Settembre 2002

IL CORSIVO

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Il buio oltre l’Europa
Aldo Bello  
 
 

 

 

 

Dovremmo avere
il coraggio
di rivisitare non
soltanto il passato, ma anche
e soprattutto
i nostri modi
di concepirlo,
di leggerlo
e interpretarlo.

 

Fronte occidentale. Ultimo episodio di una vecchia storia: l’America crede al libero commercio e ne predica l’espansione, ma non esita, se la politica interna lo esige, ad adottare misure protezioniste. Quando un Presidente chiede al Congresso una procedura d’urgenza (una delega per gli accordi commerciali che verranno negoziati nei mesi seguenti), deve pagare uno scotto ai settori più vulnerabili e meno efficienti dell’industria americana. Ma nel caso dei dazi sull’acciaio (trenta per cento imposto per proteggere le industrie siderurgiche delle aree in cui il consenso elettorale repubblicano è vacillante), la vicenda ha assunto aspetti inediti.
La Commissione europea ha reagito duramente e ha preso misure difensive. Fra l’altro, a Washington, in un incontro della Trilaterale (un circolo di riflessione e di discussione fra Europa, America e Giappone, fondato negli anni Sessanta, in grado di orientare, se non proprio di condizionare le politiche di sviluppo del mondo), europei e americani si sono apertamente scontrati. E Robert Zoellick, responsabile della politica commerciale statunitense, poco dopo ha esortato i cinesi a non schierarsi con i «running dogs of european imperialism», con i cani sfrenati dell’imperialismo europeo.
Nella bocca di Mao all’epoca della rivoluzione culturale, o in quella di Pol Pot ai tempi del genocidio cambogiano, la frase non avrebbe sorpreso. Pronunciata, sia pure con un filo di ironia, da un ministro dell’amministrazione Bush, è indice, oltre che di un discutibile gusto, di un pessimo clima.
Lo stesso clima che ha consentito a un ex premier israeliano, Benjamin Netanyahu, di attaccare aspramente l’Europa in una conferenza nella capitale americana. Giunto negli Stati Uniti per convincere Bush a non ostacolare le operazioni di Sharon in Palestina, Netanyahu ha parlato sprezzantemente della politica europea nel Vicino Oriente, sostenendo che «da governi come questi non si sarebbe aspettato nulla di diverso». Molti ascoltatori americani hanno annuito.

