Settembre 2002

GRANDANGOLO

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Futuro probabile destinazione
Luca Berardi - Paolo De Roberto - Martino Altarocca - Mauro Borgomeo - Emanuele Varese - Eraldo Schirinzi - Giorgio De Santis
 
 

 

 

 

 

La caduta
del Muro di Berlino è il segno più
clamoroso della scomparsa del nostro
mondo di ieri, della fine dell’epoca che
si era aperta sulle
rovine del secondo conflitto mondiale.

 

GRANDANGOLO - 1

Il mondo di ieri

Luca Berardi

All’indomani della prima guerra mondiale, lo scrittore tedesco Stephan Zweig aveva parlato del mondo pre-bellico come del «mondo di ieri», segnalando con questa espressione la forte cesura, il senso di discontinuità che la guerra aveva provocato nella storia europea e mondiale. Era stato un cambiamento epocale, come dimostrava il crollo di quattro imperi – Austria, Germania, Russia, Turchia – che avevano avuto un ruolo da grandi protagonisti nella politica ottocentesca, e come dimostravano i mutati rapporti di forza sulla scena mondiale tra le grandi potenze.
Un cambio epocale di analoghe dimensioni si è verificato, potremmo dire, recentemente, negli ultimi anni Ottanta del secolo scorso, con la fine di quel sistema di Stati che facevano riferimento al modello del cosiddetto socialismo reale. Tale fine è culminata nel 1989, con la caduta del Muro di Berlino, la cortina che divideva la Germania orientale da quella occidentale. Fortunatamente senza l’intervento di una guerra lunga e sanguinosa come quella del 1914-‘18, sebbene non fossero mancati i momenti drammatici e le tensioni, e sebbene non siano mancate le vittime, anche gli avvenimenti dell’89 hanno segnato la cesura tra un “mondo di ieri” e un mondo di oggi, che presenta caratteristiche di sostanziale novità rispetto al passato.
Da questo punto di vista, noi oggi viviamo un “mondo nuovo”, e la sua novità si ripercuote non soltanto sulla scena politica mondiale, ma sull’esistenza di tutti noi nella dimensione quotidiana, con effetti che forse ancora non è facile identificare nella loro pienezza.

Il “mondo scomparso”, il nostro mondo di ieri, era stato plasmato dai tragici rivolgimenti della seconda guerra mondiale, che aveva rappresentato a sua volta una drammatica rottura nell’evolversi della storia contemporanea. La fine del conflitto, infatti, aveva visto un mondo sconvolto da lacerazioni e da immani disastri, che avrebbero influito in vario modo sulla vita sociale, sull’economia, sull’esperienza umana di individui e di popoli. Era un mondo diviso, oppresso dagli orrori del passato, dalla vergogna del genocidio che aveva decimato in tutta Europa le popolazioni, un mondo speranzoso e nello stesso tempo preoccupato nei riguardi del futuro, che si presentava sotto il contrastante doppio segno della ricostruzione e della minaccia atomica, degli slanci ottimistici e delle battute d’arresto disperate.
Se l’esigenza di una lotta contro il nazifascismo aveva portato il mondo capitalista e quello comunista a unire gli sforzi pur nella diversità degli orientamenti politico-ideologici, a guerra finita prevalgono le divisioni. Le due superpotenze, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, diventano anzi i poli contrapposti di un sistema – le cui premesse erano state messe a Yalta, nella conferenza interalleata del 1945 – che vede il mondo diviso in due blocchi sotto la guida dei due Stati più potenti, simbolo di universi politico-economici lontani e ostili. Usa e Urss dominano il quadro mondiale, rivali irriducibili, ma uniti dal reciproco riconoscimento della “libertà di azione” che ciascuno dei due Stati può esercitare all’interno della propria sfera d’influenza. Al desiderio e al bisogno di pace si sovrappone così una nuova minaccia sotto forma di permanente contesa tra i due campi avversi. Prende corpo la guerra fredda, che si sviluppa attraverso la propaganda, la disinformazione, lo spionaggio, le rigide prese di posizione in politica estera, lo scontro a distanza nei momenti di tensione internazionale e di conflitto (soprattutto in Asia e in Africa), l’aumento del potenziale bellico per far fronte ad eventuali attacchi del nemico, soprattutto la crescita delle micidiali riserve atomiche. Da una parte e dall’altra si enfatizza l’avversario, si moltiplicano le esigenze di difesa, si contribuisce a dar corpo ad un sistema blindato, di cui risentono in modo anche doloroso le vicende sia dei popoli sia degli individui.
La costituzione della Nato (alleanza politico-militare fra i Paesi occidentali, nata al fine di contrastare un’eventuale espansione dell’Urss nell’area nord-atlantica) nel 1949, e alcuni anni dopo, nel 1955, la firma del Patto di Varsavia (con cui i Paesi dell’Est sottoscrivono un patto di amicizia, cooperazione, reciproca assistenza, con coordinamento delle rispettive forze armate in funzione antioccidentale) sanciscono permanentemente l’esistenza di un mondo bipolare. Di fronte a questa realtà, alcuni Paesi “esterni” cercano faticosamente di assumere una posizione neutrale ed equidistante, proponendosi come mediatori di un processo che porti lentamente ad un superamento del rigido sistema dei blocchi. Sono i “Paesi non allineati”, fra i quali ci sono molti Paesi ex colonizzati che, liberatisi, non solo ridefiniscono il quadro geografico del mondo, ma tentano anche di assumere un ruolo positivo nel contesto della politica internazionale.

Intanto, però, maturano altre novità: la morte di Stalin in Urss e il successivo processo di destalinizzazione avviato da Kruscev, da una parte, e l’elezione di Kennedy a presidente degli Stati Uniti, dall’altra, creano le premesse per una nuova fase di rapporti fra le superpotenze. Alla guerra fredda succede il disgelo, che si sviluppa tuttavia con andamento contraddittorio, tra momenti che sembrano davvero lasciarsi alle spalle il passato e momenti invece che ridanno corpo alle vecchie logiche di contrapposizione.
Motivi di tensione, addirittura pericoli di scontro tra le due superpotenze, continuano infatti a sussistere. Tuttavia, anche se con passo incerto, tra battute d’arresto e avanzamenti, le possibilità di convivenza, o, secondo l’espressione più diffusa, di coesistenza pacifica, sembrano farsi strada e aprono nuove prospettive a cui non sono estranee anche le posizioni innovative assunte dalla Chiesa cattolica sotto il pontificato di Giovanni XXIII. Negli anni Sessanta, però, la situazione mondiale è contrassegnata dall’insorgenza di gravi tensioni e crisi sia ad Est che ad Ovest: il rifiuto della leadership dell’Unione Sovietica e la “Primavera di Praga”, da un lato, la contestazione contro la “sporca guerra” nel Vietnam e le lotte studentesche, dall’altro, mettono in discussione l’assetto del mondo.
Fra gli anni Sessanta e Settanta vengono sempre più in luce le difficoltà dell’Urss. La priorità data al confronto competitivo col mondo capitalistico aveva reso obbligata per l’Unione Sovietica la scelta dell’industrializzazione in tempi brevi, attraverso un rigido sistema centralizzato di direzione e di controllo. Ora che il consolidamento dell’apparato industriale può dirsi raggiunto, si tende ad una cauta liberalizzazione, che suscita tuttavia resistenze nell’apparato conservatore di governo. Nello stesso tempo, la forte compressione dei consumi privati a vantaggio delle produzioni dell’industria pesante che quella scelta comportava ripropone il problema del confronto con l’Ovest: il tenore di vita dei sovietici appare largamente inferiore rispetto agli standard occidentali.
Nasce in Urss il mito del mondo occidentale, spesso enfatizzato come una nuova terra promessa, al di là delle difficoltà e delle contraddizioni che, in forma diversa, segnano anche i Paesi capitalistici. Le autorità sovietiche tendono perciò ad ostacolare ogni libera circolazione di uomini e idee, a mantenere chiuse le frontiere soprattutto “in uscita”, a rafforzare le strutture di orientamento e di controllo ideologico, “esportando” questo modello anche nei Paesi satelliti. Da tutto ciò derivano crescenti fenomeni di malessere e di disagio sociale, di dissenso più o meno organizzato, di forme di disaffezione, di assenteismo nei luoghi di lavoro, con conseguente tentativo di protesta politica, di fughe dal quotidiano che hanno come esito sanguinose rivolte popolari.
Al declino dell’Urss contribuiscono anche le difficoltà dell’apparato produttivo interno e dei Paesi collegati: le economie orientali, infatti, non riescono a tenere il passo con il sempre più rapido processo di modernizzazione in atto in Occidente. In questo quadro, una svolta di radicale novità si verifica nel 1985, quando viene eletto segretario del Partito comunista sovietico Michail Gorbaciov, sostenitore della necessità di un processo generale di rinnovamento all’interno dell’Urss e di una politica di distensione in campo internazionale. Due parole chiave sintetizzano il programma di governo di Gorbaciov: perestrojka (ristrutturazione) e glasnost (trasparenza), a indicare l’avvio di una politica di profondi cambiamenti nell’economia e nella società e di un diverso rapporto tra pubblici poteri e cittadini. In politica estera Gorbaciov inaugura una stagione di proficui rapporti e di dialogo con gli Stati Uniti, trovando un interlocutore interessato nel presidente Reagan (e poi nel suo successore, George Bush). Tra l’87 e l’89, dopo anni di immobilismo sulla via della coesistenza pacifica, una serie di accordi tra le due superpotenze porta a un reciproco impegno per la riduzione degli armamenti nucleari. Si aprono nuove prospettive per una collaborazione su base mondiale e per un futuro pacifico. L’accordo significa un’era nuova per i Paesi dei due schieramenti, come per i Paesi esterni ai blocchi. E’ l’inizio di un’altra storia.

La seconda metà degli anni Ottanta costituisce un periodo di grandi fermenti non solo per l’Urss, ma per tutti i Paesi dell’Est. Tra l’88 e l’89 in Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia, Romania, Bulgaria, Germania orientale i vecchi governi sono messi in crisi e sostituiti da nuove formazioni, attraverso vicende diverse, tormentate e contraddittorie. Dappertutto si afferma l’esigenza di avviare nuove esperienze politiche sotto il segno della libertà. Per le due Germanie, dopo anni di separazione, si apre la via della riunificazione. E’ il 3 ottobre 1990: la nuova Germania unita nasce in un clima di fiducia e di speranza.
La caduta del Muro di Berlino è il segno più clamoroso della scomparsa del nostro «mondo di ieri», della fine dell’epoca che si era aperta (o riaperta) nel 1945 sulle rovine del secondo conflitto mondiale.
Il mondo in cui viviamo è profondamente diverso da quello del passato recente. Ciò non significa, comunque, che sia un mondo meno complesso o meno tormentato da problemi di vario ordine e grandezza. Se è vero che con il venir meno del sistema bipolare sono venute meno le ragioni della radicale contrapposizione che aveva caratterizzato le coordinate della politica mondiale per decenni, non sono però purtroppo scomparsi motivi di contrasto, tensioni, scontri aperti, situazioni difficili in diverse zone della terra. Anzi, la caduta dei regimi autoritari e la conseguente liberalizzazione hanno, per esempio, accentuato un fenomeno già largamente presente in Europa: l’esplodere dei nazionalismi, la frammentazione degli Stati composti da molteplici etnie, le spinte centrifughe rappresentate da rivendicazioni localistiche e particolaristiche. I casi più evidenti sono rappresentati dalla frantumazione della stessa Urss in una serie di Stati spesso fortemente antagonisti fra loro e la polverizzazione dell’ex Jugoslavia.

Una delle formule ricorrentemente usate per caratterizzare i nostri anni è quella della “fine delle ideologie”. Che cosa significa questo? Proviamo a definire il termine: ideologia è un sistema complesso di idee che orienta e guida ogni atto di pensiero, ogni forma di azione di un individuo o di un gruppo, indipendentemente dal riscontro con la realtà effettivamente esistente. In questo senso, l’ideologia diventa una sorta di camicia di Nesso entro cui sono costrette idealità, progetti, attitudini, il fare concreto dei soggetti umani. La divisione del mondo in blocchi aveva portato alla cristallizzazione di ideologie contrapposte, che da una parte e dall’altra dovevano comunque legittimare la giustezza e la superiorità della propria posizione. Ogni occasione era buona per trovare conferme alla bontà della propria ideologia contro quella avversaria: i successi nella corsa alla conquista dello spazio, gli sviluppi della ricerca tecnico-scientifica, persino le vittorie nelle gare sportive. Con la caduta dei regimi dell’Est, questo motivo di confronto serrato non ha avuto più ragione di esistere. Si va sempre più affermando un modo pragmatico di valutare e affrontare le situazioni, oltre i pregiudizi e gli schemi aprioristici, ovvero al di fuori delle ideologie. Ciò accade sullo scenario mondiale come all’interno dei singoli Stati; cambiano le regole e i motivi del confronto, cambiano anche i termini della lotta politica. Si creano spazi diversi di competitività, si orientano le produzioni al libero mercato, si procede alla formulazione di idee perché questa competizione e questo libero mercato non siano “selvaggi”, discriminatori. Si cerca la via di una globalizzazione che non cancelli identità e vocazioni, che non crei ulteriori squilibri, che resti comunque a misura d’uomo. Il campo del lavoro è sterminato. Ma vale la pena di accettare la sfida che propone.

