
Settembre
2002
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Futuro probabile destinazione |
Luca
Berardi - Paolo De Roberto - Martino Altarocca - Mauro Borgomeo -
Emanuele Varese - Eraldo Schirinzi - Giorgio De Santis |
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La caduta
del Muro di Berlino è il segno più
clamoroso della scomparsa del nostro
mondo di ieri, della fine dellepoca che
si era aperta sulle
rovine del secondo conflitto mondiale.
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GRANDANGOLO - 1
Il mondo di ieri
Luca Berardi
Allindomani della prima guerra mondiale, lo scrittore tedesco
Stephan Zweig aveva parlato del mondo pre-bellico come del «mondo
di ieri», segnalando con questa espressione la forte cesura,
il senso di discontinuità che la guerra aveva provocato nella
storia europea e mondiale. Era stato un cambiamento epocale, come
dimostrava il crollo di quattro imperi Austria, Germania,
Russia, Turchia che avevano avuto un ruolo da grandi protagonisti
nella politica ottocentesca, e come dimostravano i mutati rapporti
di forza sulla scena mondiale tra le grandi potenze.
Un cambio epocale di analoghe dimensioni si è verificato,
potremmo dire, recentemente, negli ultimi anni Ottanta del secolo
scorso, con la fine di quel sistema di Stati che facevano riferimento
al modello del cosiddetto socialismo reale. Tale fine è culminata
nel 1989, con la caduta del Muro di Berlino, la cortina che divideva
la Germania orientale da quella occidentale. Fortunatamente senza
lintervento di una guerra lunga e sanguinosa come quella del
1914-18, sebbene non fossero mancati i momenti drammatici
e le tensioni, e sebbene non siano mancate le vittime, anche gli
avvenimenti dell89 hanno segnato la cesura tra un mondo
di ieri e un mondo di oggi, che presenta caratteristiche di
sostanziale novità rispetto al passato.
Da questo punto di vista, noi oggi viviamo un mondo nuovo,
e la sua novità si ripercuote non soltanto sulla scena politica
mondiale, ma sullesistenza di tutti noi nella dimensione quotidiana,
con effetti che forse ancora non è facile identificare nella
loro pienezza.
Il mondo scomparso, il nostro mondo di ieri, era stato
plasmato dai tragici rivolgimenti della seconda guerra mondiale,
che aveva rappresentato a sua volta una drammatica rottura nellevolversi
della storia contemporanea. La fine del conflitto, infatti, aveva
visto un mondo sconvolto da lacerazioni e da immani disastri, che
avrebbero influito in vario modo sulla vita sociale, sulleconomia,
sullesperienza umana di individui e di popoli. Era un mondo
diviso, oppresso dagli orrori del passato, dalla vergogna del genocidio
che aveva decimato in tutta Europa le popolazioni, un mondo speranzoso
e nello stesso tempo preoccupato nei riguardi del futuro, che si
presentava sotto il contrastante doppio segno della ricostruzione
e della minaccia atomica, degli slanci ottimistici e delle battute
darresto disperate.
Se lesigenza di una lotta contro il nazifascismo aveva portato
il mondo capitalista e quello comunista a unire gli sforzi pur nella
diversità degli orientamenti politico-ideologici, a guerra
finita prevalgono le divisioni. Le due superpotenze, gli Stati Uniti
e lUnione Sovietica, diventano anzi i poli contrapposti di
un sistema le cui premesse erano state messe a Yalta, nella
conferenza interalleata del 1945 che vede il mondo diviso
in due blocchi sotto la guida dei due Stati più potenti,
simbolo di universi politico-economici lontani e ostili. Usa e Urss
dominano il quadro mondiale, rivali irriducibili, ma uniti dal reciproco
riconoscimento della libertà di azione che ciascuno
dei due Stati può esercitare allinterno della propria
sfera dinfluenza. Al desiderio e al bisogno di pace si sovrappone
così una nuova minaccia sotto forma di permanente contesa
tra i due campi avversi. Prende corpo la guerra fredda, che si sviluppa
attraverso la propaganda, la disinformazione, lo spionaggio, le
rigide prese di posizione in politica estera, lo scontro a distanza
nei momenti di tensione internazionale e di conflitto (soprattutto
in Asia e in Africa), laumento del potenziale bellico per
far fronte ad eventuali attacchi del nemico, soprattutto la crescita
delle micidiali riserve atomiche. Da una parte e dallaltra
si enfatizza lavversario, si moltiplicano le esigenze di difesa,
si contribuisce a dar corpo ad un sistema blindato, di cui risentono
in modo anche doloroso le vicende sia dei popoli sia degli individui.