Quelli dell’acciaio e della Palestina sono soltanto due fra i numerosi temi e problemi sui quali Europa e America hanno visioni e posizioni contrastanti. Sono divise e lontane anche su alcune grandi questioni etico-politiche (pena di morte, tribunale penale internazionale), sugli indirizzi di politica economica e ambientale (protocollo di Kyoto), sul regime antitrust da applicare alle grandi fusioni e alle grandi acquisizioni, sui rapporti con l’Iran, sull’opportunità di un’azione militare contro l’Iraq, e probabilmente (anche se se ne parla il meno possibile) sui compiti della forza internazionale a Kabul.
Non manca chi, dietro le quinte, si adopera a ricucire i rapporti e a ricordare l’utilità dell’alleanza. Ma l’America di Bush è palesemente diventata, dopo l’11 settembre, unilateralista, brusca, ininfluenzabile. Vale a dire, convinta di non dover prestare alcuna attenzione ai consigli di nessuno; mentre l’Europa, dal canto suo, esprime la propria impotenza in alcune circostanze (le sanzioni proposte contro Israele) con iniziative velleitarie o avventate. E non solo. L’accordo con la Russia è una buona cosa, ma modifica la natura della Nato e la priva in buona parte del suo originario carattere euro-americano. I contrasti sono inevitabili e forse anche necessari nel momento in cui l’Unione europea vuole giustamente contare più della somma dei suoi membri. Ma Washington fa orecchio da mercante. Di qui, la crisi dei rapporti.
Più di sessant’anni fa, Churchill e Roosevelt si incontrarono a bordo di una nave nel mezzo dell’oceano e firmarono la Carta Atlantica. Se non vogliamo che quell’oceano diventi più largo, è ora di sottoscriverne un’altra, opportunamente aggiornata. O l’Europa sarà costretta a fare da sé.
Fronte orientale. Nei secoli che l’Occidente considera a torto “bui”, la civiltà dell’Islam era tra le più avanzate al mondo, insieme con quella – remota – cinese e con l’altra – in declino – indiana. Che cosa è successo da allora perché l’Occidente recuperasse il terreno perduto, ponendosi ai vertici della ricchezza e dell’influenza, e l’Islam si vedesse bloccato, attorno alle mura di Vienna nel 1683, in quella che sembrava una conquista inarrestabile dell’universo cristiano? Perché, paragonato al rivale millenario, il Cristianesimo, il mondo dell’Islam è diventato povero, ignorante, frustrato? In ultima analisi, che cosa non ha funzionato nella storia dell’Islam?
Secondo uno dei più illustri islamisti contemporanei, Bernard Lewis, docente a Princeton, i musulmani devono cercare la risposta in se stessi, nella propria storia e nel proprio atteggiamento nei confronti del mondo esterno.
La loro religione, di per sé, non fu nemica del progresso: tant’è che ci furono secoli nei quali essa, ancora più centrale di oggi, non impedì che l’Islam fosse «leader nella libertà, nella scienza, nello sviluppo economico». Né è sufficiente sostenere che il declino sia frutto del rifiuto della modernizzazione: in molti campi, l’Islam adottò molte delle innovazioni dell’Occidente (per esempio, in campo militare, dalle armi alle flotte), senza mai raggiungerne tuttavia l’efficienza. Non era certo decisivo chiamare il fratello di Donizetti a dirigere una banda militare per entrare nell’autentica modernità. Eppure l’Islam, paradossalmente, era stato la prima civiltà a compiere significativi progressi verso ciò che essa percepiva come la propria missione universale; solo che fu la moderna civiltà occidentale ad abbracciare l’intero pianeta. Oggi, come riconobbe Atatürk e come si compiacciono di ricordare gli scienziati di computer indiani o le società di hi-tech nipponiche, la civilizzazione dominante è quella occidentale, e perciò gli standard occidentali definiscono la modernità.
Sono dunque in errore molti ambienti islamici quando indicano le responsabilità del declino al sorgere del nazionalismo, o all’imperialismo occidentale, o all’abbandono della retta via segnata dall’integrale abbandono del Corano. Per Lewis, la responsabilità è da ricercare soprattutto in alcuni atteggiamenti che hanno segnato – viceversa – lo sviluppo del mondo cristiano: la mancata separazione tra Chiesa e Stato; la chiusura verso il mondo esterno. Esemplare il caso del rifiuto, proprio da parte di quel mondo islamico che era stato all’avanguardia nel campo, di tradurre, fino al XVIII secolo, qualunque testo di medicina che provenisse dall’Ovest. Lo stesso si può dire per tante altre espressioni della cultura e del sapere occidentali: a partire dalla letteratura, in Paesi che di fatto impedirono per secoli la stampa, ossia la più formidabile arma per il rinnovamento della società e per l’esplosione della civiltà occidentale; fino alle arti figurative, segnate anch’esse dal rifiuto di adottare, per esempio, le tecniche della prospettiva che denotano quello di convertirsi alle tecniche europee di misurazione (e quindi di valutazione) del tempo e dello spazio.
Se Lewis non basta, si scorrano le pagine di un recente, bellissimo romanzo del turco Orhan Pamuk, che ricostruisce nell’Istanbul del 1591 le deviazioni e i fanatismi di una casta pronta a uccidere pur di impedire, appunto, alla peccaminosa tecnica della prospettiva, proveniente da Venezia, di modificare il canone delle miniature islamiche, stupende ma estenuate. «E’ principalmente la mancanza di libertà – la libertà della mente dalla coercizione e dall’indottrinamento; la libertà dell’economia dalla corruzione; la libertà delle donne dall’oppressione maschile; la libertà dei cittadini dalla tirannia» che spiega i guai dell’Islam: dai quali i popoli del Vicino Oriente devono uscire al più presto – avverte Lewis – per sfuggire «a una spirale di odio e risentimento, di rabbia e autocommiserazione, di povertà e oppressione», che ha fiaccato la millenaria grandezza di questa civiltà, e l’ha allontanata, frapponendovi deserti senza vita, dall’Europa.
Fronte centrale. C’è chi sospetta che io non ami l’Europa. In realtà, io non ho molta considerazione per quest’Europa dimezzata al modo del visconte di Calvino, soltanto maastrichtiana, tutta esercizi finanziari e protezionismi occulti, e poco o punto fondata sulle sue grandi e profonde radici culturali, che pure hanno illuminato il mondo.
Non mi fido di un’Unione che falsifica parmigiani, intenerisce spaghetti, adultera vini, e aggira norme per sopraffare le economie mediterranee a vantaggio di quelle continentali, o crea assi preferenziali, con esclusioni premeditate, o ricorre a ipocriti maquillage su bilanci e inflazione, discrimina nel campo della moneta unica, vota a maggioranza assoluta, parla molte lingue all’interno e oltre i confini, amplia i poteri della Bundesbank che poi chiama paradossalmente Banca centrale europea, è condizionata in ogni atto rilevante dal mal francese, dal pendolarismo britannico o dalla tracotanza teutonica, e persino dai lampi d’imbecillità del più artificiale dei Paesi europei, quello belga.
Non avendo saputo essere né una Federazione né una Confederazione, giustamente quella europea è stata chiamata Unione, nel segno di una precarietà che simultaneamente prelude alla necessità di stare insieme per contare qualcosa e un po’ per non morire, e alla prospettiva della crisi, una qualsiasi crisi prossima ventura. Un ircocervo, quest’Europa, frutto degli egoismi nazionali cuciti, e sarebbe meglio dire rattoppati, con una defatigante attività diplomatica tutta ragione e niente cuore, cioè tutta numeri e niente passione. Tutta criteri economici e niente sostrato civile e culturale. E’ l’Europa migliore, è vero, che ci poteva consegnare la sua storia, non saprei dire se più grande o più tragica del secolo appena trascorso. Un’algida Europa che trattiene, senza cementarle e fonderle, quindici Europe ancora minate dall’indistruttibile demone dell’egemonia.