 

 

 

 

 

Si fa strada l’idea
di una ragione meno potente e sicura,
che si muove
faticosamente
tra zone d’ombra
e improvvise
illuminazioni.

 

GRANDANGOLO - 2

Moderno e Postmoderno

Paolo De Roberto

Per definire che cosa intendiamo per postmoderno dobbiamo prima intenderci sul significato del termine moderno, parola che viene usata in riferimento alla dimensione temporale. “Moderno” è un concetto relativo, nel senso che non esiste qualcosa che sia di per sé immutabilmente moderno. Ciò che oggi appare tale potrà essere domani vecchio, soppiantato da altre modernità. Anche il gusto, la mentalità, possono influire sulla determinazione di ciò che è moderno, cioè veramente innovativo rispetto al passato. Pur essendo presente nel pensiero antico l’idea di un conflitto fra l’antico e il moderno, tra il passato e la tradizione rispetto a ciò che sopravvive e li soppianta, per esempio tra i vecchi e i giovani in un conflitto di generazioni, il termine “moderno” come tale appare tardi. Originariamente, alla parola “antico” si contrapponeva quella di “nuovo”, con l’intento di segnalare una radicale rottura nei confronti del passato. Poi, nel tardo latino del VI secolo, comincia a comparire un neologismo, “modernus”, formato a partire dall’avverbio “modo”, che significa “recentemente”, così come da “hodie” (“oggi”) aveva preso forma “hodiernus”. Il termine entra poi stabilmente nel linguaggio altomedioevale e si trasmette alle lingue volgari. Con esso si trasmette alla cultura quella che viene indicata come la “querelle” sugli antichi e sui moderni, ovvero la questione sulla superiorità dei moderni rispetto ai predecessori.
La questione antichi-moderni ha avuto nel corso della storia del pensiero esiti diversi; alcuni hanno sostenuto la superiorità degli antichi, possessori di una saggezza originaria; altri hanno sostenuto la superiorità dei moderni, perché, anche se nani, ovvero inferiori ai grandi intellettuali del tempo andato, possono issarsi sulle spalle dei giganti del passato, cioè utilizzare le conoscenze elaborate da chi li ha preceduti sul cammino del sapere, e perciò sommare alla propria esperienza quella dei progenitori. Al di là della contesa, il termine “moderno” si è definitivamente imposto con un significato generalmente positivo, a indicare novità, scoperta, senso del progresso.

Nell’Ottocento, comunque, Baudelaire conferisce al termine un significato particolarmente pregnante. Il contesto è quello della critica d’arte. Trattando degli artisti del suo tempo, Baudelaire infatti traccia un profilo del pittore della vita moderna, un «solitario dotato di immaginazione attiva», il quale «cerca quel qualche cosa che mi si consentirà di chiamare “la modernità...”, il transitorio, il fuggitivo, il contingente» che s’intreccia nell’opera d’arte ai valori eterni e immutabili. Il pittore moderno è cioè colui il quale riesce a cogliere il senso del divenire vitale, della metamorfosi, del rinnovamento intravisto nella mutevolezza delle cose. Il pittore moderno si muove a suo agio in un mondo nel quale non sembrano più esserci punti fissi di riferimento, dando comunque forma estetica duratura alla mobilità del reale.
Ancora nel corso dell’Ottocento, con lo sviluppo dell’industrializzazione il termine viene sempre più impiegato a indicare gli straordinari sviluppi della scienza e della tecnica e conseguentemente di un’economia, come quella industriale, che si basa appunto sul progresso scientifico-tecnologico. Moderno è il mondo delle fabbriche, in contrapposizione al vecchio mondo della produzione artigianale, moderno è il nuovo mondo delle comunicazioni veloci, dell’innovazione accelerata; moderno è il mondo in cui i mercati si allargano sempre più, mettendo a disposizione di strati sempre più larghi della popolazione un numero e una quantità crescenti di prodotti di consumo, soddisfacendo bisogni più sofisticati, stimolando nuovi modelli e standard di vita.
Ma il modello progressivo, che soprattutto il positivismo aveva alimentato nell’ambito della cultura ottocentesca, entra decisamente in crisi sul finire del secolo XIX, quando si scopre l’impossibilità di uno sviluppo infinitamente ascendente dell’economia e della società. Le crisi di sovrapproduzione, lo scatenarsi della concorrenza sul piano internazionale, la difficoltà di controllare l’andamento dei mercati mettono sotto gli occhi di tutti i limiti del modello industriale. Nello stesso tempo appare palese come i problemi di fondo della vita umana, la povertà, la fatica, il dolore, la malattia, la morte, possano essere attenuati o tenuti parzialmente sotto controllo, ma non possano essere eliminati dall’orizzonte dell’esperienza umana. Cade definitivamente il mito delle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità. Si fa strada l’idea di una crisi della ragione, cioè di una crisi delle coordinate tradizionali di pensiero, che tra le loro categorie di fondo annoverano quella di progresso. Sembra che di fronte al caos di una realtà incontrollabile nel suo continuo mutare la ragione umana non disponga di strumenti adeguati per mettere ordine, classificare, dominare gli eventi. L’uomo che, grazie alla scienza e alla tecnica, aveva creduto di poter imporre il proprio dominio sulla realtà e di saper antivedere ogni possibile sviluppo delle cose, scopre invece la propria essenziale impotenza, il suo essere un piccolo ingranaggio inserito nella grande complessità dell’universo.

Questi temi hanno costituito uno dei motivi di fondo della riflessione filosofica nel corso del Novecento. A partire da Nietzsche, che per primo, ancora nel secolo XIX, mette fortemente in crisi il concetto di progresso, molti pensatori propongono di ridisegnare i confini della cosiddetta ragione classica, quella ragione che si era identificata nel modello matematico del conoscere. Il modello matematico, che si era affermato in età moderna ad opera di filosofi e scienziati come Cartesio, Galilei, Leibniz, conferiva all’uomo piena fiducia nelle sue capacità di padroneggiare razionalmente il mondo oggettivo nei suoi intrecci complessi, di misurarne le consistenze e prevederne gli sviluppi, di influire sugli accadimenti; in una parola, di conoscere con assoluta certezza la realtà. Si fa strada l’idea di una ragione meno potente e sicura, che si muove faticosamente tra zone d’ombra e improvvise illuminazioni. All’evidenza solare che caratterizzava la ragione cartesiana e che preludeva ad una verità senza preclusioni, si sostituisce ora l’immagine di una mente umana che procede attraverso chiaroscuri, mai certa di ciò che ha raggiunto, alla perenne ricerca di un nuovo, più profondo senso delle cose. E’ quello che con espressione felice Gianni Vattimo (raccogliendo consensi e dissensi in egual misura) ha chiamato “pensiero debole”, un pensiero, cioè, che non ha paura di mostrare i propri limiti, di denunciare la propria “sprovvedutezza” di fronte al reale.
Da questo insieme di considerazioni nasce il postmoderno, ossia un modo di guardare alle cose che rompe ogni continuità con la ragione classica, con il pensiero “forte” delle scienze matematiche, con la fiduciosa certezza in uno sviluppo infinito del progresso umano. Viene meno l’idea della modernità come crescita senza fine, si entra in ambito di mentalità diverse, postmoderne appunto, più aperto all’autocritica, alla ricerca di nuovi modelli e valori, che non sono mai posti come assoluti, bensì transitori, oscillanti, precari. Il termine postmoderno comincia a diffondersi, a suscitare discussioni in modo trasversale in diversi gruppi culturali. Oggi si può dire che il termine sia diventato di uso comune ad indicare una serie di fenomeni propri della società contemporanea.
Uno dei primi campi di applicazione del termine è stato quello dell’architettura, in contrapposizione con il cosiddetto Movimento Moderno. Con questa espressione si era indicata, nei primi decenni del Novecento, la tendenza architettonica ad uno stile che accanto ai valori dell’estetica rivendicava quelli della razionalità e della funzionalità. Alla Biennale di Venezia del 1980, l’architetto italiano Paolo Portoghesi presentò il progetto di una “strada nuovissima” contrassegnata ai lati da due file di palazzi ispirati agli stili più diversi, intendendo con ciò segnalare l’esigenza di nuove proposte formali che, superando le regole tradizionali codificate nell’ambito del Movimento Moderno, mirassero alla creazione di nuovi significati e valori.

In maniera diversa, e con una certa cautela, anche all’interno del campo letterario si è affermata una tendenza di ispirazione postmoderna. In questo caso il termine è stato inteso soprattutto come un invito a ridefinire che cosa si intende per testo ed espressività del testo, a partire da un impegno critico che ha come fine primario l’individuazione delle specifiche potenzialità espressive di ogni discorso letterario. Secondo tale prospettiva, si usa anche il termine di “decostruzione”, a indicare appunto l’intento di smontare il testo per saggiarne le intime possibilità espressive e decifrarne i contenuti autentici. Uno dei massimi teorizzatori di questa tendenza è lo studioso francese Jacques Derrida, che con le sue opere ha lanciato non poche provocazioni culturali.
Tuttavia, il settore in cui più ampio è stato l’impiego del termine postmoderno e più viva la discussione intorno al suo significato è stato quello delle arti visive, che negli anni recenti hanno conosciuto forme molto audaci di sperimentazione. Nel quadro delle arti visive sono sostanzialmente emerse due tendenze in ordine all’interpretazione del postmoderno.
Il critico Renato Barilli lo collega al fatto che nella nostra società si sia passati da una civiltà meccanica, quale era quella del mondo nato dall’industrializzazione, ad una civiltà elettronica, dove «tutto è energia», tensione, avidità di conquistare nuove frontiere sul piano della quantità (più spazio, più tempo, più fisicità), lasciando ben poco alla qualità, all’assaporamento appagato e soddisfatto di quelle stesse frontiere raggiunte. Lo sviluppo dell’elettronica, secondo Barilli, ha avuto una notevole influenza sulla nascita di nuove tecniche espressive, a partire dai tardi anni Sessanta, e in ultima analisi sull’evoluzione delle stesse tendenze artistiche.
Un’altra linea interpretativa, invece, tende a cogliere nel postmoderno il riutilizzo di modelli e stili tradizionali variamente intrecciati fra loro, in modo da ottenere risultati nuovi e originali. Si afferma, da questo punto di vista, un’idea del postmoderno, a somiglianza di quanto era avvenuto per l’architettura, come posizione eclettica, composita, difficilmente classificabile sotto un unico segno, capace di combinare liberamente, fuori dalle regole tradizionali, forme e motivi diversi.
Qualunque sia l’interpretazione data, è comunque vero che sotto l’etichetta del postmoderno si raccolgono tendenze e orientamenti differenti, che ora combinano insieme, ora sviluppano in modo autonomo motivi di pura inventività, motivi ripresi dalla tradizione e motivi ispirati ad esperienze e acquisizioni della più recente tecnologia. Ciò che li accomuna è l’esigenza di novità, di sperimentalismo, che emerge anche là dove c’è un esplicito richiamo a forme e stili già affermati; anche in questo caso, infatti, i contenuti ripresi vengono per così dire reinventati alla luce di nuove visioni e di nuove direttive artistiche. Non è casuale che uno dei gruppi più attivi negli anni Ottanta in Italia si sia caratterizzato e fatto conoscere dal pubbblico con l’espressione di “nuovi-nuovi”.
Una delle tendenze emergenti dell’arte postmoderna è certamente quella che prende il nome di “transavanguardia”, termine coniato dal critico Achille Bonito Oliva alla fine degli anni Settanta, per indicare un gruppo di artisti che riprendevano in nuove forme e con nuova ispirazione canoni pittorici propri dell’espressionismo. A differenza delle avanguardie artistiche attive in tempi precedenti, le quali si erano caratterizzate per l’uso di uno specifico linguaggio artistico, la transavanguardia rivendica un uso inedito del linguaggio come strumento “trasversale”, “di passaggio” tra forme espressive e realizzazioni artistiche diverse. Lo stile diventa allora una sorta di sintesi in costante evoluzione, di stili diversi, sotto il segno comunque di una tendenza neoespressionistica, cioè una tendenza a valorizzare il colore e l’incisività del disegno quali strumenti capaci di restituire la complessità delle emozioni profonde. La transavanguardia si presenta come specie di arte nomade, in viaggio attraverso forme stilistiche già esperite nel passato, per tradurle e ricomporle in un nuovo, multiforme linguaggio dotato di grande efficacia espressiva. Ciò non significa che gli artisti della transavanguardia si identifichino nei linguaggi tradizionali; essi ne riprendono le linee figurative per riplasmarle continuamente, per reinventarle in nuove dimensioni, convinti che «in una società di transizione verso una stabilizzazione indefinibile, è possibile adottare solo una mentalità nomade e transitoria» (Bonito Oliva).

