Settembre 2002

IL MERCATO DEL LAVORO IN ITALIA

Indietro
L’anomalia come sistema
Renato Pietranera  
 
 

 

 

 

In una società
segnata da profonde diseguaglianze,
trovare un punto d’incontro tra
ipertutelati, tutelati ed esclusi è la trincea politica
del riformismo.

 

Lentamente, ma in maniera costante, il Vecchio Continente si sta muovendo nella direzione della modernizzazione del mercato del lavoro. Il bilancio che la Commissione Europea traccia nel Joint employement report 2001 è positivo: sono stati fatti progressi sia in termini occupazionali che in termini qualitativi. Ma se dall’Unione europea si passa ai singoli Stati membri, saltano subito all’occhio grandi divergenze. C’è chi eccelle in tutti i campi, chi arranca ma riesce comunque a tenere il passo, e chi infine versa in una situazione disastrata. E il nostro Paese, purtroppo, rientra nel novero di questi ultimi Stati.

Disoccupazione. Se il tasso di disoccupazione italiano decresce anno dopo anno (le proiezioni dell’Ocse prevedono nel 2002 un tasso del 9,2 per cento), rimangono problemi irrisolti. In primo luogo, la questione occupazionale nelle regioni meridionali, che presenta picchi altissimi in diverse aree (fino al 21 per cento della forza lavoro disponibile), che stanno tornando ad essere centri di espulsione demografica, con un tipo di emigrazione non più generica, ma connotata da un buon livello intellettuale.
Fra l’altro, su un milione e 400 mila famiglie italiane prive di reddito, oltre la metà sono localizzate nel Mezzogiorno, eredità delle politiche scombinate in favore del Sud, ed emblema dell’inossidabile dualismo che caratterizza la politica economica nazionale.
Altro problema, quello della disoccupazione femminile, che nel 2000 si è attestata intorno al 15 per cento di media nazionale: un dato che relega l’Italia nelle ultime posizioni. Solo Spagna e Grecia, in ambito Ue, presentano tassi più elevati. Danimarca (5 per cento) e Olanda (3,5 per cento) sono i Paesi più virtuosi, mentre Francia (12 per cento) e Germania (8,7 per cento) si difendono.

Sul fronte della disoccupazione di lunga durata – un utile indicatore che evidenzia problemi strutturali nel mercato del lavoro – l’Italia è il Paese con più persone disoccupate da oltre dodici mesi di tutta l’Ue, col 60,8 per cento sul totale dei disoccupati. Se il 6 per cento degli Stati Uniti può essere spiegato in funzione del diverso tipo di mercato, il 42,5 per cento della Francia, il 28 per cento del Regno Unito e il 51,5 per cento della Germania denotano un distacco difficilmente giustificabile: «Il lavoro sommerso – commenta l’Ocse – non basta a spiegare un divario così grande».

Occupazione. Anche in questo settore l’Italia si ritrova nelle retrovie. I dati sono inoppugnabili: con soltanto il 53,4 per cento di impiegati sul totale della forza lavoro, siamo il fanalino di coda dell’Unione europea. Il 72,4 per cento del Regno Unito e il 66,3 per cento della Germania sembrano traguardi irraggiungibili. Per non parlare dell’occupazione femminile, vera e propria piaga del nostro Paese, l’unico a scendere sotto la soglia del 40 per cento. Regno Unito (65,5 per cento) e Germania (57,7 per cento) anche in questo campo ci guardano dall’alto. «In Italia – confermano all’Ocse – si comincia a lavorare tardi e si finisce prima degli altri». Ma questo potrebbe far parte anche della qualità della vita. O no?

