Settembre 2002

UNA BANDIERA DA RACCOGLIERE

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L’élite mancata degli “uomini di ferro”
Lello Boda  
 
 

 

 

 

“Ricorda:
gl’intellettuali
meridionali han fatto cento rivoluzioni nelle loro teste, senza riuscire a farne
fare neanche una
al popolo”.

 

E’ stato Sergio Romano, fine commentatore politico, a tirar fuori la vicenda del silenzio di politici e intellettuali sulla “questione meridionale”, scomparsa dalla scena dalla fine degli orribili anni Ottanta, dopo essere stata questione nazionale e persino questione europea. Cioè nulla, cui si era aggiunto il niente. Eppure, in tutti i programmi governativi, fino ad oggi, in qualche modo del Sud si era e si è parlato, con provvedimenti che in realtà riguardavano l’intero Paese, e con quel progetto di “Sviluppo Italia” che già la diceva lunga con il logo, e che comunque è andato ben poco al di là delle mere (buone?) intenzioni. Sicché aveva perfettamente ragione Pasquale Saraceno, padre nobile del meridionalismo, il quale affermava che quando per il Mezzogiorno non si sapeva che fare, si varava una società finanziaria, s’inventava qualche cosa, insomma, tanto per far fumo negli occhi, in realtà perpetuando la politica dualistica italiana.

Oggi, a quanto pare, si è smesso di vendere il nulla, di lavorare di fantasia, e di far finta di regalare qualche spicciolo. Con sei giovani su dieci senza lavoro e con un divario di reddito di 33 punti percentuali, il Sud ha bisogno non tanto di nuove politiche speciali, di piccole o grandi elemosine, ma piuttosto di un piano organico di riforme strutturali e di investimenti reali, pubblici e privati. Nell’interesse del Mezzogiorno, ma insieme del Paese, del Meridione come del Settentrione. Il che vale molto di più di qualunque ente preposto allo sviluppo delle regioni meridionali, perché rompe con la pratica logora e imbarazzante, oltre che devastante, dell’assegno sociale, restituisce dignità a quel popolo dei senza diritti, o a sovranità limitata, che da troppo tempo ci si ostina a non voler vedere. Una politica di riforme incisive e una progettualità concreta per il Sud, dove ancora dominano larghe fasce di illegalità, uno specialissimo sommerso e un numero infinito di compromessi e di distorsioni sono destinati a moltiplicare gli effetti positivi perché restituiscono regole, danno diritti a chi non ne ha e consegnano strumenti effettivi nelle mani di quella esigua classe dirigente impegnata in prima fila nella battaglia della trasparenza e della civiltà.

E’ stato scritto che per troppo tempo, indulgendo a un semplicismo di maniera (quello che ha consentito liquidazioni sommarie di vecchi e nuovi meridionalismi), si è arrivati a confondere le buone prove delle imprese esportatrici meridionali – che avendo subìto e superato una selezione darwiniana sanno evidentemente fare molto bene il loro mestiere – con un ipotetico sorpasso del Mezzogiorno nei confronti del Nord. Il dato di fatto che, in pochi anni, la quota di export meridionale sia passata dal 9 a circa il 12 per cento significa che ci sono un tessuto industriale e una risorsa giovanile sui quali il Paese farebbe bene a investire, ma anche che c’è ancora molto da fare, se è vero, com’è vero, che un terzo della popolazione continua ad esprimere poco più di un decimo della sua capacità di esportare.
Negli anni della “Solidarietà nazionale”, il Pci di Berlinguer chiese e ottenne la testa di Gabriele Pescatore, il presidente della prima Cassa per il Mezzogiorno, quella che con diciottomila miglia di strade «cucì lo Stivale» facendo, come scrisse l’Economist dell’epoca, ciò che Cavour aveva erroneamente predetto per le ferrovie un secolo prima. Pescatore ha sempre sostenuto che il Pci non gli perdonava di essere l’unico caso al mondo di attuazione con successo del dogma della pianificazione comunista, ma a vantaggio dei potentati democristiani. Non sappiamo se le cose stessero esattamente in questo modo; di sicuro, fu un grave errore sostituirlo. Dopo di lui, le Casse si moltiplicarono a dismisura, aumentò vertiginosamente il numero dei dipendenti, ma di opere pubbliche non se ne videro più. Un errore nel quale è incorsa spesso la Sinistra durante la prima repubblica, quando pensava di sostituire le persone e non di affrontare i problemi. Gli uomini cambiano, ma i problemi restano, e spesso, come insegna il Sud, si ingigantiscono.
Le infrastrutture, ma anche il fisco, la sicurezza e la flessibilità, sono il pane di cui hanno più urgente bisogno l’economia e la società del Mezzogiorno per provare a far lievitare in proprio una prospettiva duratura di sviluppo. Come allora sarebbe stato utile con i trecento ingegneri della prima Cassa per il Mezzogiorno: non a caso uomini del calibro di Donato Menichella e di Ugo La Malfa ne volevano fare l’organo tecnico della programmazione nazionale del Paese.