In Germania, intanto, uno dei gruppi più in vista è quello denominato “nuovi selvaggi”, un’espressione coniata dalla stampa a indicare la violenza della loro pittura. I nuovi selvaggi rivendicano l’assoluta libertà di utilizzare forme artistiche affermatesi nel passato senza sottostare tuttavia ad alcuna norma stilistica; essi considerano la pittura come una conquista di spazi inesplorati, una specie di avventura che si costruisce inventivamente via via che l’artista opera concretamente, traendo liberamente dalla tradizione, con attitudine trasgressiva e fantasia, motivi formali e contenutistici che possano ricollegarsi alle esperienze degli uomini di oggi. In un mondo precario e mutevole, dove non c’è spazio per valori assoluti e immutabili, l’arte diventa lo strumento privilegiato, grazie alla sua capacità di costante rinnovamento, per acquisire una sia pur instabile identità.
Altre sperimentazioni, di carattere più popolare, sono state avviate in Francia dal gruppo di “Figuration libre”, i cui esponenti si ispirano variamente a certe forme dell’arte e delle comunicazioni popolari – dai fumetti ai media, a certe provocazioni della pop-art – per condurre un discorso di radicale presa di coscienza della realtà. Nella stessa direzione si sono collocati i “graffitisti” newyorkesi, con opere che – anche per il modo provocatorio con cui si propongono al pubblico – intendono essere un richiamo pressante, quando non una denuncia dei problemi del mondo d’oggi attraverso immagini graffiate-graffianti di facile comunicatività.
Le tendenze interne al postmoderno sono molteplici, spesso non facilmente identificabili e classificabili nelle reciproche differenze, data la costante circolarità di motivi dall’uno all’altro gruppo. Tra coloro che in maniera più diretta si richiamano al passato ricordiamo i cosiddetti “ipermanieristi” o “pittori colti” o “citazionisti”, che si ricollegano ai grandi maestri del Rinascimento, per riaffermarne le scelte stilistiche. Gli “anacronici”, invece, guardano agli autori del passato per «rifare loro il verso», riproponendone in maniera esasperata e deformante i temi e le linee compositive. I “nuovi futuristi”, al contrario, si collegano alle esperienze della comunicazione di massa, con intento dissacratorio nei confronti della figurazione artistica tradizionale.
Indubbiamente, le tendenze presenti nella comunicazione di massa hanno avuto una larga influenza sui più recenti sviluppi delle nuove correnti artistiche, rendendo in qualche caso impossibile stabilire il confine tra i due campi.
Per esempio, l’uso di tecniche sempre più raffinate e specialistiche nell’ambito della fotografia e dell’informatica ha offerto ampio materiale alla sperimentazione artistica. Pensiamo da un lato al montaggio di fotogrammi in serie, al fotomontaggio o a immagini ottenute con speciali procedimenti e filtri; dall’altro lato, alla composizione computerizzata con esiti multiformi, fino alla realizzazione della realtà virtuale. Nell’incontro tra arte e tecnica delle comunicazioni si aprono per il futuro infinite possibilità di sperimentazione.

 

 

 

 

 

Nei film del
neorealismo emerge come collante un
populismo forte,
non pietistico,
non larmoyant,
e nelle opere migliori un senso alto
del tragico.

 

GRANDANGOLO - 3

Gli anni del Neorealismo

Martino Altarocca

Sotto il consueto, pietroso sole di giugno, Roma esultava e si curava le ferite. Era il 1944. Dentro la città sembrava si fosse rovesciata l’intera Quinta Armata americana. Stuoli di G-men e di prostitute apparse come per incanto tra le rovine si aggiravano per le strade e facevano l’alba nei primi locali notturni tirati su in tutta fretta. La metropoli somigliava a un formicaio impazzito: fame, truffe, miseria, collera contro chi la guerra aveva voluto e imposto alla maggioranza degli italiani, euforia di libertà, entusiasmi, speranze. Da quel formicaio nacque il neorealismo.
Famelici come tutti, a caccia di un futuro come tutti, alcuni uomini si aggiravano alla ricerca di un fantasma: il cinema. Il cinema a Roma non esisteva più. Cinecittà, sconquassata dai bombardamenti, saccheggiata, era stata occupata dagli sfollati. E la pellicola? Dove trovarla? E i soldi? Dove cercare qualche vecchia macchina da presa scampata alla distruzione? E i produttori? Spariti o incerti. Eppure, già nel novembre ‘44 qualcuno si era buttato nell’avventura.
«Per fare “Roma città aperta” Rossellini dovette vendersi tutto. Tutto. La pelliccetta mia, la catenina d’oro, tutto quello che avevamo per pezzetti di mozzicone di pellicola. Andavamo avanti a pane e caciotta»: è la prima moglie di Rossellini che parla. Rossellini aveva un’abilità diabolica nello scovare soldi: da una contessa, da un pastore sardo arricchito dal mercato nero, da un commerciante di stoffe, a spizzichi, a credito, pagando e non pagando la troupe, «mettendo in macchina a volte qualche spezzone di pellicola scaduta e sperando nella fortuna». Rossellini buttò la macchina da presa nelle strade e nelle piazze, tra i casoni popolari della periferia, in un clima lugubre, carico di memorie e di miseria, con gli abitanti che si prestavano a fare da comparse, avendo ancora negli occhi le retate delle SS e la violenza contro quanti opponevano un qualsiasi gesto di protesta o di difesa. Così morì, in “Roma città aperta”, stroncata da una raffica, Anna Magnani: a pancia all’aria, come una povera donna gravida.
«Io della scena della morte non ho fatto prove. Quando mi hanno trascinato fuori dal portone all’improvviso, ho rivisto le cose [...]. Sono ripiombata indietro di pochi mesi, al tempo in cui per Roma portavano via i ragazzi. Perché era popolo-popolo quello che stava addossato contro i muri. E quei dieci tedeschi erano tedeschi-tedeschi, presi dal campo di concentramento. Di colpo non sono stata più io [...]. La gente era pallida nel risentire i nazisti mentre parlavano tra loro. Questo mi ha comunicato l’angoscia, la rabbia [...] che ho espresso [...]».
Agghiaccianti furono l’urlo e la corsa diperata dell’attrice dietro il camion che portava il suo uomo verso la tortura. Agghiacciante la scarica di mitra che la stese al suolo.

Non è soltanto questo film a nascere in un clima tanto drammatico, avventuroso, di disordine, di caos organizzativo, di arrischiata improvvisazione artigianale. Tutti i primi film del neorealismo ne hanno “goduto” e sofferto, realizzato sotto l’urgenza delle unghiate che quegli anni infliggevano a milioni di uomini. “Sciuscià” (Shoe-shine!) di De Sica (sceneggiatura di Zavattini e Sergio Amidei) entra in lavorazione quando “Roma città aperta” non è ancora comparso sugli schermi. Anche per “Sciuscià” ogni giorno di lavoro è un’incognita: utilizzati otto tipi di pellicola, le vecchie lampade saltavano in continuazione, si girava senza permessi e la polizia scacciava la troupe mentre gli sciuscià impegnati nel film si disperdevano senza lasciare traccia. Da mesi a Roma, come a Napoli e a Palermo, migliaia di bambini si aggiravano nelle strade – piccoli topi famelici – esercitando mille mestieri: lustrascarpe per i “paesani” in divisa, piccoli ruffiani, bari provetti nel gioco delle tre carte e ladri spesso strumentalizzati da bande senza scrupoli pronte a “bruciarli” nei traffici, nei furti, negli imbrogli. Resi scaltri, a volte implacabili dalla loro condizione disperata, De Sica ce li ha raccontati nella loro crudezza, così come nei lampi di candore e di abbandono propri di un’infanzia sfigurata da una società impietosa. Il sogno di un cavallo bianco, con il quale cavalcare felici, non li abbandonerà mai.

All’alba del 1946, tra le nebbie e il freddo dell’inverno lombardo, prendeva il via un altro film realizzato all’avventura, “Il sole sorge ancora”, per la regia di Aldo Vergano. I pochi soldi provenivano dalle associazioni partigiane; spesso tardavano, e allora tutto fatalmente si fermava. Troupe ridotte all’osso, nessun attore di richiamo, operai e contadini chiamati a interpretare scene di cui pochi mesi prima erano stati protagonisti o testimoni.
«Ci furono contadine che toccarono momenti di isterismo quando nel ruolo del prete recitavo le litanie accompagnando verso la fucilazione un gruppo di partigiani prigionieri. Una mi si attaccò alla tonaca, insomma tutto diventò all’improvviso vivo, reale, e io a mia volta raggiunsi un’emozione maggiore... Giravamo nei posti dove c’era stata pochi mesi prima una durissima resistenza, tutto era terribilmente fresco e cocente. Non recitavano, rivivevano quello che avevano vissuto»: lo ricorda Carlo Lizzani, giovane critico cinematografico, chiamato a ricoprire il ruolo del prete.
Ultimo in ordine di tempo a prendere la parola tra gli autori di quella prima ondata di film neorealisti, Luchino Visconti, che nell’estate del ‘47 arriva in Sicilia: in testa, un vecchio amore per il Verga de I Malavoglia e un progetto folle. In tasca, sei milioni. A contatto con i pescatori di Acitrezza, con l’aspra scansione dei loro giorni e delle notti in mare, delle loro condizioni di vita immutate mezzo secolo dopo Verga, la struttura de I Malavoglia si dissolve, ma non lo spirito di quel libro.
Senza sceneggiatura, senza piano di lavorazione, senza preventivo finanziario, senza gru né dolly, con qualche metro di carrello, un capomacchinista e un capoelettricista, Visconti batte il suo primo ciak. Protagonisti de “La terra trema” saranno i pescatori e le donne di Acitrezza. Con questi mezzi Visconti racconta il dissolversi della famiglia dei Valastro, la loro rivolta contro i grossisti del pesce, la sconfitta e la decisione di riprendere il lavoro senza dichiararsi vinti. La troupe restò in Sicilia per otto mesi: un’autentica bestemmia per il cinema industriale. Visconti ci rimise anche del suo, fino a quando un produttore accettò di terminare una buona volta «questa assurda tela di Penelope».
Rossellini aveva continuato il suo viaggio nell’Italia dell’immediato dopoguerra con “Paisà” (1947). Sei episodi, dalla Sicilia alle valli di Comacchio, attraverso Napoli, Roma, Firenze: l’uccisione di «quella sporca ragazza italiana» su una spiaggia della Sicilia al momento dello sbarco dei liberatori, l’amicizia tra un soldato nero e uno sciuscià, la guerriglia nelle strade a Firenze, il massacro dei partigiani gettati vivi nelle acque delle paludi. Un reportage accecante sulle vicende della piccola gente alle prese con la storia. E dopo “Paisà”, ecco “Germania anno zero” (1948). E’ il racconto atroce di una famiglia tedesca in una Berlino sbriciolata dai bombardamenti. Al centro della storia, il piccolo Edmond, che uccide il padre malato, «una bocca inutile», è la sua giustificazione, e si suicida.

Nel ‘48 De Sica e Zavattini con “Ladri di biciclette” propongono un fatto di cronaca in apparenza insignificante: il furto di una bici. La macchina da presa segue il pellegrinaggio affannoso di un abitante di una borgata romana alla ricerca di una vecchia bicicletta che rappresenta per lui un mezzo indispensabile di lavoro e di vita. Lo accompagna il figlio bambino, tra speranze, sconforto, umiliazioni, in un ambiente estraneo, indifferente, spesso ostile...
Apparivano in quegli stessi anni i primi film di esordio di Giuseppe De Santis: “Caccia tragica” e “Riso amaro”, giudicati insieme ad altri – forse sbrigativamente – come un contributo al movimento neorealista.
Nel settembre ‘48, Visconti con le pizze de “La terra trema” scende al Lido di Venezia. Ed è il massacro. Il pubblico rifiuta sonoramente l’opera, la giudica lenta, ripetitiva, noiosa, parlata in un dialetto incomprensibile. Un’offesa al buon gusto, allo spettacolo, alla lingua italiana. Uscito in edizione integrale, il film viene ritirato precipitosamente. Un’edizione ridotta riuscì a racimolare a stento qualche milione. L’episodio veneziano può essere considerato simbolicamente il primo vistoso colpo di freno offerto all’ondata di film neorealisti che dal ‘44-’45 ha rappresentato l’aristocrazia (o, se si vuole, la moda) del cinema italiano. Anche all’estero, negli Usa, in Francia, in Inghilterra, quelle opere suscitavano consensi partecipi fino all’entusiasmo.

