte al veto delle
parti della contrattazione collettiva); per uscita senza diritto
di veto, (in cui la decisione è pienamente nelle mani delle
rappresentanze sindacali aziendali e del management); per deroghe
in favore delle piccole imprese, (le aziende con meno di 15 dipendenti
possono pagare salari fino al 6 per cento inferiori rispetto a quelli
contrattati collettivamente).
Il sistema ha funzionato negli anni immediatamente successivi alla
riunificazione tedesca, quando il principio di ugual salario
per ugual lavoro aveva elevato eccessivamente i salari dei
lavoratori dellEst, aggravando una situazione occupazionale
già delicata a causa delle grandi ristrutturazioni in atto
nel Paese. Oggi il modello sembra in crisi, perché le organizzazioni
sindacali tendono sempre più a respingere questi negoziati,
temendo il venir meno di una solidarietà a livello nazionale,
mentre le imprese investono sempre più massicciamente nei
Paesi dellEuropa orientale.
Nel Regno Unito. Making work pay. Alla fine
degli anni Novanta, il governo laburista ha messo in atto una severa
riforma del Welfare State, introducendo incisive innovazioni nel
sistema dei sussidi di disoccupazione. Il filo rosso della riforma
è stato proprio «rendere più conveniente il
lavoro rispetto alla semplice ricezione dei sussidi». Una
riforma che ha toccato non soltanto i sussidi di disoccupazione,
ma anche gli assegni ai lavoratori con basse retribuzioni, i sussidi
per madri sole e le indennità di infortunio e di invalidità.
In particolare, è stata ridotta la generosità della
prestazione, sia sul piano dellimporto sia su quello della
durata; sono state inserite nuove regole (partecipazione del disoccupato
ai programmi di occupazione e formazione) e sanzioni più
severe sulla indisponibilità al lavoro dei percettori di
sussidio.
Come contropartita alla modifica dei tradizionali ammortizzatori
passivi, il governo ha lanciato numerosi programmi attivi di promozione
delloccupazione, concentrati nelle regioni più svantaggiate,
e nuovi programmi di formazione e di aggiornamento obbligatori.
Per i più giovani, è stato avviato un programma di
recupero occupazionale, ricorrendo a nuove leve fiscali: prevede
che tutti i giovani sotto i 25 anni, disoccupati per più
di quattro mesi, scelgano tra quattro opzioni: la formazione, un
posto di lavoro, il volontariato, oppure limpiego nel settore
ambientale. Dal 1998 al 2000 sono entrati nel programma 470 mila
giovani, 215 mila dei quali hanno poi trovato lavoro.
In epilogo. Qualcuno lo ha definito «il cammino della
libertà», una via duscita da una società
dove le gerarchie erano tre, partiti, sindacati e grandi Stati,
ma il sistema di potere era uno solo. E lo ha raccontato in questo
modo: le masse legate al vecchio equilibrio scompaiono come i dinosauri;
al loro posto si vanno affermando i mammiferi, più flessibili
e abili... Chissà se lartigiano qualunque, per autodefinizione
imprenditore personale, iscritto dufficio a un
partito di lavoratori indipendenti che raccoglie 13
milioni di cittadini, pari al 51 per cento del mondo degli occupati
in Italia, si senta davvero un poco mammifero. Certo, però,
appartiene a pieno titolo a quel popolo di fuoriusciti che, mentre
il sindacato trasformava in diritto tutto ciò che si poteva
immaginare per garantire i garantiti, si è ritrovato lontano
dal raggio dazione delle tutele tradizionali. Coniugare oggi,
in una società segnata da profonde diseguaglianze, voglia
di libertà individuale e diritto al lavoro, trovare un punto
dincontro tra ipertutelati, tutelati ed esclusi, è
la trincea politica del riformismo. Una trincea che il laburismo
di casa nostra ha dimenticato, o quanto meno sottovalutato, e che
il conservatorismo ha abilmente intercettato ai fini elettorali,
ma non ha ancora dimostrato di sapere espugnare. Lo snodo politico
italiano, un bivio molto stretto dove si intrecciano lunicità
del lavoro indipendente e pericolose resistenze ideologiche, forti
squilibri territoriali, il valore alto della persona e il suo diritto
morale ad unoccupazione vera e non assistenziale, è
tutto qui. Uscire dalla cultura della sovvenzione perpetua al disoccupato,
o, peggio ancora, di una sorta di rottamazione umana,
la politica di piccolo cabotaggio delle pensioni di invalidità
o baby, è diventato un imperativo assoluto.
LItalia, a modo suo, senza traumi eccessivi, ha cambiato volto.
Il suo stato anagrafico economico e sociale ha espresso e continua
ad esprimere bisogni sempre nuovi. Il cammino della libertà
avanza, guadagna terreno e mette a nudo le mille incongruenze che,
insieme, hanno fatto assurgere a sistema le anomalie italiane. Riformare
il mercato del lavoro, ma anche mettere sotto controllo la spesa
previdenziale, ridurre stabilmente i prelievi fiscali e contributivi,
ammodernare per davvero la scuola, sono precondizioni indispensabili
per assicurare al Paese un futuro di sviluppo equilibrato.
Ha ragione chi ricorda che cè un mondo nuovo che va
capito in fretta; e fa bene chi insiste sulla volontà di
perseguire il dialogo sociale per sconfiggere lItalia della
conservazione: purché sappia che i conservatorismi non hanno
un solo colore politico; ciò che li distingue, ovunque e
da sempre, è un congenito trasversalismo.
Riformismo, dunque, e non trasformismo occulto, con annesse frontiere
di accanita difesa di privilegi. Tutto questo ha già connotato
il nostro passato, anche recente, e ha finito per condurci in fondo
a quasi tutte le graduatorie continentali, come emerge dai dati
su riportati. E pur vero che gli italiani non sono propensi
alle rivoluzioni, anche le più creative e morbide, che non
siano poco più che fuochi di paglia. Ma è proprio
questa cultura che va sgretolata, ed è sulla responsabilità
di tutti, sullobbligo di compiere i propri doveri, oltre che
reclamare i propri diritti, che va ricostruita unantropologia
complessiva diversa, al passo o al trotto con i tempi. Altrimenti
continueremo a parlare di miracoli (portoghese, irlandese,
olandese), estranei alla nostra economia e al nostro sviluppo. Cancellando
forse per sempre il nome del futuro per un Paese ancora dualistico,
ancora schizofrenico, di separati in casa e di centrifughi in Europa
e nel Mediterraneo.
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