La puntualizzazione della “questione” come problema di classe dirigente resta senz’altro un grande merito di Guido Dorso, che vedeva come protagonista della “rivoluzione meridionale” da lui auspicata «un’élite anche poco numerosa, ma che abbia idee chiare». Le idee chiare dovevano derivare da una percezione della natura autentica che il problema dell’arretratezza meridionale ormai storicamente aveva assunto.
Il meridionalista non ne faceva carico esclusivamente allo Stato unitario italiano uscito dal Risorgimento. Vedeva, però, nella struttura accentrata di questo Stato e nei rapporti politici stabilitisi tra le sue varie parti una ragione decisiva per la permanenza del Mezzogiorno in una condizione arretrata. Era necessario, dunque, scardinare la struttura accentrata: una larghissima autonomia politico-amministrativa del Sud e l’assunzione delle massime responsabilità in questo quadro autonomistico da parte dell’élite a cui pensava apparivano come le due componenti della “rivoluzione”.
Ma da dove sarebbe uscita fuori l’élite? Dorso non aveva dubbi: dalla «borghesia umanistica» del Sud, vale a dire dalla classe sociale più criticata dai meridionalisti (si pensi a Salvemini) e dagli studiosi di politica e di sociologia meridionale. Vero è – pensava – che questa classe era stata il costante sostegno della struttura feudale, prima, e del blocco agrario, in seguito, dominante nel Mezzogiorno e principale avversario di ogni trasformazione e riforma meridionalistica. Ma i rapporti tra borghesia umanistica e classi dominanti non gli apparivano organici e inalterabili. Quella borghesia poteva staccarsi dalle alleanze che storicamente aveva praticato ed esprimere essa stessa, che ne aveva la capacità culturale e tecnica, la forza richiesta dalla “rivoluzione meridionale”. E ciò tanto più, in quanto l’élite a cui pensava non doveva essere particolarmente numerosa: sarebbero stati sufficienti «cento uomini di ferro».
Al di là del numero (determinazione volutamente approssimativa), il vero problema del Mezzogiorno si incentrava su una propria classe dirigente, in grado di esprimere una “rivoluzione” come grande primavera dello spirito, come rinnovamento intimo per la nascita di un uomo nuovo, come sussulto propagato a tutta la superficie dallo scuotersi degli strati profondi della società, come esplosione di un’intensa carica ed energia morale.
Che cosa c’è, in tutto questo, che in qualche modo non sia attuale ancora oggi, così come lo era un’ottantina di anni fa, quando il meridionalista avellinese ne parlava? Certo, infinite cose sono cambiate da allora, e anche il Sud non è più lo stesso e presenta un quadro molto diverso. Ma il problema della trasformazione resta quello di un rinnovamento dello spirito e della volontà del Mezzogiorno, in relazione alla sua vita politica e civile. Resta la necessità di una cultura del rinnovamento, che ne individui con chiarezza i programmi e le strategie, oltre che le finalità.
A tanti anni di distanza, nello stato in cui è ora il Sud, dopo tanti lustri di intervento e di interventi straordinari, non possiamo non raccogliere la bandiera dorsiana: il clientelismo e l’assistenzialismo hanno pervaso i grandi partiti, non solo nel Mezzogiorno, e si sono riprodotti in forme diverse i vizi delle antiche classi dirigenti, aggiungendo malcostume, corruzione e collusione con il potere criminale, solo in parte, e a volte malamente, perseguiti. In questa condizione, acquista nuova attualità il nucleo fondamentale del pensiero di Dorso, così profondamente ispirato a Mazzini e a Cattaneo: il futuro del continente Sud è legato a una profonda riforma autonomistica e alla rigenerazione etico-politica del ceto dirigente meridionale.
E’ il compito che ci sta davanti, allargato ormai all’intero Paese, che dobbiamo far nostro, percorrendo la strada indicata dai grandi meridionalisti, dal loro pensiero aggiornato, dalla loro lezione morale, come percorso obbligato per il riscatto del Sud.

   
   
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