Ma chi erano gli autori del neorealismo? Da dove venivano? Né giovani né esordienti, Rossellini, Visconti, De Sica, Zavattini, tutti sui quarant’anni (Vergano toccava i cinquanta), avevano lavorato a lungo durante gli anni del fascismo. Tra il ‘41 e il ‘42 Rossellini girava tre film sulla guerra che certamente non confliggevano con gli interessi del regime. Al contrario De Sica e soprattutto Visconti, rispettivamente con “I bambini ci guardano” e “Ossessione”, realizzavano due opere giustamente ricordate come momenti di rottura, segni di trasgressione rispetto ai vecchi stereotipi di tanto cinema italiano del ventennio, sonnolento e tardo, al riparo dei luoghi comuni perbenistici di un’etica piccolo-borghese.
Non a caso ad aprire il discorso neorealista nella stagione ‘44-‘45 è Rossellini, il più lontano da ogni movimento culturale di critica o di rivolta al vecchio regime. Un gesto di opportunismo? No. Fu la storia stessa ad aggredire questi autori. Una cronaca viva, atroce si imponeva ai loro occhi e alle loro coscienze. Contraddizioni e soprusi occultati dagli anni dolciastri del quieto vivere esplodevano con violenza, imponendo risposte e scelte. Sommersi dalla materia incandescente in cui gli eventi li avevano scagliati, trascinati da correnti impietose e rivelatrici, emergeva in loro prepotente un’ottica nuova, un nuovo modo di guardare la realtà, di rappresentarla.
Che cosa univa questi autori? La rottura e il rifiuto di ogni retorica, anche se il mondo della guerra, della resistenza, del dopoguerra si sarebbe prestato a vuoti esercizi di precettistica oratoria. Il plot, l’intreccio, l’intrigo, strumenti indispensabili per il cinema-merce, sono accantonati senza troppi rimpianti a favore di una narrazione secca, lineare, legata alle cose, alla quotidianità. Radicale è il rifiuto dell’eroe, del personaggio eccezionale, mentre un’attenzione costante è indirizzata alla coralità, al “collettivo” come condizione sociale e umana. I personaggi del cinema neorealista sono uomini qualsiasi che la macchina da presa può anche isolare, ma che del collettivo riflettono drammi e vicende. Da qui l’interesse tendenziale, anche se non assoluto, per gli attori non professionisti, presi dalla strada, anche quando nel film compaiono Anna Magnani, Aldo Fabrizi o Walter Chiari. Al di là della diversità di stile, nei film del neorealismo emerge come collante un populismo forte, non pietistico, non larmoyant, e nelle opere migliori un senso alto del tragico. Ciò che rendeva bruciante il populismo di molti di quei film fu soprattutto «l’aggressione e il furore conoscitivi», la scoperta del tragico nell’esistenza quotidiana, il rovesciamento della dimensione aulica della storia (quella degli eroi, dei leader, del sublime che nasconde l’abiezione) e la testimonianza accesa dei risvolti di oppressione individuale e collettiva che la storia stessa porta con sé.
Anche nei film di De Sica, il più partecipe e coinvolto in una vena sentimentale, la scoperta del “semplice”, dell’“umile” e dei suoi drammi non denuncerà – salvo che in brevi momenti – commiserazione o compatimento. In Rossellini lo sguardo è lucido, non appannato da una commozione facile, teso a documentare i fatti. Naturalmente in “Roma città aperta” o in “Paisà” si possono riconoscere tracce di vecchie e tradizionali strutture di racconto, senza che ne sia compromessa la novità e originalità delle opere. Per non parlare de “La terra trema”, dove la tragedia dei pescatori è raccontata con distaccato rigore stilistico lontano da motivi di lamento o di recriminazione. Una panoramica sul neorealismo non può non richiamare anche i limiti presenti nelle opere del movimento: la visione spesso indifferenziata della società, il bozzettismo qua e là affiorante, un certo interclassismo che si risolveva in generico umanesimo, il ricorso, specie nei minori, a tecniche e strumenti di racconto collaudati quanto vecchi e artificiosi.
Dalle statistiche degli incassi i film del neorealismo escono perdenti. Entro i tradizionali canali di distribuzione e di esercizio lo spazio si restringe via via e gli autori che avevano dimostrato di saper realizzare film nuovi e diversi si rivelano disorientati e incapaci di trovare un nuovo pubblico e nuovi modi di distribuzione. Né a livello di movimenti culturali o di forze politiche fu avanzata l’idea che qualcosa dovesse esser mutato per proteggere quel “diverso cinematografico” comparso in quegli anni.
Rifiutato dal mercato, il film neorealista risulta via via sottoposto a una pressione politica ora subdola ora furibonda, sia a livello istituzionale sia ad opera di un largo settore della stampa. Risorge in forma soft la censura preventiva sui progetti, sui copioni. E gli esiti possono essere giudicati devastanti. Può sembrare incredibile, ma il neorealismo, la verità nuda dei suoi racconti, la sua idea onnicomprensiva e assai generica di “popolo”, furono considerati pericolosi, sovversivi, rivoluzionari, da combattere.
Nonostante le ostilità politiche e le difficoltà di mercato, alcuni autori seppero continuare il discorso, pur all’interno delle strutture tradizionali. “Umberto D” di De Sica e Zavattini (1951) è la storia di un vecchio pensionato e del suo cane, della decisione dell’uomo di darsi la morte, perché la sua ridicola pensione non gli consente di vivere, e della sua angoscia per il cane che resterà abbandonato. Un’opera di straordinaria penetrazione conoscitiva sulla vecchiaia, sulle sue crudeli indigenze, sulla solitudine, sull’indifferenza della società verso gli anziani. Lo stile asciutto che esclude ogni patetismo, il racconto di una tragedia senza lacrime consegnano “Umberto D” alla storia del cinema come una pagina alta della cultura italiana del ‘900. Economicamente, l’esito del film fu pessimo, così come disastrosa fu l’apparizione di “Bellissima” di Visconti, ritratto di una madre popolana, in preda ai suoi sogni e alle sue speranze che si concentrano sulla figlia bambina avviata, senza successo, verso le glorie risibili del cinema.
Rossellini, dal canto suo, si orienta verso altri interessi e maniere. Per i minori, il distacco dal neorealismo è agevole, senza drammi. Soltanto un esordiente, Lizzani, opera il tentativo di continuare il discorso neorealista con “Achtung banditi!” (1951), richiamandosi in qualche modo alla vocazione documentaristica del Rossellini di “Paisà”. Nel ‘56 De Sica e Zavattini realizzano il “Tetto”: film non banale ma stanco, definito “museale” da Adelio Ferrero, uno dei migliori critici cinematografici italiani. Il neorealismo era ormai soltanto un ricordo.
Sono trascorsi molti decenni dalla sua scomparsa. Nel cinema italiano sono emerse figure di livello indiscusso: Fellini, Rosi, Antonioni, i Taviani... Non è apparso invece alcun movimento, non si è profilata alcuna tendenza. Movimento lo fu, a suo tempo, il neorealismo che pur nella diversità delle sue voci volle rispondere alla domanda di conoscenza di un’Italia volutamente dimenticata. E’ questa l’indicazione più inquietante che il neorealismo può ancora suggerire. Non c’è proprio nulla da scandagliare, scoprire, raccontare oggi in Italia, nella sua storia recente, nella vicenda degli italiani di tutti i giorni? Non una formula ripetitiva o una normativa da ricopiare, ma un’ipotesi di ricerca critica e, quando è possibile, di poesia?

 

 

 

 

 

Racconti e film
fantascientifici
possono essere
un utile stimolo
alla riflessione:
sull’eredità
del passato,
sui problemi
del presente,
sulle aspettative
del futuro.

 

GRANDANGOLO - 4

Creatività e scienza

Mauro Borgomeo

Nel modo di pensare comune è piuttosto diffusa l’opinione che scienza e fantasia rappresentino due mondi molto lontani, se non proprio antitetici. Si ritiene che la scienza, in quanto discorso rigoroso e sistematico, non possa accogliere il punto di vista lieve e vago della fantasia, identificando in tal modo il rigore con la seriosità e la “pesantezza” del pensiero.
Di fatto, le cose stanno diversamente; perché, se è vero che la scienza ha bisogno di metodo e di esattezza nel suo procedere, è anche vero che affonda le sue radici nell’intuizione, cioè “al di qua” della costruzione di un processo deduttivo-razionale. La scienza non è solo sistema, è anche progettualità, invenzione, anticipazione, nell’immaginario mentale, del cammino della ricerca.
D’altra parte, anche la fantasia non è identificabile solo con l’immagine che spesso se ne dà di una dimensione priva di qualsiasi fondamento razionale e di ogni ordine interno, una dimensione che ha a che fare essenzialmente con la poesia e che non intrattiene alcun rapporto con i saperi di tipo scientifico.
In realtà, anche la fantasia ha le sue leggi e regole, attraverso le quali opera costruzioni logicamente plausibili, coerenti, dotate di senso. La fantasia può dare impulso al pensiero, suggerire linee di riflessione, costringere – nel confronto con prodotti dell’immaginario – ad una più serrata analisi del mondo reale. Lungi dall’essere due entità in opposizione, mentalità scientifica e fantastica possono vantare punti di contatto, proficuo scambio, motivi di collaborazione.

Non è casuale il fatto che all’inizio dell’età moderna, quando si avvia quel grandioso processo di pensiero che porta alla cosiddetta rivoluzione scientifica tra Cinque e Seicento, si colgano alcuni orientamenti significativi da questo punto di vista. Molti filosofi-scienziati, protagonisti della fondazione della nuova scienza moderna, usano frequentemente nei loro trattati un linguaggio ricco di metafore e figure che fanno appello proprio alla capacità intuitiva e immaginativa dell’uomo. Ricordiamo ad esempio la celebre metafora con cui Galileo assimila la realtà naturale a un libro i cui contenuti sono scritti in caratteri matematici, un libro che bisogna imparare a leggere decifrandone i segni tramite l’acquisizione di precise conoscenze.
Altrettanto ricco di metafore è il linguaggio di Bacone, il quale, nella Nuova Atlantide, coniuga in maniera ardita e originale scienza e fantasia, al fine di tratteggiare l’immagine di un mirabolante mondo utopico, dove gli uomini, grazie allo sviluppo delle scienze, possono raggiungere risultati di straordinaria utilità, prefigurati appunto attraverso la fantasia creatrice dello scienziato: esperimenti sul prolungamento della vita; esperimenti di insolazione, di refrigerazione, di conservazione; esperimenti relativi alla luce, alle radiazioni, ai colori, ai suoni; produzione di metalli artificiali, di fiori e piante fuori stagione; riproduzione dei fenomeni atmosferici e condizionamento dell’aria.
La Nuova Atlantide è un testo in cui si incrociano riflessione filosofica, invenzione fantastica, impegno letterario nella composizione dell’insieme. Ma più in generale il nesso scienza-fantasia costituisce un tema affascinante che in vario modo ha interessato e interessa la letteratura. Racconti e romanzi fantascientifici si sono largamente diffusi, coinvolgendo un vasto pubblico di lettori, giovani e non, e dando luogo ad un vero e proprio genere letterario, che avrà poi uno spazio considerevole anche in ambito cinematografico: la fantascienza. Un esempio precoce di romanzo fantascientifico (con caratteri insieme di romanzo dell’orrore) è rappresentato da Frankenstein, scritto da Mary Shelley nel 1818. La scrittrice inglese fu forse influenzata dal vivace dibattito che si era sviluppato nel Settecento intorno al problema della creazione e che aveva spinto alcuni tecnici-scienziati a cimentarsi nella fabbricazione di automi, vale a dire di esseri – uomini o animali – meccanici. Il protagonista del romanzo è Frankenstein, un giovane scienziato che, grazie alle sue ricerche, riesce a raggiungere un risultato clamoroso: infondere la sua vita in un corpo morto. Ma l’essere miracolosamente fatto rivivere assume un aspetto mostruoso, lui che in origine era sensibile e virtuoso, si trasforma in un terribile assassino, mentre Frankenstein, inorridito dalle conseguenze del suo gesto, compiuto violando le leggi della natura, cerca di trovare un modo per fermarlo.