La costituzione della Nato (alleanza politico-militare fra i Paesi
occidentali, nata al fine di contrastare uneventuale espansione
dellUrss nellarea nord-atlantica) nel 1949, e alcuni
anni dopo, nel 1955, la firma del Patto di Varsavia (con cui i Paesi
dellEst sottoscrivono un patto di amicizia, cooperazione,
reciproca assistenza, con coordinamento delle rispettive forze armate
in funzione antioccidentale) sanciscono permanentemente lesistenza
di un mondo bipolare. Di fronte a questa realtà, alcuni Paesi
esterni cercano faticosamente di assumere una posizione
neutrale ed equidistante, proponendosi come mediatori di un processo
che porti lentamente ad un superamento del rigido sistema dei blocchi.
Sono i Paesi non allineati, fra i quali ci sono molti
Paesi ex colonizzati che, liberatisi, non solo ridefiniscono il
quadro geografico del mondo, ma tentano anche di assumere un ruolo
positivo nel contesto della politica internazionale.
Intanto, però, maturano altre novità: la morte di
Stalin in Urss e il successivo processo di destalinizzazione avviato
da Kruscev, da una parte, e lelezione di Kennedy a presidente
degli Stati Uniti, dallaltra, creano le premesse per una nuova
fase di rapporti fra le superpotenze. Alla guerra fredda succede
il disgelo, che si sviluppa tuttavia con andamento contraddittorio,
tra momenti che sembrano davvero lasciarsi alle spalle il passato
e momenti invece che ridanno corpo alle vecchie logiche di contrapposizione.
Motivi di tensione, addirittura pericoli di scontro tra le due superpotenze,
continuano infatti a sussistere. Tuttavia, anche se con passo incerto,
tra battute darresto e avanzamenti, le possibilità
di convivenza, o, secondo lespressione più diffusa,
di coesistenza pacifica, sembrano farsi strada e aprono nuove prospettive
a cui non sono estranee anche le posizioni innovative assunte dalla
Chiesa cattolica sotto il pontificato di Giovanni XXIII. Negli anni
Sessanta, però, la situazione mondiale è contrassegnata
dallinsorgenza di gravi tensioni e crisi sia ad Est che ad
Ovest: il rifiuto della leadership dellUnione Sovietica e
la Primavera di Praga, da un lato, la contestazione
contro la sporca guerra nel Vietnam e le lotte studentesche,
dallaltro, mettono in discussione lassetto del mondo.
Fra gli anni Sessanta e Settanta vengono sempre più in luce
le difficoltà dellUrss. La priorità data al
confronto competitivo col mondo capitalistico aveva reso obbligata
per lUnione Sovietica la scelta dellindustrializzazione
in tempi brevi, attraverso un rigido sistema centralizzato di direzione
e di controllo. Ora che il consolidamento dellapparato industriale
può dirsi raggiunto, si tende ad una cauta liberalizzazione,
che suscita tuttavia resistenze nellapparato conservatore
di governo. Nello stesso tempo, la forte compressione dei consumi
privati a vantaggio delle produzioni dellindustria pesante
che quella scelta comportava ripropone il problema del confronto
con lOvest: il tenore di vita dei sovietici appare largamente
inferiore rispetto agli standard occidentali.
Nasce in Urss il mito del mondo occidentale, spesso enfatizzato
come una nuova terra promessa, al di là delle difficoltà
e delle contraddizioni che, in forma diversa, segnano anche i Paesi
capitalistici. Le autorità sovietiche tendono perciò
ad ostacolare ogni libera circolazione di uomini e idee, a mantenere
chiuse le frontiere soprattutto in uscita, a rafforzare
le strutture di orientamento e di controllo ideologico, esportando
questo modello anche nei Paesi satelliti. Da tutto ciò derivano
crescenti fenomeni di malessere e di disagio sociale, di dissenso
più o meno organizzato, di forme di disaffezione, di assenteismo
nei luoghi di lavoro, con conseguente tentativo di protesta politica,
di fughe dal quotidiano che hanno come esito sanguinose rivolte
popolari.