Il lavoro. Con solo il 7,9 per cento degli impiegati a tempo parziale sul totale della forza lavoro, l’Italia è penultima su scala europea. Soltanto la Grecia (6,1 per cento) è sotto di noi. Davvero poca cosa, rispetto al 39,4 per cento dell’Olanda o al 24,8 per cento del Regno Unito. Ma anche rispetto al 19 per cento della Germania e al 17,2 per cento della Francia.
Sul fronte normativo, persistono ampie divergenze in merito alla definizione di questo strumento, agli incentivi e alla durata. Anche il lavoro interinale presenta a livello europeo un quadro piuttosto frammentario dal punto di vista normativo: mentre Francia, Spagna, Italia e Germania hanno un modello di regolamentazione restrittivo, Olanda e Regno Unito presentano un modello liberale. In materia di sussidi alla disoccupazione, primeggia l’Olanda, con una spesa nel 2000 pari al 2 per cento del Prodotto interno lordo. La Germania spende l’1,9 per cento, mentre Italia e Regno Unito poco più dello 0,50%.

In Francia. Il primo gennaio 2002 non doveva vedere solo l’esordio dell’euro, ma anche la piena applicazione delle 35 ore, con l’estensione dell’orario ridotto alle aziende con meno di 20 addetti e ai funzionari pubblici. Invece le aziende più piccole hanno ottenuto una proroga di tre anni (sino alla fine del 2004) per adeguarsi. Il governo ha concesso loro agevolazioni in termini di costo e di “tetto’’ di ore di straordinario in modo da consentire un periodo morbido di transizione. In particolare, il tetto di ore straordinarie è stato portato da 130 a 180 nel 2002, per ridiscendere a 170 nel 2003 e a 130 nel 2004. Finora sono passati all’orario ridotto sette milioni e mezzo di lavoratori appartenenti a 94 mila aziende; nel periodo di transizione sono coinvolti 4,8 milioni di addetti del settore privato e oltre cinque milioni di dipendenti pubblici. L’orario ridotto ha consentito la creazione di 380 mila posti di lavoro: un bilancio ritenuto “magro” dagli industriali, che sono sul piede di guerra per il ritorno all’orario pieno settimanale.

In Olanda. Si parla di “miracolo olandese”. L’entrata in vigore del part-time è servita per combattere la disoccupazione, soprattutto femminile. Oggi il Paese vanta un tasso di senza lavoro pari al 2,4 per cento, con una quota di part-time che supera il 40 per cento del totale forza lavoro. Tra i lavoratori a tempo parziale, il 75 per cento è rappresentato da donne.
Chiave di volta di una rivoluzione avviata negli anni Novanta è stato il “Flexicurity act”, entrato in vigore nel gennaio ‘99, che da una parte ha reso più flessibile il lavoro a tempo indeterminato, e dall’altra, grazie a un articolato sistema di incentivi, ha reso più agevole il passaggio dal lavoro temporaneo a quello fisso, (grazie al “Flexicurity act”, la metà dei lavori precari olandesi in poco meno di un biennio è diventata stabile).
E’ comunque un modello non esportabile. Un recente rilevamento Eurostat dimostra che il lavoro a tempo parziale è ampiamente accettato dai giovani e dai lavoratori con più di 55 anni. Infatti in Olanda è diffusa l’abitudine ad avere impegni di lavoro durante il corso degli studi, com’è diffuso il desiderio di combinare lavoro e cura dei figli, anche tra gli uomini. Ugualmente diffuso l’utilizzo del tempo parziale per ridurre gradualmente l’attività lavorativa prima del pensionamento. Una mentalità all’avanguardia, che trova ben pochi riscontri nel resto d’Europa.