Il testo della Shelley, al di là della forte carica inventiva, aveva anche uno scopo morale: intendeva cioè far riflettere, attraverso un “caso” costruito con la fantasia, sui pericoli insiti in uno sviluppo incontrollato della scienza. Indipendentemente dalla sua volontà, Frankenstein scopre dolorosamente l’impotenza dello scienziato a cui il suo stesso prodotto sfugge di mano. Nel corso dell’Ottocento, tuttavia, il grande progresso verificatosi nell’ambito tecnico-scientifico non solo spinge ad una indiscussa esaltazione delle scienze, ma stimola anche nuove composizioni fantascientifiche, che hanno come scopo soprattutto quello di mostrare le vaste prospettive che le scoperte scientifiche e le conseguenti realizzazioni tecniche aprono agli uomini.
Lo scrittore più rappresentativo di questo atteggiamento di fiduciosa apertura nei confronti delle scienze, che si traduce in progettazione fantascientifica, può essere considerato il francese Jules Verne (1828-1905). Verne viene conosciuto dal largo pubblico nel 1863, con il romanzo Cinque settimane in pallone, dove si mescolano spirito di avventura e ispirazione scientifica. Negli anni seguenti lo scrittore dà vita ad una ricchissima produzione di questo genere (rivolta anche a un pubblico di ragazzi), dove l’interesse per la scienza diventa spesso capacità di precorrerne gli sviluppi futuri, come per esempio nel romanzo Dalla terra alla luna, felice anticipazione dei viaggi spaziali del secolo appena trascorso. Dalle pagine di Verne emergono meravigliose realizzazioni tecniche, come il sottomarino di Ventimila leghe sotto i mari, strumenti sempre più perfetti al servizio dell’uomo e delle sue imprese, grandi progetti che soltanto i progressi del sapere rendono realizzabili.
Anche in un romanzo di impianto più realistico, come Il giro del mondo in ottanta giorni, la fantasia è messa al servizio della scienza, per esaltarne le indubbie prestazioni. Un’impresa come l’ipotetico viaggio di Phileas Fogg attraverso quattro continenti in meno di tre mesi, che ancora alla metà del secolo XIX sarebbe apparsa folle, nel giro di vent’anni, grazie all’eccezionale diffusione e rapidità dei nuovi mezzi di trasporto, è diventata praticabile, sia pure nell’ambito di una costruzione fantastica che massimizza le possibilità offerte dal sistema di comunicazione del tempo.

Tuttavia, è soprattutto nel secolo XX che la letteratura fantascientifica si dispiega con notevole varietà di toni, delineando grandi avventure non più nei luoghi ben conosciuti e circoscritti della terra, bensì nelle vaste, ignote aperture dello spazio. I confini tradizionali dello spazio e del tempo sembrano dileguare, mentre si intravvedono le profondità ancora insondate di mondi interplanetari e intergalattici.
Ma il racconto di avventure che si svolgono in questi nuovi scenari mantiene un costante riferimento alla scienza, nel senso che la scientificità segna dei limiti alla libertà inventiva della fantasia: in questi racconti, per esempio, non accade mai nulla che possa contraddire le leggi naturali, come l’assenza di gravità fuori dall’atmosfera terrestre. Nascono così storie intriganti, spesso mozzafiato, punteggiate da improvvisi colpi di scena, intessute di prospettive fantastiche, ma sempre scientificamente plausibili. L’orizzonte della scienza appare così sempre chiaramente sullo sfondo.
Il maggiore rappresentante di questa tendenza narrativa è Isaac Asimov, che insegnava biofisica, divulgatore scientifico e popolare scrittore di fantascienza, considerato il fondatore della “fantascienza tecnologica”, cioè di quella fantascienza che si basa su una rigorosa documentazione scientifica. Nelle sue opere, molto note anche al pubblico più giovane, si delinea perciò un futuro “probabile”, che la scienza, strumento positivo al servizio dell’uomo, aiuterà a costruire.
Una diversa modalità di costruire un racconto tra scienza e fantasia è quella adottata da Aldous Huxley in Il mondo nuovo, inquietante utopia di un futuro tutto dominato dallo strapotere della tecnica e dei tecnocrati. Da un progetto di razionalizzazione totale che intende sottoporre a controllo la stessa produzione della vita umana, nasce appunto il “mondo nuovo”, un mondo dove tutto è rigidamente determinato a priori, dove non c’è spazio alcuno per la libertà dei singoli, per i sentimenti, per le passioni umane, dove l’individuo è fagocitato in una soffocante struttura d’insieme. La fantascienza diventa allora un disincantato ammonimento per metterci in guardia contro un uso distorto del progresso tecnologico-scientifico e le sue conseguenze distruttive per l’umanità.
Ancora diversa la prospettiva in cui si collocano due grandi scrittori contemporanei, l’argentino Jorge Luis Borges e l’italiano Italo Calvino. Nelle opere di entrambi la fantasia lavora acutamente su materiali scientifici, costruendo raffinate trame narrative, che si alimentano di suggestioni e richiami colti. I racconti si snodano liberamente attraverso la dimensione del tempo, rievocando il passato, anticipando il futuro, ma anche mescolando i due segmenti. Analogamente, la narrazione rompe i confini dello spazio, annovera mondi infiniti, che si rincorrono, si susseguono, si moltiplicano in un gioco di specchi che si perde in una lontananza senza fine.
Particolarmente originale è il punto di vista di una fantascienza “a rovescio” assunto da Calvino in Le cosmicomiche, una serie di racconti i cui protagonisti non si muovono nel futuro, bensì nel più lontano passato, alle origini dell’universo. Sulla base di dati scientifici, lo scrittore opera di fantasia per ricostruire le esperienze primordiali dell’uomo: la faticosa conquista della propria identità nel passaggio da una fase di vita ameboide e senza forma alla vera e propria vita individuale, il lento emergere delle prime basilari categorie mentali, della consapevolezza di sé nello spazio e nei rapporti con gli altri; la progressiva scoperta dei colori, dei suoni, dello spazio, del tempo; la percezione di emozioni e sentimenti; l’invenzione della capacità espressiva e del linguaggio, delle attitudini contemplative e attive che caratterizzano la personalità umana.

Il racconto fantascientifico ha trovato largo spazio e realizzazioni diverse anche nel cinema. Come nell’ambito della letteratura, gli orientamenti sono stati e sono molteplici, a cominciare dalla ripresa del tema letterario di Frankenstein, “tradotto” variamente in opere di alto come di infimo livello, in prospettiva seria o in prospettiva comico-ironica, come ad opera di Mel Brooks, ci sono stati grandi film di fantascienza, come “Solaris” di Andreij Tarkovskij (che potrebbe essere visto come un corrispettivo filmico del testo di Huxley, severo richiamo ai pericoli di un uso totalizzante della scienza, oppure come “2001 odissea nello spazio” di Stanley Kubrick (assimilabile alla narrativa di Calvino, nel tentativo di ricostruire fantasticamente, dalle origini, il senso dell’avventura umana). Ci sono stati anche tanti prodotti di consumo, talvolta di pessimo gusto, tesi a provocare rozze forme di partecipazione emotiva attraverso immagini di orrore futuribile.
Con lo sviluppo delle tecniche che hanno reso possibile la realizzazione di straordinari effetti speciali, si è sviluppato un amplissimo e multiforme repertorio di film fantascientifici (che ha avuto presa particolare in ragazzi e adulti), dove convivono le guerre stellari e gli incontri ravvicinati con mondi alieni, l’utopia tecnologica dell’eroe positivo Batman – sullo sfondo di un’allucinata città del futuro – e la strana quotidianità del tenero E.T., venuto da infinite lontananze; le prospettive di rovina e di morte proiettate in un indeterminato domani e quelle incautamente risuscitate dal passato remoto della preistoria nel “Jurassic Park”.
In ogni caso, racconti e film fantascientifici, quando non si tratti di destinazioni al consumo di bassa lega, possono essere un utile stimolo alla riflessione: sull’eredità del passato, sui problemi del presente, sulle aspettative del futuro. Spesso anzi la dimensione fantastica, proprio perché si stacca nettamente dalla realtà usuale, consente una presa di distanza, uno sguardo disinteressato che meglio riesce a mettere a fuoco ciò che nell’abitudine dell’osservazione quotidiana ci sfugge.
Fantasia e scienza congiunte possono trovare un modo efficace per richiamare l’uomo alle sue responsabilità e al senso dei suoi limiti, e nello stesso tempo per far comprendere l’unilateralità sia di una scienza priva di capacità autocritica come di una fantasia che si libra vanamente in una vacua irrealtà.

 

 

 

 

Tra le luci e le ombre del progresso
agli uomini
dei nostri giorni spettano scelte
difficili, decisive
per l’avvenire
dell’umanità.

 

GRANDANGOLO - 5

Del progresso

Emanuele Varese

Per definire che cos’è progresso, prestiamo un momento di attenzione al termine stesso: si tratta, infatti, di un termine che potremmo definire metaforico, nel senso che illustra direttamente il proprio contenuto semantico o significativo. Derivato dal latino, indica l’azione di “muovere il passo in avanti”, “avanzare”, “procedere”. E’ progresso, nel nostro linguaggio, tutto ciò che, andando in avanti, si porta oltre la situazione esistente, in genere con una connotazione positiva di miglioramento, potenziamento, sviluppo. E’ progresso allora tutto ciò che, nell’evolvere dell’esperienza umana, ha rappresentato una trasformazione qualitativamente significativa dei nostri modi di esistenza, della nostra capacità di pensare e conoscere, di agire, di realizzare.
Nella storia del pensiero umano ci sono state epoche che hanno valorizzato l’essenza positiva del progresso, confidando nell’efficacia delle trasformazioni; altre che, invece, hanno cercato di mettere in guardia gli uomini dall’illusione di poter davvero progredire, cioè cambiare in maniera sostanziale le cose.
Si può dire comunque che il momento di massima esaltazione del progresso, e anche di più intensa elaborazione teorica intorno al concetto di progresso, si sia verificato nel secolo XIX, in parallelo con il grandioso, seppur non omogeneo sviluppo dell’economia e della società prodotto dall’industrialismo. Soprattutto nella prima metà dell’Ottocento, quando il mondo viene messo di fronte ai miracoli della cosiddetta rivoluzione industriale, si afferma via via una mentalità incline a pensare che sia oramai attivato un meccanismo di progresso indefinito, destinato a segnare propositivamente il futuro dell’umanità.

Gli sviluppi della scienza e della tecnica, la nuova organizzazione del lavoro hanno consentito il superamento di problemi millenari, quali la produzione di beni di consumo in quantità impensabile nei limiti della vecchia economia preindustriale; hanno ampliato e accelerato in maniera straordinaria la possibilità di comunicazione; hanno consentito di diffondere standard più alti di vita, più benessere individuale, maggiore istruzione. La filosofia del positivismo in primo luogo si fa interprete di queste tendenze e aspirazioni, teorizzando un futuro di costante ascesa per l’umanità.
E tuttavia, mentre l’intraprendenza, la libera iniziativa, la voglia di realizzare, la spinta a competere con gli altri generano diffusi atteggiamenti di fiducia e speranze di continuo miglioramento, silenziosamente cominciano ad avvertirsi sintomi di crisi. Innanzitutto, il poderoso slancio che anima l’economia industriale non avviene in maniera uniforme, portando con sé squilibri di varia natura: tra le diverse parti del mondo, tra Paesi e Paesi, tra aree di uno stesso Paese, tra classi e gruppi sociali. Improvvise impennate, inoltre, ostacolano qua e là il trionfale cammino dell’espansione economica: i mercati traboccano di merci, la superproduzione provoca la caduta vertiginosa dei prezzi, i beni fino a quel momento invenduti si cedono allora per poco e anche in perdita, le imprese più deboli scompaiono come rami secchi tagliati via dal tronco robusto della produzione, che ricomincia tuttavia dopo la temporanea crisi. Invisibile, si sta preparando la crisi vera, la grande depressione che, alla fine del secolo, smentendo le illusioni di una crescita infinita, segnerà con altri caratteri i decenni successivi.
Contemporaneamente, sul piano teorico, entra in crisi il modello di pensiero positivista e con esso la centralità del concetto di progresso. Soprattutto ad opera di Nietzsche si afferma una visione della storia non più come linea continua progressiva, ma come cammino dall’andamento aggrovigliato, incerto, che va non solo in avanti, bensì anche all’indietro.
Nel corso del Novecento si stabilizza un sentimento ambiguo nei confronti del progresso: da un lato c’è una corrente di forte ammirazione per gli straordinari risultati conseguiti dal punto di vista tecnologico-scientifico ad un ritmo più accelerato, dall’altro permane una forma più o meno evidente di inquietudine, quando non di aperta denuncia, nei confronti di un fenomeno che, nel momento in cui produce beni in gran quantità, non solo distribuisce in maniera difforme i suoi prodotti, ma anche genera squilibri e guasti forse irreversibili in tanti settori della vita umana. Il progresso, nel suo essere doppio, non fa camminare tutti allo stesso modo e allo stesso ritmo, né procede omogeneamente sui diversi piani della produttività e della qualità complessiva della vita.