Al declino dellUrss contribuiscono anche le difficoltà
dellapparato produttivo interno e dei Paesi collegati: le
economie orientali, infatti, non riescono a tenere il passo con
il sempre più rapido processo di modernizzazione in atto
in Occidente. In questo quadro, una svolta di radicale novità
si verifica nel 1985, quando viene eletto segretario del Partito
comunista sovietico Michail Gorbaciov, sostenitore della necessità
di un processo generale di rinnovamento allinterno dellUrss
e di una politica di distensione in campo internazionale. Due parole
chiave sintetizzano il programma di governo di Gorbaciov: perestrojka
(ristrutturazione) e glasnost (trasparenza), a indicare lavvio
di una politica di profondi cambiamenti nelleconomia e nella
società e di un diverso rapporto tra pubblici poteri e cittadini.
In politica estera Gorbaciov inaugura una stagione di proficui rapporti
e di dialogo con gli Stati Uniti, trovando un interlocutore interessato
nel presidente Reagan (e poi nel suo successore, George Bush). Tra
l87 e l89, dopo anni di immobilismo sulla via della
coesistenza pacifica, una serie di accordi tra le due superpotenze
porta a un reciproco impegno per la riduzione degli armamenti nucleari.
Si aprono nuove prospettive per una collaborazione su base mondiale
e per un futuro pacifico. Laccordo significa unera nuova
per i Paesi dei due schieramenti, come per i Paesi esterni ai blocchi.
E linizio di unaltra storia.
La seconda metà degli anni Ottanta costituisce un periodo
di grandi fermenti non solo per lUrss, ma per tutti i Paesi
dellEst. Tra l88 e l89 in Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia,
Romania, Bulgaria, Germania orientale i vecchi governi sono messi
in crisi e sostituiti da nuove formazioni, attraverso vicende diverse,
tormentate e contraddittorie. Dappertutto si afferma lesigenza
di avviare nuove esperienze politiche sotto il segno della libertà.
Per le due Germanie, dopo anni di separazione, si apre la via della
riunificazione. E il 3 ottobre 1990: la nuova Germania unita
nasce in un clima di fiducia e di speranza.
La caduta del Muro di Berlino è il segno più clamoroso
della scomparsa del nostro «mondo di ieri», della fine
dellepoca che si era aperta (o riaperta) nel 1945 sulle rovine
del secondo conflitto mondiale.
Il mondo in cui viviamo è profondamente diverso da quello
del passato recente. Ciò non significa, comunque, che sia
un mondo meno complesso o meno tormentato da problemi di vario ordine
e grandezza. Se è vero che con il venir meno del sistema
bipolare sono venute meno le ragioni della radicale contrapposizione
che aveva caratterizzato le coordinate della politica mondiale per
decenni, non sono però purtroppo scomparsi motivi di contrasto,
tensioni, scontri aperti, situazioni difficili in diverse zone della
terra. Anzi, la caduta dei regimi autoritari e la conseguente liberalizzazione
hanno, per esempio, accentuato un fenomeno già largamente
presente in Europa: lesplodere dei nazionalismi, la frammentazione
degli Stati composti da molteplici etnie, le spinte centrifughe
rappresentate da rivendicazioni localistiche e particolaristiche.
I casi più evidenti sono rappresentati dalla frantumazione
della stessa Urss in una serie di Stati spesso fortemente antagonisti
fra loro e la polverizzazione dellex Jugoslavia.
Una delle formule ricorrentemente usate per caratterizzare i nostri
anni è quella della fine delle ideologie. Che
cosa significa questo? Proviamo a definire il termine: ideologia
è un sistema complesso di idee che orienta e guida ogni atto
di pensiero, ogni forma di azione di un individuo o di un gruppo,
indipendentemente dal riscontro con la realtà effettivamente
esistente. In questo senso, lideologia diventa una sorta di
camicia di Nesso entro cui sono costrette idealità, progetti,
attitudini, il fare concreto dei soggetti umani. La divisione del
mondo in blocchi aveva portato alla cristallizzazione di ideologie
contrapposte, che da una parte e dallaltra dovevano comunque
legittimare la giustezza e la superiorità della propria posizione.