In Spagna. L’introduzione di agevolazioni innovative ha contribuito a ridurre la disoccupazione dal 23 al 14 per cento, ma ora è scattata la fase di aggiustamento, con un rafforzamento delle tutele per i contratti a tempo. Per combattere la tendenza a impiegare in part-time lavoratori che in realtà svolgevano attività continuativa, il governo ha varato diverse misure. La prima impone il pagamento a scadenza dei contratti (la cui durata massima viene portata da 13,5 a 12 mesi) di un’indennità pari a otto giorni di lavoro per anno lavorato. La seconda, al contrario, mira a stimolare i datori di lavoro a offrire impieghi a tempo indefinito prorogando la possibilità di stipulare i cosiddetti “contratti di stimolo all’occupazione”, introdotti nel ‘97. Si tratta di una modalità inizialmente rivolta ai giovani dai 18 ai 29 anni, ai maggiori di 45 anni, ai disoccupati da oltre un anno, agli occupati con contratto a termine, con un’indennità – in caso di licenziamento non giustificato – pari a 33 giorni per anno lavorato, contro i 45 dei contratti normali. Ora tale contratto è stato esteso ad altre categorie, come i giovani dai 16 ai 30 anni e le donne dei settori a maggiore disoccupazione. Inoltre, si è reso più flessibile il riparto della giornata. E’ stata introdotta l’esenzione totale dei contributi, per un anno, in caso di contratti a donne disoccupate da molto tempo e nei primi 24 mesi dopo il parto.

In Germania. Si continua a lavorare per far fronte ai problemi sorti con la riunificazione. Il sistema delle clausole di uscita, introdotto nel ‘93 per il territorio dell’Est, ma ora applicabile in tutto il territorio tedesco, prevede particolari deroghe al contratto collettivo (stabilito a livello federale o di Länder) per permettere una maggiore flessibilità salariale. Esistono quattro tipi di deroghe: per crisi, (introdotte proprio nel ‘93 nel settore metalmeccanico dell’Est per consentire alle imprese prossime al fallimento, ma con un promettente piano di risanamento, di essere esentate dagli accordi collettivi e dai livelli salariali definiti); per uscita con diritto di veto, (non limitate all’Est, concedono libertà di contrattazione a livello aziendale, ma possono essere sottoposte al veto delle parti della contrattazione collettiva); per uscita senza diritto di veto, (in cui la decisione è pienamente nelle mani delle rappresentanze sindacali aziendali e del management); per deroghe in favore delle piccole imprese, (le aziende con meno di 15 dipendenti possono pagare salari fino al 6 per cento inferiori rispetto a quelli contrattati collettivamente).
Il sistema ha funzionato negli anni immediatamente successivi alla riunificazione tedesca, quando il principio di “ugual salario per ugual lavoro” aveva elevato eccessivamente i salari dei lavoratori dell’Est, aggravando una situazione occupazionale già delicata a causa delle grandi ristrutturazioni in atto nel Paese. Oggi il modello sembra in crisi, perché le organizzazioni sindacali tendono sempre più a respingere questi negoziati, temendo il venir meno di una solidarietà a livello nazionale, mentre le imprese investono sempre più massicciamente nei Paesi dell’Europa orientale.

Nel Regno Unito. “Making work pay”. Alla fine degli anni Novanta, il governo laburista ha messo in atto una severa riforma del Welfare State, introducendo incisive innovazioni nel sistema dei sussidi di disoccupazione. Il filo rosso della riforma è stato proprio «rendere più conveniente il lavoro rispetto alla semplice ricezione dei sussidi». Una riforma che ha toccato non soltanto i sussidi di disoccupazione, ma anche gli assegni ai lavoratori con basse retribuzioni, i sussidi per madri sole e le indennità di infortunio e di invalidità. In particolare, è stata ridotta la generosità della prestazione, sia sul piano dell’importo sia su quello della durata; sono state inserite nuove regole (partecipazione del disoccupato ai programmi di occupazione e formazione) e sanzioni più severe sulla indisponibilità al lavoro dei percettori di sussidio.
Come contropartita alla modifica dei tradizionali ammortizzatori passivi, il governo ha lanciato numerosi programmi attivi di promozione dell’occupazione, concentrati nelle regioni più svantaggiate, e nuovi programmi di formazione e di aggiornamento obbligatori. Per i più giovani, è stato avviato un programma di recupero occupazionale, ricorrendo a nuove leve fiscali: prevede che tutti i giovani sotto i 25 anni, disoccupati per più di quattro mesi, scelgano tra quattro opzioni: la formazione, un posto di lavoro, il volontariato, oppure l’impiego nel settore ambientale. Dal 1998 al 2000 sono entrati nel programma 470 mila giovani, 215 mila dei quali hanno poi trovato lavoro.