Il processo di industrializzazione che, nel corso dell’Ottocento si era sviluppato in Europa e nel Nord America, ha ormai toccato tutte le aree della terra. L’industrialismo si espande, tocca i Paesi arretrati, li smuove con le sue novità, li integra in un sistema globale di scambi, rompe vecchi equilibri e getta le basi per la costruzione di una società più avanzata.
La produzione si moltiplica, invade i mercati, apre più ampie possibilità di consumo per strati sempre più larghi di persone; i commerci si estendono a ritmo vertiginoso in ogni direzione; aumentano senza sosta le possibilità di rapporti, di spostamenti, di circolazione e di confronto delle idee.
Ma questa è solo una faccia della realtà, perché nello stesso tempo il progresso determina squilibri o contribuisce ad esasperare difficoltà già esistenti. Lo sviluppo, infatti, non coinvolge omogeneamente le diverse parti del mondo; si accentua la distanza tra i Paesi di più antica industrializzazione e quelli che soltanto di recente sono entrati nel sistema produttivo industriale, mentre questi ultimi tendono a mantenere una posizione subalterna nell’ambito dell’economia globale. La divisione internazionale del lavoro attribuisce ai Paesi più avanzati un ruolo egemone nell’ambito delle tecnologie più sofisticate, delegando agli altri le lavorazioni a basso o addirittura nullo contenuto tecnologico, come dimostra la provenienza di tanti manufatti di semplice fattura dalle fabbriche dell’Estremo Oriente, escluso ovviamente il Giappone.
Permangono differenze all’interno di uno stesso Stato, nel diverso sviluppo delle sue aree, come accade ad esempio in Italia col persistente divario tra Nord e Sud. Permangono anche differenze, spesso considerevoli, all’interno delle società, fra gruppi, ceti, classi, con la tendenza, in questi anni di crisi economica, ad accentuare le distanze tra ricchi e poveri, anzi a creare forme di nuova povertà e di emarginazione, che colpiscono soprattutto gli anziani e i giovani non assorbiti dal mercato del lavoro. Ma il contrasto nel mondo attuale è quello che oppone Paesi ricchi e Paesi poveri, dove si addensano più di due terzi di popolazione mondiale. Ne è un segno drammatico il costante flusso migratorio di cittadini provenienti dai Paesi economicamente più arretrati, con i tristi viaggi dei poveri in cerca di lavoro e di una vita migliore, ben diverso dal viaggio turistico diffusamente praticato dagli abitanti del mondo opulento o benestante. E mentre la produzione dei Paesi avanzati consentirebbe di assicurare la sussistenza di intere popolazioni delle aree sottosviluppate, di fatto i meccanismi e le logiche economiche vigenti lasciano sussistere, incomunicabili fra loro, il mondo dello spreco e il mondo della fame.
Manca finora, nonostante l’azione degli organismi internazionali, una capacità complessiva di riequilibrio dei beni, di una diversa distribuzione che garantisca via via ad un numero il più alto possibile di persone una vita decente e il rispetto dei loro diritti elementari.
Consideriamo poi il problema da un altro punto di vista. Indubbiamente il progresso ha portato con sé un enorme aumento delle possibilità di comunicare, sia per la maggiore facilità dei viaggi anche su lunga distanza, sia per la disponibilità di strumenti sempre più raffinati di trasmissione di notizie e dati, sia per la diffusione dell’apparato dei mass media, che portano immagini e voci in tempo reale a milioni di persone. Ma anche in questo caso l’esito può essere doppio: il sistema mediale può essere usato in modo da riversare in forma indiscriminata e violenta i suoi contenuti, soffocando l’autonomia critica degli individui, oppure in modo da stimolare le capacità di giudizio, offrendo informazioni ampie e diversificate.

L’altro discorso delicato riguarda l’ambiente e l’uso che ne viene fatto. Da sempre gli uomini, per creare condizioni migliori di vita, hanno modificato l’ambiente. Quell’azione, sviluppata via via nel corso dei millenni, ha assunto ancora una volta un ritmo massimamente accelerato con la diffusione dell’industrialismo e con le nuove potenzialità fornite dal progresso tecnologico-scientifico.
Nella seconda metà del secolo XIX si era avuto uno dei primi, clamorosi segnali della nuova potenza umana, quando nel 1869 venne realizzato il taglio del Canale di Suez, che trasformava in modo radicale l’ambiente fisico dato. Negli ultimi centocinquant’anni si è camminato con passo frenetico per questa via, dando luogo non soltanto a fenomeni di modificazione, ma di vera e propria aggressione nei confronti dell’ambiente.
Le strategie di intervento si sono dirette in molteplici direzioni: consentire il ricavo e l’impiego di risorse; rendere abitabili zone climaticamente impervie, introducendovi nuclei stabili di insediamento; ridisegnare le strutture morfologiche di aree più o meno vaste; immettere nella rete degli scambi anche le regioni più marginali; controllare l’evolversi di determinati fenomeni fisico-naturali. Ma ciò ha comportato spesso la rottura dell’equilibrio ecologico, lo spreco di materie prime, la diffusione di inquinamento atmosferico e acustico, il supersfruttamento del territorio, evidenziando gli esiti contrastanti di un processo che ora disperde, ora salvaguarda e impiega utilmente le risorse della natura; ora stravolge e distrugge, ora tutela e sfrutta con intelligenza il patrimonio ambientale.
Consideriamo infine il campo delle conoscenze. Innanzitutto, nel Novecento si è verificata un’intensa attività di ricerca e di sperimentazione scientifica, frutto di una specializzazione che, se dal punto di vista concreto operativo ha coinvolto un numero ristretto di esperti, nelle sue fasi applicative ha interessato, positivamente o negativamente, milioni di persone. Ma proprio l’alto livello di specialismo raggiunto rende molto difficile, se non impossibile, un serio controllo dell’opinione pubblica sugli orientamenti e i fini della ricerca scientifica, sull’uso che può essere fatto in pratica delle sue acquisizioni. Basta pensare al dibattito intorno all’energia atomica e al problema del suo possibile impiego, o alla bioetica e ai confronti tuttora in corso.

In un altro senso il Novecento ha visto un positivo allargamento dell’istruzione, sebbene a livello mondiale vi siano larghe zone di analfabetismo. Ma non sempre l’istruzione è potenziata come mezzo di effettiva crescita personale, come stimolo al pensiero autonomo e alla critica; essa può anzi diventare il veicolo per trasmettere, in forma più o meno subdola, per esempio attraverso una scuola o strumenti di lettura “passivizzanti”, idee e atteggiamenti conformistici. Lo stesso si può dire per lo sviluppo del settore informatico. Ancora una volta, quindi, siamo di fronte ad una realtà doppia: il sapere e la tecnica possono distruggere o migliorare il mondo, le conoscenze possono diventare mezzo di asservimento o di liberazione, le nuove scienze informatiche possono istituire strumenti sofisticati di controllo o ampliare le occasioni di informazione.
Il filosofo Hans Jonas, nel saggio Il principio responsabilità, ha sviluppato appunto il tema delle grandi responsabilità che competono a noi, uomini del nostro tempo. Si tratta di responsabilità che non riguardano soltanto noi contemporanei, ma anche i nostri posteri. Quale mondo stiamo preparando per chi verrà dopo di noi?
Principio responsabilità significa proprio questo: farsi carico di scelte il cui impatto avrà una portata che va oltre il presente, in un’ottica non egoistica – che porti per esempio a sfruttare tutto ciò che appare immediatamente sfruttabile, o a provocare interventi irreversibili, senza curarsi delle conseguenze future – ma solidaristica, che faccia dell’umanità di oggi e di domani un tutto unico.
Tra le luci e le ombre del progresso agli uomini dei nostri giorni spettano scelte difficili, decisive per l’avvenire dell’umanità, come non si era mai verificato prima per il nuovo potenziale degli strumenti a disposizione. Ma anche la scelta si presenta problematica, perché la consapevolezza delle responsabilità si accompagna spesso alla sensazione che le decisioni importanti siano accentrate nelle mani di una cerchia ristretta di individui padroni del destino di milioni (miliardi) di altri individui.
Che tutto ciò rappresenti una fase critica, preludente tuttavia ad un futuro di crescita, oppure una fase di declino inarrestabile fino alla catastrofe, può dipendere anche dalle nostre capacità di guardare acutamente dentro le pieghe del progresso, di comprendere e interpretare, al fine di un agire razionale, gli avvenimenti in corso.

 

 

 

 

 

Il capitalismo avrebbe dovuto farsi progetto culturale, forza costruttiva
capace di dare nuova forma alla società, diffondendo maggiore benessere, ma anche maggiore cultura e gusto
estetico.

 

GRANDANGOLO - 6

Homo faber

Eraldo Schirinzi

Fin dalle epoche più remote la tecnica ha rappresentato una componente essenziale dell’evoluzione umana. I nostri antichi progenitori che, per procurarsi il cibo, difendersi dai pericoli, assicurare la propria sopravvivenza, si ingegnavano a tagliare e rendere appuntiti rami d’albero o a scheggiare e lisciare pietre, furono gli inventori delle prime rozze forme di tecnica. Da quei primi esperimenti gli uomini perfezionarono via via la loro capacità di operare, di costruire strumenti e utensili, di mettere in atto nuove competenze conoscitive e pratiche, raggiungendo progressivamente risultati più significativi. La storia dell’uomo è perciò storia dell’ “homo faber”, artefice, artigiano, costruttore, capace di trasformare operativamente le proprie condizioni di vita mediante abilità tecniche diversificate.