L’arco temporale 1905-1956 ha costituito il cuore di un processo assai più lungo, che si può far iniziare col fatidico 1789, quando nel contesto degli Stati europei si incardinò la ferrea realtà dello Stato “nazionale”, che venne a mano a mano scalzando il vecchio equilibrio continentale risalente alla pace di Westfalia del 1648 e teorizzato da Ranke, per approdare alla crisi fatale di guerre e rivoluzioni che caratterizzò la prima metà del Novecento e ritrovare poi, nella seconda metà, il bandolo grazie al quale ricostruire l’armonia perduta.
Dalla lunga durata non può prescindere neanche lo storico politico, quando abbraccia lo svolgimento dei fenomeni da diversi angoli visuali, sociali, economici, istituzionali.
La grande trasformazione, che si realizzò in Europa fin dal secolo XIX, investì infatti tanto lo Stato quanto la società, ed ebbe la sua chiave di volta nell’idea di “nazione”, che si convertì in ideologia di potenza e si trasformò in principio etnico, richiedendo una omogeneizzazione molto complessa della sua realtà sociale.
Alcuni storici (come Andrea Graziosi) parlano di «neomercantilismo» e di «nazionalizzazione delle masse» come fattori contigui di un identico processo. Contigui, ma non necessariamente convergenti: dal decorso dell’uno può generarsi la “guerra”, da quello dell’altro la “rivoluzione”, e i due processi si trovano inestricabilmente intrecciati nei rapporti tra gli “Stati-nazione” e in quelli all’interno di essi.
Da questi presupposti escono modificati sia la cronologia sia il rilievo storico degli eventi. La Prima guerra mondiale risulta necessariamente il punto di precipitazione di questi processi. Guerra atroce, per il numero di caduti, mutilati, gasati, feriti da tutti i versanti dei suoi numerosi fronti, per il nesso nuovo, mai fino a quel punto sperimentato, tra organizzazione e tecnologia, per la brutalità usata sulle popolazioni civili, in cui è implicito quasi tutto ciò che avverrà nel Secondo conflitto mondiale, in cui l’uso della violenza tra le linee, nelle linee, fuori dalle linee, sembra non avere quasi confini. Guerra nella quale si sperimenta un grado di dominio dello Stato sulla società, mai prima concepito, nell’organizzazione economica e produttiva, negli strumenti di propaganda, nella spersonalizzazione degli individui.
La macchina dello Stato ne esce più forte, disposta a nuovi esperimenti, mentre la “civilisation”, che nel primo decennio del Novecento sembrava aver toccato il suo apice, si rivela «una sottile pellicola, fragile, sopra un fondo di barbarie» che, come ha notato Aron, a sua volta viene a sostituirsi ad essa come «un fondo permanente e più ancora inveterato».
Una guerra, dunque, che porta l’Europa a una condizione di arretramento in cui inoltre nessuna delle cause che l’avevano determinata è stata rimossa. Il Trattato di Versailles è testimonianza massima di questa cecità. Ma soprattutto, sono i fenomeni stessi prodotti dalla guerra a generare, nel ventennio seguente, il secondo atto della tragedia europea. Il principio dell’autodeterminazione, bandiera del wilsonismo, straccia il tessuto dell’Europa centro-orientale, mosaico complesso di nazionalità diverse, conviventi da secoli sugli stessi territori. Un processo che non si chiuderà neppure con il 1945 e che vedrà ancora, fin verso il 1950, migrazioni di popoli, tedeschi, ucraini, polacchi, baltici, russi, italiani, con la definitiva scomparsa della Mitteleuropa, lasciando in vita ancora due realtà multietniche, la Russia sovietica e la Jugoslavia titina, che hanno fatto buon ultime i conti con questi problemi.
A questo primato conferito al “nazionalismo”, come motore del secolo scorso, vanno ricondotti i grandi fenomeni totalitari dai caratteri eminentemente ideologici, cioè astratti, ma che a differenza di altri, nella storia, si sono incarnati in esperienze “reali” e ferocemente conflittuali, che portarono allo sfarinamento del Vecchio Continente. Fino al giorno in cui la Patarina, la campana del Campidoglio, annunciò che dai lutti e dalle macerie ancora fumanti era sorta l’Europa dei Sei, nocciolo nucleare (voluto da eccelsi spiriti) di quella che idealmente era immaginata come la “Patria europea”, e che via via è diventata soltanto somma di patrie tedesche, francesi, italiane..., che più che fondersi, confinano; e spesso, più che confinare, si fronteggiano.