In epilogo. Qualcuno lo ha definito «il cammino della libertà», una via d’uscita da una società dove le gerarchie erano tre, partiti, sindacati e grandi Stati, ma il sistema di potere era uno solo. E lo ha raccontato in questo modo: le masse legate al vecchio equilibrio scompaiono come i dinosauri; al loro posto si vanno affermando i mammiferi, più flessibili e abili... Chissà se l’artigiano qualunque, per autodefinizione “imprenditore personale”, iscritto d’ufficio a un “partito” di lavoratori indipendenti che raccoglie 13 milioni di cittadini, pari al 51 per cento del mondo degli occupati in Italia, si senta davvero un poco mammifero. Certo, però, appartiene a pieno titolo a quel popolo di fuoriusciti che, mentre il sindacato trasformava in diritto tutto ciò che si poteva immaginare per garantire i garantiti, si è ritrovato lontano dal raggio d’azione delle tutele tradizionali. Coniugare oggi, in una società segnata da profonde diseguaglianze, voglia di libertà individuale e diritto al lavoro, trovare un punto d’incontro tra ipertutelati, tutelati ed esclusi, è la trincea politica del riformismo. Una trincea che il laburismo di casa nostra ha dimenticato, o quanto meno sottovalutato, e che il conservatorismo ha abilmente intercettato ai fini elettorali, ma non ha ancora dimostrato di sapere espugnare. Lo snodo politico italiano, un bivio molto stretto dove si intrecciano l’unicità del lavoro indipendente e pericolose resistenze ideologiche, forti squilibri territoriali, il valore alto della persona e il suo diritto morale ad un’occupazione vera e non assistenziale, è tutto qui. Uscire dalla cultura della sovvenzione perpetua al disoccupato, o, peggio ancora, di una sorta di “rottamazione umana”, la politica di piccolo cabotaggio delle pensioni di invalidità o baby, è diventato un imperativo assoluto.
L’Italia, a modo suo, senza traumi eccessivi, ha cambiato volto. Il suo stato anagrafico economico e sociale ha espresso e continua ad esprimere bisogni sempre nuovi. Il “cammino della libertà” avanza, guadagna terreno e mette a nudo le mille incongruenze che, insieme, hanno fatto assurgere a sistema le anomalie italiane. Riformare il mercato del lavoro, ma anche mettere sotto controllo la spesa previdenziale, ridurre stabilmente i prelievi fiscali e contributivi, ammodernare per davvero la scuola, sono precondizioni indispensabili per assicurare al Paese un futuro di sviluppo equilibrato.

Ha ragione chi ricorda che c’è un mondo nuovo che va capito in fretta; e fa bene chi insiste sulla volontà di perseguire il dialogo sociale per sconfiggere l’Italia della conservazione: purché sappia che i conservatorismi non hanno un solo colore politico; ciò che li distingue, ovunque e da sempre, è un congenito trasversalismo.
Riformismo, dunque, e non trasformismo occulto, con annesse frontiere di accanita difesa di privilegi. Tutto questo ha già connotato il nostro passato, anche recente, e ha finito per condurci in fondo a quasi tutte le graduatorie continentali, come emerge dai dati su riportati. E’ pur vero che gli italiani non sono propensi alle rivoluzioni, anche le più creative e morbide, che non siano poco più che fuochi di paglia. Ma è proprio questa cultura che va sgretolata, ed è sulla responsabilità di tutti, sull’obbligo di compiere i propri doveri, oltre che reclamare i propri diritti, che va ricostruita un’antropologia complessiva diversa, al passo o al trotto con i tempi. Altrimenti continueremo a parlare di “miracoli” (portoghese, irlandese, olandese), estranei alla nostra economia e al nostro sviluppo. Cancellando forse per sempre il nome del futuro per un Paese ancora dualistico, ancora schizofrenico, di separati in casa e di centrifughi in Europa e nel Mediterraneo.

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000