Un salto qualitativo nell’evoluzione delle tecniche avvenne all’inizio dell’età moderna, quando, con l’affermarsi della nuova scienza, si cominciò a riflettere sulle implicazioni pratiche dello sviluppo scientifico. Mentre gli antichi avevano soprattutto elaborato un concetto di scienza come contemplazione della realtà, i moderni colgono il potenziale realizzativo di una scienza che non si limiti ad osservare il mondo, ma cerchi i modi concreti per manipolarlo utilmente al fine di un costante miglioramento delle condizioni di vita. La tecnica, che era stata vista come qualcosa di esterno e separato rispetto alla conoscenza teorica, diventa ora il suo necessario prolungamento, quasi una verifica della sua validità attraverso le concrete possibilità di impiego delle categorie scientifiche.
«Sapere è potere», proclamava orgogliosamente Bacone, intendendo appunto sottolineare il legame tra teorie scientifiche e applicazioni pratiche che conferiscono all’uomo nuove capacità di controllo sulla natura. Ma le più fruttuose conseguenze di questa impostazione di pensiero si avranno fra Sette e Ottocento, quando la nascita dell’industria esalterà come mai era avvenuto fino allora la potenza costruttiva delle tecniche.
La meccanizzazione del lavoro mette in moto un processo senza fine; alle prime macchine, frutto del geniale lavoro di artigiani-inventori, seguono macchine più perfezionate e sofisticate, che aprono la strada a multiformi direzioni produttive. Lo sviluppo delle tecniche dà corpo ad un universo tecnologico all’interno del quale mutano radicalmente i modi dell’esistenza umana.
Del peso di quel mutamento è testimonianza il fatto che l’uomo stesso, inventore della tecnica, diventa a sua volta oggetto di manipolazioni tecnologiche, che coinvolgono non solo le sue condizioni materiali di vita, ma la stessa essenza della natura umana e la sua dimensione spirituale. Pensiamo alla messa in atto di tecniche finalizzate all’organizzazione del consenso, alla manipolazione dell’opinione pubblica; pensiamo agli sviluppi dell’ingegneria genetica. La tecnica sembra dominare ogni aspetto della vita umana e l’uomo stesso, decaduto dal ruolo di soggetto a quello di oggetto del processo tecnologico. Tale fenomeno pone questioni e interrogativi inquietanti, che non trovano risposta nell’ambito dell’etica tradizionale.
Se oggi siamo di fronte a problemi di tale portata, che richiedono un profondo ripensamento della morale e una conseguente riformulazione di regole e norme comportamentali, i pericoli insiti nel dominio della tecnica erano già stati intravisti da tempo, con il profilarsi di un crescente potenziamento dell’apparato tecnologico tra Otto e Novecento.
Soprattutto in Germania, nei primi decenni del secolo scorso, sotto la spinta di un incalzante sviluppo, si era aperto un vivace dibattito che aveva coinvolto intellettuali, scienziati, filosofi, sociologi, politici, imprenditori. Al centro del dibattito stava il nesso tecnica-cultura, ovvero la domanda se e come fosse possibile conciliare i valori e gli ideali della cultura tradizionale con un progresso che assumeva soprattutto caratteri tecnico-materiali. Un’eco di tali problemi è percepibile anche in uno dei maggiori romanzi del Novecento. In L’uomo senza qualità di Robert Musil è infatti tratteggiato un personaggio, quello dell’industriale Arnheim, che esemplifica una possibile risposta – sostanzialmente positiva, anche se formulata con notevole disincanto – alla domanda sopra citata. Musil disegna con ironia questa figura di industriale, «combinazione di spirito, affari, vita comoda, cultura», il quale «nei suoi libri e programmi si faceva banditore, nientemeno, dell’unione tra l’anima e l’amministrazione, ovverossia tra l’ideale e il potere». Ma Arnheim non è un personaggio di pura invenzione. Egli rappresenta, nella mediazione letteraria, un personaggio reale: Walter Rathenau.
Rathenau (1867-1922), industriale e statista proveniente da una ricca famiglia ebraica, fu uno dei protagonisti della vita economica, culturale e politica in Germania all’inizio del Novecento, e fino al primo dopoguerra, quando morì vittima di un attentato ad opera di gruppi nazionalisti.
Alla guida dell’AEG, una delle maggiori industrie tedesche fondate dal padre Emil, Rathenau sviluppò anche un’intensa attività di studio sui problemi dell’industrializzazione. Per lui il capitalismo non avrebbe dovuto essere semplicemente un modo di produrre dominato dalla logica del profitto, incurante della condizione operaia, delle brutture dell’ambiente; il capitalismo anzi avrebbe dovuto farsi progetto culturale, forza costruttiva capace di dare nuova forma alla società, diffondendo maggiore benessere, ma anche maggiore cultura e gusto estetico. Non è casuale, da questo punto di vista, il fatto che Rathenau abbia chiamato all’AEG, insieme a studiosi, ingegneri, tecnici, anche esperti di design, alla ricerca di una produzione valida nella sua funzionalità come nella sua qualità estetica, al fine di «educare il gusto degli acquirenti-consumatori.
La tecnica e la meccanizzazione non erano per l’industriale Rathenau solo strumenti più moderni rispetto a quelli del passato, ma fattori progressivi che, liberando l’uomo dai suoi limiti naturali e apportando benessere, avrebbero contribuito alla realizzazione del “regno dello spirito”, di un mondo migliore e più armonico, attento alla qualità della vita umana.
Come Rathenau, molti, di fronte all’enorme crescita dell’apparato produttivo, si chiedono come questa crescita debba essere guidata, come si debba dare forma al progresso tecnico-scientifico perché esso non sia in contrasto con le ragioni della cultura. Schematizzando, si possono individuare due atteggiamenti di fondo. Uno è l’atteggiamento per così dire “demonizzante”, quello cioè che vede nella tecnica qualcosa di catastrofico e che guarda con rimpianto a un mondo passato non ancora stravolto dalla civiltà delle macchine. L’altro è l’atteggiamento di chi, in linea con Rathenau, guarda alla tecnica come a un fattore positivo di progresso. E’ questa la posizione più interessante e articolata, all’interno della quale si possono individuare due modi di accettazione della tecnica.

A molti, in modo spesso ingenuo, la tecnica appare come la portatrice di un cambiamento epocale, di una trasformazione grandiosa nella vita dei singoli, dei gruppi, dei popoli. C’è uno sforzo continuo di mettere in evidenza che la tecnica non è solo esecutività, ma creatività, che la tecnica ha grandi effetti di liberalizzazione, in quanto essa consente di superare i limiti posti dalla natura, di sviluppare nuove forme di vita, di realizzare quello che prima aveva luogo solo nel sogno, nell’immaginario, nell’utopia.
Accanto a questa esaltazione della tecnica come strumento onnipotente nelle mani dell’uomo, ci sono analisi più avvertite della complessità dei problemi: perché la tecnica e la meccanizzazione portano esigenze nuove non solo nell’organizzazione del lavoro, ma anche in altri aspetti dell’esistenza umana. La tecnica significa ad esempio messa in crisi e trasformazione continua del mondo esistente; significa perciò bisogno di comprendere una realtà mobile, attraversata da differenze, contraddizioni, squilibri, che non si risolvono né si conciliano in una forma unica e definitiva. In questo senso non appare più credibile un sapere compatto che rende ragione del mondo intero; emergono saperi e competenze variegate, non unificabili, che si intrecciano, si interrogano reciprocamente, entrano in conflitto, minando alla base quei sistemi di pensiero che con la loro struttura compatta avevano dato agli uomini la consapevolezza di poter dominare ogni possibile sviluppo della realtà. Eppure sono proprio quei sapori variegati, a segmenti, che consentono al pensiero umano di disporre delle cose.

Un aspetto particolare del nesso tecnica-cultura riguarda il confronto tra tecnica e arte; un confronto incrociato, perché per un verso è l’arte a porsi con la sua consistenza “alta”, cioè con la sua qualità e i suoi valori, come criterio di misura di fronte alla tecnica; e per altro verso è la tecnica che dal basso pone interrogativi e problemi inediti all’arte: innanzitutto il problema di una norma artistica nuova, di un’altra bellezza, definibile in termini di funzionalità, che nasce dall’impiego di processi lavorativi e materiali nuovi, (pensiamo, ad esempio nell’architettura, all’impiego rivoluzionario del cemento, del vetro, dell’acciaio). Anche qui affiorano posizioni ingenue che assegnano all’artista un compito di sublimazione del lavoro e della tecnica in arte, o che vedono nell’arte una sorta di elemento sopraggiungente dall’esterno a dar valore al prodotto. Si intravvede in queste posizioni una specie di scorciatoia impossibile che eleva direttamente il prodotto industriale a prodotto artistico. Ma ad una considerazione più problematica appare il vero problema, quello di dare ordine alla produzione, di razionalizzare il ciclo produttivo, senza abbandonarsi all’illusoria idea di un’equazione tecnica-arte.
Da un altro punto di vista emerge il problema dell’arte nel momento in cui le sue opere, riprodotte tecnicamente (per esempio, attraverso la fotografia) o addirittura prodotte in più copie (la pellicola cinematografica), perdono l’aura di unicità che le aveva contraddistinte nel passato.
Al di là delle differenze anche rilevanti nelle posizioni che si confrontano nel dibattito sulla tecnica, emerge tuttavia un motivo, un elemento costante che stimola le diverse voci in campo: e cioè il fatto che la tecnica non è mai ridotta a puro strumento, ma è vista anzi come un fattore culturale, qualcosa che modifica a fondo – magari suscitando preoccupazione – anche il mondo dello spirito; qualcosa che si traduce in conoscenza e azione, in capacità “educativa”, in quanto induce pensieri e forme di vita. Si afferma perciò l’esigenza di andare oltre la pura analisi fattuale dei fenomeni della tecnica, per indagare il suo significato, la sua essenza, il suo “stile”, ovvero il senso complessivo che va al di là delle operazioni specifiche e particolari che essa di volta in volta mette in atto.
C’è una sorta di accordo fra studiosi di diverse tendenze, fra coloro che la esaltano e coloro che la osservano con inquietudine, nel considerare la tecnica come il destino dell’uomo contemporaneo. In questa prospettiva uno dei contributi più rilevanti ad un ripensamento complessivo del fenomeno della tecnica viene dalle opere del filosofo tedesco Martin Heidegger (1898-1976). Anche per Heidegger la tecnica è il destino dell’uomo contemporaneo, qualcosa che non si può ridurre a semplice strumento, perché in essa c’è un significato epocale, in quanto trasforma e domina a fondo la nostra esistenza. Ma l’analisi heideggeriana procede in maniera tutta diversa da quella di chi vede nella tecnica uno strumento onnipotente mosso dalle mani dell’uomo, perché secondo il filosofo c’è sempre qualcosa di irriducibile al volere umano.

L’immagine della società tecnologica che emerge dalle pagine di Heidegger è preoccupante. La tecnica non è tanto il nome dell’apparato produttivo che si fonda sulle macchine, ma è una presenza che domina tutta la realtà. La tecnica è la forma stessa in cui si organizza la società contemporanea. In essa domina una volontà di pianificazione e di controllo, una volontà di amministrazione totale, a cui non si sottrae nulla, nemmeno la coscienza umana. Tutto è ridotto a quantità, numeri, formule per essere misurato e controllato. Le cose perdono la peculiarità loro propria, la loro individualità, per diventare materiale quantitativamente misurabile, oggetti manipolabili-consumabili in un processo che non ha fine.
Tra queste cose l’uomo si muove con l’atteggiamento oggettivo e “disinteressato” di chi guarda solo agli aspetti verificabili, matematicamente definibili della realtà. Il nostro rapporto col mondo è vago, superficiale, estraneo; si perde la possibilità di fare vera esperienza. In questa situazione, secondo Heidegger, bisogna fare i conti a fondo con la realtà in cui si vive, ma anche col passato. Nel mondo contemporaneo della scienza e della tecnica arriva infatti a compimento l’intero corso del pensiero occidentale. Con un’originale interpretazione della storia della filosofia, Heidegger vede, dopo il tralucere dell’originaria verità del mondo nei primi pensatori greci, un processo di obnubilamento, per cui quella che dovrebbe costituire per la coscienza umana la questione fondamentale, e cioè qual è il senso complessivo delle cose e della realtà in cui viviamo, passa in secondo piano, incalzata da un’altra questione: come possiamo stabilire con certezza il nostro dominio sul mondo?
In questo spostamento dello sguardo filosofico avviene un fatto decisivo: la razionalità occidentale tende sempre più a identificarsi con la razionalità scientifica, basata sul criterio della massima efficienza tecnico-produttiva. Ed è questa efficienza il motore nascosto che muove lo sviluppo della nostra civiltà, attraverso il raggiungimento di successi sempre più clamorosi, che contrassegnano appunto il dominio della tecnica. Eppure, nonostante i risultati e le risposte sicure della scienza, il mondo di oggi è percorso da un diffuso senso di insicurezza e da inquietudini profonde.
Uscire dalla crisi significa imboccare la via di un nuovo modello di pensiero diverso dalla ragione calcolante delle scienze esatte e della tecnica. Ciò non significa disconoscere l’importante ruolo che nella vita concreta giocano la scienza e la tecnologia, ma acquisire consapevolezza del fatto che la ragione scientifica non può rispondere a tutte le domande dell’uomo, né a tutti i suoi bisogni.
Qui ci viene in aiuto la poesia, perché i poeti parlano con parole piene, che risuonano di molti accenti. Al contrario del linguaggio della quotidianità – dove le parole si consumano nella semplice funzione del comunicare per scopi pratici – le parole poetiche evocano un’eco profonda, che fa riscoprire i valori essenziali, lo spessore autentico delle cose non più ridotte all’unica dimensione tecnico-produttiva.
Possiamo tradurre il richiamo heideggeriano alla poesia come un richiamo al senso critico, ad un atteggiamento che non accetta le cose nella loro piatta superficialità, ma le valorizza nella pienezza del loro multiforme modo di essere. Il dominio della tecnica riduce tutto a quantità; è necessario riscoprire il mondo delle qualità, delle differenze, dei chiaroscuri attraverso cui si mostra il volto sfaccettato della realtà, degli uomini stessi, che la tecnica minaccia di ridurre alla semplice dimensione di oggetti manipolabili.
Senso critico significa capacità di guardare qualcosa distanziandosene, cioè non facendosi coinvolgere. Da questo punto di vista si può anche recuperare il senso autentico della tecnica, strumento utile e necessario, a patto che non diventi l’unico orizzonte dell’esistenza umana.

 

 

 

 

 

Una volta eliminati eccessi e squilibri,
al limite dopo
la scomparsa
dell’uomo,
ci penserà la Terra stessa a riparare
le ferite, a ritrovare un suo benessere.