Non è il migliore dei mondi possibili. Eppure, è il nostro mondo. Di qua e di là, in Occidente come in Oriente, non essendoci altri modelli di società mature ma aperte, che non siano tentate da risacche isolazioniste (gli Stati Uniti) o da spirito di rivalsa (l’universo islamico). O che non contrappongano neoimperialismi economici a teocrazie totalizzanti, gli uni e le altre inficianti le spinte di orchestrazione culturale che sono alla base (o che dovrebbero essere alla base) della mutazione del Vecchio Continente da mosaico di Patrie ad un’unica Patria. E questa non è utopia. Molto probabilmente – a proposito – dovremmo avere il coraggio di rivisitare di tanto in tanto non soltanto il passato, ma anche e soprattutto i nostri modi di concepirlo, di leggerlo e interpretarlo.
Tanto per fare un esempio: perché il Medio Evo dovrebbe “terminare” (e la modernità “cominciare”) nel 1492? D’accordo: tutti siamo convinti che qualunque forma di periodizzazione è convenzionale, più che altro simbolica. Ma anche i simboli hanno una loro forza. In quell’anno Colombo sbarcò nel Nuovo Mondo, ma a lungo si ritenne che fosse arrivato in una qualche parte della costa dell’Asia. Ci vollero una buona ventina di anni, prima che ci si rendesse conto di quanto la nuova scoperta avesse cambiato lo stato delle cose. Anche la morte del Magnifico Lorenzo e la conquista cristiana di Granada, accaduti nello stesso “fatale” 1492, hanno un valore simbolico discutibile: nessuno di questi accadimenti cambiò le cose sul serio.
Che per davvero si stesse entrando nell’età nuova lo si capì verso il biennio 1516-1517. L’impero turco, che aveva già fagocitato quello bizantino, incamerò anche l’impero egiziano. Intanto, proprio nel 1517 Martin Lutero definì a Wittenberg le basi per la Riforma della Chiesa: da allora si spaccò la Cristianità e si avviò con estrema chiarezza il processo di laicizzazione del potere.
L’anno precedente, nel 1516, Tommaso Moro – più tardi martire della fede cattolica – aveva scritto il suo trattato sull’Utopia: il regno perfetto di tutte le virtù umane, il regno nel quale gli uomini agiscono come se il peccato originale non li avesse toccati. Ma si trattava di un regno minacciato da due limiti.
Primo limite: era ou topos, non-luogo, il posto che non c’è, al modo dell’isola di Peter Pan. Secondo limite: se esistesse, vanificando il peccato come conseguenza del Peccato Originale, vanificherebbe anche la Redenzione. Una virtù fondata secondo la Ragione e la Natura rende inutile la testimonianza cristiana, quindi Cristo stesso. Il che, se era ovvio all’interno del Grande Modello di Tommaso Moro, cioè di Platone, era tragico per la società del XVI secolo.
L’Utopia fonda la modernità pretendendo che la perfezione possa essere conseguita facendo a meno della Rivelazione. Noi sappiamo tuttavia che tutti gli esperimenti fondati nella pretesa del conseguimento della perfezione altro non hanno mai prodotto, quando hanno tentato di realizzarsi, se non sistemi in qualche modo (gerarchico o livellatore) liberticidi. Quel che si è andato in effetti disegnando, da Campanella a Orwell, è stata la trospettiva totalitaria.
Fino ad oggi, peraltro, le intenzioni degli utopisti sono state gratificate del riconoscimento di una loro intrinseca eticità. I rovinosi risultati di alcune utopie delle quali si è tentata la realizzazione sono stati spesso considerati con indulgenza alla luce della bontà delle intenzioni, o della presunzione che le intenzioni fossero per definizione buone: e non, al contrario, intenzioni deliberatamente false, e pertanto parte integrante di metodi e di obiettivi che hanno condotto al fallimento, con macerie fisiche, psicologiche, economiche e politiche conseguenti.
Allora: la globalizzazione è un’utopia totalizzante? L’espansione di una teocrazia (anche con il ricorso alla dialettica delle armi) è un’utopia totalizzante? E l’Europa può essere l’antidoto preventivo a queste utopie che, se perseguite e realizzate con determinazione, possono preludere a ricorsi storici dagli esiti tuttavia imprevedibili?
Sono domande che sottendono una profonda riflessione sui significati portanti, costitutivi della nostra cultura, della nostra civiltà, del nostro codice genetico emerso dalle esperienze maceranti della tradizione continentale. Che sono esperienze intrise di sangue da guerre civili, certamente; ma anche di portati umanistici, etici, scientifici, che nessun ou topos può sfarinare, reclutandoli nominalisticamente fra i “sacchi di carbone”, vuoti neri tra le galassie remote dal concreto globo terracqueo. Domande, dunque, che reclamano risposte decisive. E condivise.

