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glintellettuali
meridionali han fatto cento rivoluzioni nelle loro teste, senza
riuscire a farne
fare neanche una
al popolo.
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E stato Sergio Romano, fine commentatore politico, a tirar
fuori la vicenda del silenzio di politici e intellettuali sulla
questione meridionale, scomparsa dalla scena dalla fine
degli orribili anni Ottanta, dopo essere stata questione nazionale
e persino questione europea. Cioè nulla, cui si era aggiunto
il niente. Eppure, in tutti i programmi governativi, fino ad oggi,
in qualche modo del Sud si era e si è parlato, con provvedimenti
che in realtà riguardavano lintero Paese, e con quel
progetto di Sviluppo Italia che già la diceva
lunga con il logo, e che comunque è andato ben poco al di
là delle mere (buone?) intenzioni. Sicché aveva perfettamente
ragione Pasquale Saraceno, padre nobile del meridionalismo, il quale
affermava che quando per il Mezzogiorno non si sapeva che fare,
si varava una società finanziaria, sinventava qualche
cosa, insomma, tanto per far fumo negli occhi, in realtà
perpetuando la politica dualistica italiana.
Oggi, a quanto pare, si è smesso di vendere il nulla, di
lavorare di fantasia, e di far finta di regalare qualche spicciolo.
Con sei giovani su dieci senza lavoro e con un divario di reddito
di 33 punti percentuali, il Sud ha bisogno non tanto di nuove politiche
speciali, di piccole o grandi elemosine, ma piuttosto di un piano
organico di riforme strutturali e di investimenti reali, pubblici
e privati. Nellinteresse del Mezzogiorno, ma insieme del Paese,
del Meridione come del Settentrione. Il che vale molto di più
di qualunque ente preposto allo sviluppo delle regioni meridionali,
perché rompe con la pratica logora e imbarazzante, oltre
che devastante, dellassegno sociale, restituisce dignità
a quel popolo dei senza diritti, o a sovranità limitata,
che da troppo tempo ci si ostina a non voler vedere. Una politica
di riforme incisive e una progettualità concreta per il Sud,
dove ancora dominano larghe fasce di illegalità, uno specialissimo
sommerso e un numero infinito di compromessi e di distorsioni sono
destinati a moltiplicare gli effetti positivi perché restituiscono
regole, danno diritti a chi non ne ha e consegnano strumenti effettivi
nelle mani di quella esigua classe dirigente impegnata in prima
fila nella battaglia della trasparenza e della civiltà.
E stato scritto che per troppo tempo, indulgendo a un semplicismo
di maniera (quello che ha consentito liquidazioni sommarie di vecchi
e nuovi meridionalismi), si è arrivati a confondere le buone
prove delle imprese esportatrici meridionali che avendo subìto
e superato una selezione darwiniana sanno evidentemente fare molto
bene il loro mestiere con un ipotetico sorpasso del Mezzogiorno
nei confronti del Nord. Il dato di fatto che, in pochi anni, la
quota di export meridionale sia passata dal 9 a circa il 12 per
cento significa che ci sono un tessuto industriale e una risorsa
giovanile sui quali il Paese farebbe bene a investire, ma anche
che cè ancora molto da fare, se è vero, comè
vero, che un terzo della popolazione continua ad esprimere poco
più di un decimo della sua capacità di esportare.
Negli anni della Solidarietà nazionale, il Pci
di Berlinguer chiese e ottenne la testa di Gabriele Pescatore, il
presidente della prima Cassa per il Mezzogiorno, quella che con
diciottomila miglia di strade «cucì lo Stivale»
facendo, come scrisse lEconomist dellepoca, ciò
che Cavour aveva erroneamente predetto per le ferrovie un secolo
prima. Pescatore ha sempre sostenuto che il Pci non gli perdonava
di essere lunico caso al mondo di attuazione con successo
del dogma della pianificazione comunista, ma a vantaggio dei potentati
democristiani. Non sappiamo se le cose stessero esattamente in questo
modo; di sicuro, fu un grave errore sostituirlo. Dopo di lui, le
Casse si moltiplicarono a dismisura, aumentò vertiginosamente
il numero dei dipendenti, ma di opere pubbliche non se ne videro
più. Un errore nel quale è incorsa spesso la Sinistra
durante la prima repubblica, quando pensava di sostituire le persone
e non di affrontare i problemi. Gli uomini cambiano, ma i problemi
restano, e spesso, come insegna il Sud, si ingigantiscono.