 

GRANDANGOLO - 7

La frammentazione

Giorgio De Santis

La fine del vecchio ordine mondiale, delimitato e fissato in due blocchi contrapposti, anziché produrre un mondo senza più divisioni e conflitti, ha generato una molteplicità di confini: di natura etnica, economica, religiosa, culturale.
Molteplici soggetti si sono messi in competizione per dividersi le spoglie della guerra fredda; dall’unica minaccia globale si è passati alla molteplicità di conflitti locali. Ciò che è accaduto nell’ex Jugoslavia lo si ritrova, con maggiore o minore violenza, nella maggior parte delle regioni della terra.
E’ stato valutato che oltre l’ottanta per cento delle nazioni presentano al loro interno delle tensioni o dei conflitti interetnici. La situazione dell’Africa è probabilmente la più esplosiva: oltre un migliaio di rivendicazioni tribali potrebbero disegnare la mappa del continente africano, che è stato suddiviso arbitrariamente in una cinquantina di Stati dalle potenze coloniali. Questa situazione è l’esito di una serie di elementi tra loro diversi ma convergenti: è entrato in crisi il concetto di nazione, mentre riaffiorano antiche ostilità tra gruppi diversi per motivi economici e culturali; il potere degli organismi internazionali appare limitato o scarsamente riconosciuto, e neanche gli Usa sono in grado di garantire una stabilità planetaria; la concorrenza e la crisi produttiva internazionale alimentano reciproche diffidenze e spinte protezionistiche: il nostro mondo appare sempre più frammentato e conflittuale.
Parallelamente alla spinta a frantumare gli Stati nelle singole etnie, è in atto una tendenza opposta a unificare regole, valori, scenari per tutta l’umanità. La spinta a unificare i problemi a livello mondiale arriva da una serie di elementi differenti: le nuove forme di produzione di massa, le multinazionali e gli scambi economici tra nazioni; la diffusione delle reti di comunicazione e le risonanze che si creano nel villaggio globale; la necessità di fornire risposte unitarie a problemi sovranazionali, quali l’ambiente e l’energia; le migrazioni e la mescolanza di popolazioni e razze in corso in molte parti della terra. In quest’epoca si interagisce, ci si sposta, si scambiano beni e informazioni a un ritmo e con modalità tali da sconvolgere gli equilibri passati.

Questo processo dalle molte facce intensifica scambi e rimescolamenti tra culture, ma nello stesso tempo indebolisce le radici sociali e culturali che fondano l’identità di una società. E’ anche per riconquistare una propria identità che si sviluppano fermenti antagonistici di divisione e disgregazione. La tolleranza e l’accettazione del diverso sono valori ancora da acquisire nei fatti e probabilmente richiedono lunghi tempi per un’accettazione effettiva, ma, visti gli stretti tempi storici con cui bisogna fare i conti, ci si adopera per accelerare le tappe. Proprio questa è una delle grosse sfide che l’umanità ha di fronte: passare dalla conflittualità locale ad una consapevole assunzione della mondialità dei problemi.
Lo sviluppo della popolazione sulla terra è avvenuto con una crescita impressionante. Oggi siamo circa sei miliardi, mentre eravamo circa la metà tre decenni fa, e si prevede una popolazione di oltre otto miliardi e mezzo fra trent’anni. L’esplosione demografica è in pieno sviluppo nelle nazioni più povere, favorita dalle migliori condizioni igieniche e sanitarie. Ma un aumento della popolazione mondiale richiede energia, acqua, alimenti, terreni, materie prime in quantità sempre maggiori; e questo comporta una conseguente rapida riduzione della loro disponibilità per ogni persona. Limitare l’incremento della popolazione mondiale è forse il problema nodale che va risolto ora per permettere un adeguato livello di vita e di benessere a tutti gli uomini.
La città è al centro dei grandi rivolgimenti contemporanei. Nelle città vengono prese le decisioni, è lì che si accentrano le maggiori trasformazioni e si consuma la maggior parte delle materie prime e dell’energia; è lì che si producono più rifiuti e più inquinamento.
Attualmente vive nelle città il 45 per cento della popolazione mondiale, e tale percentuale dovrebbe salire a oltre il 60 per cento tra meno di trent’anni. Sempre entro lo stesso periodo di tempo oltre un quarto della popolazione della terra vivrà in città con più di quattro milioni di abitanti; nel 2000 sono state una trentina le città con oltre sette milioni di abitanti; tre quarti di queste città sono nel Terzo Mondo, mentre solo una, Parigi, in Europa, ha raggiunto lo stesso livello. Il raddoppio della popolazione di una città africana avviene ogni dieci anni, mentre non si raddoppia la superficie e si rendono necessarie ulteriori quantità di acqua e di alimenti che non è facile garantire.
Lo sviluppo impetuoso delle grandi città porta con sé numerose conseguenze. Da un lato aumentano le opportunità professionali e gli scambi di esperienze e di idee; ma dall’altro si riducono i terreni coltivabili a disposizione, mentre aumentano i bisogni di cibo e di materie prime. Questo processo genera e moltiplica situazioni di povertà e miseria, favorisce la perdita di radici e di tradizioni, crea le condizioni per una forte conflittualità sociale. Le nuove grandi città hanno invece bisogno di progetti forti e di identità precise, assenti nelle anonime e frammentate espansioni urbane a macchia d’olio.
La Terra dispone tuttora di molte risorse che però, per vaste che siano, stanno comunque finendo. Così l’acqua è ancora sovrabbondante, ma, per la difficoltà di utilizzarla e per il crescente inquinamento, può sostenere al massimo un altro raddoppio della domanda, fatto che dovrebbe verificarsi sempre entro i prossimi trent’anni. Già ora in molte aree della terra l’acqua scarseggia o risulta gravemente inquinata, mentre gli interventi umani stanno alterando gli equilibri idrici con dighe, costruzioni, disboscamenti, che rendono le acque poco controllabili e favoriscono frane e alluvioni.
Intanto il cibo disponibile già scarseggia in varie zone. Attualmente, almeno un miliardo di individui mangia meno del necessario e un alto miliardo è soggetto a fame cronica. La terra coltivabile, che nella storia umana è sempre stata sovrabbondante, oggi si va riducendo per la desertificazione e l’erosione del suolo, per lo sviluppo urbano, per l’inquinamento idrico e agricolo.
Nel contempo, si riducono le foreste: i sei miliardi di ettari di foreste che esistevano pochi secoli fa si sono quasi dimezzati, e solo un quarto è ancora foresta intatta e naturale. La riduzione delle foreste è causata da inquinamenti e piogge acide, ma soprattutto dalla deforestazione operata dall’uomo, per la crescente richiesta di terreni da coltivare, di spazi per allevare il bestiame, di minerali da estrarre dal sottosuolo, di legname per costruire. Dovrebbe esser chiaro che queste risorse sono uniche e insostituibili.

Sulla terra esistono circa 250 mila piante superiori, di cui circa 80 mila commestibili. Tremila sono state usate dall’uomo per la sua alimentazione. Oggi solo 150 piante sono coltivate su larga scala; meno di venti tipi di vegetali danno il 90 per cento dei prodotti, mentre tre soli cereali (grano, riso e mais) forniscono il 60 per cento delle calorie vegetali consumate dall’uomo. Di riso, ad esempio, sono state differenziate nei secoli e nelle diverse zone centinaia di varietà, in quanto alcune piante sopravvivono con solo sessanta centimetri di pioggia, mentre altre richiedono cinque metri d’acqua annui.
La varietà biologica permette di competere meglio con le piante infestanti, difendersi da specifici parassiti, diversificare i gusti alimentari, rispondere a differenti esigenze di conservazione. Un agricoltore, per non rischiare tutto il raccolto, seminava diverse specie per cui, secondo le piogge o la presenza di parassiti vari, si garantiva comunque un raccolto. Le specie animali e vegetali non utilizzate dall’uomo tendono a scomparire, e ogni giorno si perdono fino a cento specie viventi. Oggi con la genetica vengono selezionate e utilizzate in agricoltura solo le piante più produttive e le varietà più resistenti a un solo parassita; con l’industrializzazione vengono usate macchine, pesticidi, fertilizzanti, sistemi di irrigazione che richiedono e producono piante tutte uguali. Questa uniformità, questo impoverimento genetico già presentano gravi limiti, in quanto è bastato un nuovo parassita per distruggere tutti i raccolti.
Ogni attività produttiva richiede grandi quantità di energia. Il flusso di energia nelle nazioni più sviluppate è aumentata di oltre cinquanta volte nell’ultimo secolo, e un cittadino nordamericano consuma 40 volte l’energia di un abitante del Terzo Mondo. Attualmente quasi il 90 per cento dell’energia mondiale proviene dai combustibili fossili: carbone, petrolio, metano. Si scoprono nuove riserve di combustibili, ma la loro quantità è comunque in forte diminuzione. Solo il carbone ha riserve abbondanti, ma il suo impiego è limitato dall’inquinamento causato da acido solforico (piogge acide) e da anidride carbonica (effetto serra). La ricerca di fonti alternative è aperta, ma le potenzialità dell’energia solare ed eolica restano limitate, mentre l’energia da fusione nucleare è ancora lontana e potrebbe essere comunque osteggiata. Il problema va affrontato utilizzando in parallelo tecnologie produttive più dolci, risparmi energetici e una differenziazione delle fonti. Il discorso è analogo per le altre materie prime: solo ferro, alluminio e silicio sono abbondanti nella crosta terrestre. A mano a mano che si estraggono minerali dal suolo, la loro concentrazione nei giacimenti si riduce progressivamente, per cui aumentano le scorie prodotte, mentre cresce anche l’energia necessaria per produrre un’unità di materiale. In questo modo il progressivo esaurimento dei giacimenti dei minerali accelera anche l’esaurimento dei combustibili fossili. L’idea e la pratica di una società “usa e getta” deve perciò essere superata.
I cittadini delle zone sviluppate producono ogni giorno enormi quantità di rifiuti. In Italia se ne producono quotidianamente 50 mila tonnellate, accumulate in discariche o bruciate in inceneritori. Questo comporta un grande spreco di risorse e inquinamento ambientale. La raccolta indifferenziata dei rifiuti, che richiede una loro separazione nelle abitazioni in cui vengono prodotti, è necessaria per evitare di finire sommersi. Fra l’altro, ogni giorno sono prodotti nel mondo 900 mila tonnellate di rifiuti tossici, il 90 per cento dei quali nelle aree industrializzate: sono scorie nucleari, metalli come il piombo della benzina o il mercurio delle pile, oppure sostanze chimiche artificiali come vernici e solventi.
Molte cose si possono fare per dare un futuro migliore agli abitanti del pianeta. Ad esempio, riciclando bottiglie e lattine, usando in città mezzi pubblici o biciclette, riparando gli oggetti piuttosto che buttarli via per comprarne altri. E ancora: dandosi un regime di vita sobrio, limitando anche nel nostro ambiente conflitti e tensioni, essendo tolleranti verso le diversità, sostenendo una solidarietà internazionale, adottando tecnologie soft a basso costo energetico. Tutto questo, però, non basta. Nel frattempo la popolazione umana continua a crescere, e questo significa maggiori fabbisogni. Perpetuando questo modello di sviluppo senza cambiamenti, il tracollo del sistema Terra può diventare inevitabile.
Ma esistono anche meccanismi di autoregolazione, per cui l’incremento di popolazione a un certo punto tende a frenare, e i costi delle materie prime diventano così alti che occorre cercare fonti alternative. Ma se si rinviano all’estremo questi cambiamenti, al momento in cui saranno diventati necessari e inevitabili, il malessere sarà ben più visibile. Sarebbe meglio avviare per tempo scelte strategiche globali per promuovere uno sviluppo sostenibile su cui fondare il benessere dell’umanità. Per sviluppo sostenibile si intende il dare risposta ai bisogni presenti senza compromettere, per le future generazioni, la possibilità di soddisfarne i bisogni.
Le previsioni sul futuro della Terra, in base ai dati disponibili e ai modelli matematici utilizzati, sono spesso catastrofiche: sovrappopolazione, denutrizione, inquinamento, accumulo di rifiuti, esaurimento di materie prime, deforestazione, estensione dei deserti, riscaldamento del clima e scioglimento dei ghiacciai per l’effetto serra, malformazione nei vegetali per il buco d’ozono. In questi modelli la Terra viene considerata il campo di battaglia tra diversi e complessi fenomeni intrecciati fra loro.
Una diversa ipotesi considera la Terra come un organismo vivente che cerca un suo equilibrio ed evolve per rimarginare provvisori squilibri: come riassorbire l’inquinamento delle acque, oppure bilanciare l’eccesso di anidride carbonica. Gli scienziati non sono tutti concordi sulle varie ipotesi, anche se studi recenti hanno dimostrato che l’evoluzione avviene per equilibri punteggiati e discontinui, con cambiamenti rapidi alternati a fasi stabili; le mutazioni avverrebbero in modo mirato e attivo, con un autocontrollo funzionale alle necessità e alle risorse.
Quel che è necessario scoprire è se i tempi biologici siano compatibili con quelli storici degli interventi e delle alterazioni prodotte dall’uomo. Una volta eliminati eccessi e squilibri, al limite dopo la scomparsa dell’uomo, ci penserà la Terra stessa a riparare le ferite, a riequilibrare le sue risorse, a ritrovare un suo benessere, adatto anche alla vita del nuovo uomo, che non è che uno dei tanti viventi che popolano il nostro più bello e bistrattato laboratorio planetario.

   
   
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