C’è una solitudine oggettiva dell’Europa, che sembra accompagnarsi a un irriducibile anacronismo. Fra tutte le civiltà avvicendatesi nel pianeta dalla “nascita della Storia”, quella europea è stata senza dubbio l’unica “forte”: per idealità etica, per tendenziale universalità, per complessità culturale, per organizzazione civile, per libertà di pensiero politico e religioso, e via dicendo. Ma l’epoca attuale, della cosiddetta post-modernità, è contrassegnata dalla caduta di tutti i modelli “forti”, a partire dalla logica dei saperi. Nel 1976 due pensatori francesi, Deleuze e Guattari, pubblicarono un piccolo pamphlet, in cui al grande principio classico degli “alberi-radici”, cioè dei sistemi concettuali “verticali”, bisognosi di un saldo fondamento, veniva opposto il principio del “rizoma”, ossia di una vegetalità orizzontale, di un «sistema acentrico, non gerarchico, senza automa centrale, unicamente definito da una circolazione di Stati». Il pensiero a sviluppo orizzontale, senza fondamento e alberatura, “debole”, anarchico, frammentario, oggi pare avanzare dovunque. Economia e politica, scienza e arte, costume e diritto, ne sono conquistati. Siffatta “debolezza” è la forza vincente dei nostri giorni.
Qui non si tratta di pronunziare giudizi di valore, né di parteggiare acriticamente. Occorre osservare e riflettere da neutrali per capire: come cancellare l’anacronismo e la solitudine del Vecchio Continente? Convertendo la tipologia di soggetto “forte” in quella di soggetto “debole”, e con il ridotto rigore delle forme omologando all’attualità l’istituzione, quasi a renderla più “competitiva” sullo scacchiere planetario? Oppure accentuando la tipologia della “forza” e puntando al fascino trainante di un’Unione che può anche stare dentro la globalizzazione, non fosse altro che per umanizzarla, sottraendole le sorti dell’intero mondo dell’uomo?
Nel primo caso, attenuate troppo le forme, si rischia di perdere l’istituzione nell’informe. Nel secondo, accentuandole eccessivamente, l’istituzione corre il pericolo di finire nella maniacalità del formalismo.
Tertium datur? Risponderà la politica, arte del possibile. A noi, fragili dubbiosi uomini stradali, restando solo l’enigmatico dialogo con adorabili parole di Isaia: – Guardia, che notizie dalla notte? –. E la vedetta: – Shomèr-mamillàilah! –. «Viene il mattino e anche la notte!». La luce aggavignata alla tenebra. E insieme con noi ribolle un oceano di interroganti...

   
   
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