Le infrastrutture, ma anche il fisco, la sicurezza e la flessibilità,
sono il pane di cui hanno più urgente bisogno leconomia
e la società del Mezzogiorno per provare a far lievitare
in proprio una prospettiva duratura di sviluppo. Come allora sarebbe
stato utile con i trecento ingegneri della prima Cassa per il Mezzogiorno:
non a caso uomini del calibro di Donato Menichella e di Ugo La Malfa
ne volevano fare lorgano tecnico della programmazione nazionale
del Paese.
La puntualizzazione della questione come problema di
classe dirigente resta senzaltro un grande merito di Guido
Dorso, che vedeva come protagonista della rivoluzione meridionale
da lui auspicata «unélite anche poco numerosa,
ma che abbia idee chiare». Le idee chiare dovevano derivare
da una percezione della natura autentica che il problema dellarretratezza
meridionale ormai storicamente aveva assunto.
Il meridionalista non ne faceva carico esclusivamente allo Stato
unitario italiano uscito dal Risorgimento. Vedeva, però,
nella struttura accentrata di questo Stato e nei rapporti politici
stabilitisi tra le sue varie parti una ragione decisiva per la permanenza
del Mezzogiorno in una condizione arretrata. Era necessario, dunque,
scardinare la struttura accentrata: una larghissima autonomia politico-amministrativa
del Sud e lassunzione delle massime responsabilità
in questo quadro autonomistico da parte dellélite a
cui pensava apparivano come le due componenti della rivoluzione.
Ma da dove sarebbe uscita fuori lélite? Dorso non aveva
dubbi: dalla «borghesia umanistica» del Sud, vale a
dire dalla classe sociale più criticata dai meridionalisti
(si pensi a Salvemini) e dagli studiosi di politica e di sociologia
meridionale. Vero è pensava che questa classe
era stata il costante sostegno della struttura feudale, prima, e
del blocco agrario, in seguito, dominante nel Mezzogiorno e principale
avversario di ogni trasformazione e riforma meridionalistica. Ma
i rapporti tra borghesia umanistica e classi dominanti non gli apparivano
organici e inalterabili. Quella borghesia poteva staccarsi dalle
alleanze che storicamente aveva praticato ed esprimere essa stessa,
che ne aveva la capacità culturale e tecnica, la forza richiesta
dalla rivoluzione meridionale. E ciò tanto più,
in quanto lélite a cui pensava non doveva essere particolarmente
numerosa: sarebbero stati sufficienti «cento uomini di ferro».
Al di là del numero (determinazione volutamente approssimativa),
il vero problema del Mezzogiorno si incentrava su una propria classe
dirigente, in grado di esprimere una rivoluzione come
grande primavera dello spirito, come rinnovamento intimo per la
nascita di un uomo nuovo, come sussulto propagato a tutta la superficie
dallo scuotersi degli strati profondi della società, come
esplosione di unintensa carica ed energia morale.
Che cosa cè, in tutto questo, che in qualche modo non
sia attuale ancora oggi, così come lo era unottantina
di anni fa, quando il meridionalista avellinese ne parlava? Certo,
infinite cose sono cambiate da allora, e anche il Sud non è
più lo stesso e presenta un quadro molto diverso. Ma il problema
della trasformazione resta quello di un rinnovamento dello spirito
e della volontà del Mezzogiorno, in relazione alla sua vita
politica e civile. Resta la necessità di una cultura del
rinnovamento, che ne individui con chiarezza i programmi e le strategie,
oltre che le finalità.
A tanti anni di distanza, nello stato in cui è ora il Sud,
dopo tanti lustri di intervento e di interventi straordinari, non
possiamo non raccogliere la bandiera dorsiana: il clientelismo e
lassistenzialismo hanno pervaso i grandi partiti, non solo
nel Mezzogiorno, e si sono riprodotti in forme diverse i vizi delle
antiche classi dirigenti, aggiungendo malcostume, corruzione e collusione
con il potere criminale, solo in parte, e a volte malamente, perseguiti.
In questa condizione, acquista nuova attualità il nucleo
fondamentale del pensiero di Dorso, così profondamente ispirato
a Mazzini e a Cattaneo: il futuro del continente Sud è legato
a una profonda riforma autonomistica e alla rigenerazione etico-politica
del ceto dirigente meridionale.
E il compito che ci sta davanti, allargato ormai allintero
Paese, che dobbiamo far nostro, percorrendo la strada indicata dai
grandi meridionalisti, dal loro pensiero aggiornato, dalla loro
lezione morale, come percorso obbligato per il riscatto del Sud.
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