Ogni occasione era buona per trovare conferme alla bontà
della propria ideologia contro quella avversaria: i successi nella
corsa alla conquista dello spazio, gli sviluppi della ricerca tecnico-scientifica,
persino le vittorie nelle gare sportive. Con la caduta dei regimi
dellEst, questo motivo di confronto serrato non ha avuto più
ragione di esistere. Si va sempre più affermando un modo
pragmatico di valutare e affrontare le situazioni, oltre i pregiudizi
e gli schemi aprioristici, ovvero al di fuori delle ideologie. Ciò
accade sullo scenario mondiale come allinterno dei singoli
Stati; cambiano le regole e i motivi del confronto, cambiano anche
i termini della lotta politica. Si creano spazi diversi di competitività,
si orientano le produzioni al libero mercato, si procede alla formulazione
di idee perché questa competizione e questo libero mercato
non siano selvaggi, discriminatori. Si cerca la via
di una globalizzazione che non cancelli identità e vocazioni,
che non crei ulteriori squilibri, che resti comunque a misura duomo.
Il campo del lavoro è sterminato. Ma vale la pena di accettare
la sfida che propone.
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Si fa strada lidea
di una ragione meno potente e sicura,
che si muove
faticosamente
tra zone dombra
e improvvise
illuminazioni.
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GRANDANGOLO - 2
Moderno e Postmoderno
Paolo De Roberto
Per definire che cosa intendiamo per postmoderno dobbiamo prima
intenderci sul significato del termine moderno, parola che viene
usata in riferimento alla dimensione temporale. Moderno
è un concetto relativo, nel senso che non esiste qualcosa
che sia di per sé immutabilmente moderno. Ciò che
oggi appare tale potrà essere domani vecchio, soppiantato
da altre modernità. Anche il gusto, la mentalità,
possono influire sulla determinazione di ciò che è
moderno, cioè veramente innovativo rispetto al passato. Pur
essendo presente nel pensiero antico lidea di un conflitto
fra lantico e il moderno, tra il passato e la tradizione rispetto
a ciò che sopravvive e li soppianta, per esempio tra i vecchi
e i giovani in un conflitto di generazioni, il termine moderno
come tale appare tardi. Originariamente, alla parola antico
si contrapponeva quella di nuovo, con lintento
di segnalare una radicale rottura nei confronti del passato. Poi,
nel tardo latino del VI secolo, comincia a comparire un neologismo,
modernus, formato a partire dallavverbio modo,
che significa recentemente, così come da hodie
(oggi) aveva preso forma hodiernus. Il termine
entra poi stabilmente nel linguaggio altomedioevale e si trasmette
alle lingue volgari. Con esso si trasmette alla cultura quella che
viene indicata come la querelle sugli antichi e sui
moderni, ovvero la questione sulla superiorità dei moderni
rispetto ai predecessori.
La questione antichi-moderni ha avuto nel corso della storia del
pensiero esiti diversi; alcuni hanno sostenuto la superiorità
degli antichi, possessori di una saggezza originaria; altri hanno
sostenuto la superiorità dei moderni, perché, anche
se nani, ovvero inferiori ai grandi intellettuali del tempo andato,
possono issarsi sulle spalle dei giganti del passato, cioè
utilizzare le conoscenze elaborate da chi li ha preceduti sul cammino
del sapere, e perciò sommare alla propria esperienza quella
dei progenitori. Al di là della contesa, il termine moderno
si è definitivamente imposto con un significato generalmente
positivo, a indicare novità, scoperta, senso del progresso.
NellOttocento, comunque, Baudelaire conferisce al termine
un significato particolarmente pregnante. Il contesto è quello
della critica darte. Trattando degli artisti del suo tempo,
Baudelaire infatti traccia un profilo del pittore della vita moderna,
un «solitario dotato di immaginazione attiva», il quale
«cerca quel qualche cosa che mi si consentirà di chiamare
la modernità..., il transitorio, il fuggitivo,
il contingente» che sintreccia nellopera darte
ai valori eterni e immutabili. Il pittore moderno è cioè
colui il quale riesce a cogliere il senso del divenire vitale, della
metamorfosi, del rinnovamento intravisto nella mutevolezza delle
cose. Il pittore moderno si muove a suo agio in un mondo nel quale
non sembrano più esserci punti fissi di riferimento, dando
comunque forma estetica duratura alla mobilità del reale.
Ancora nel corso dellOttocento, con lo sviluppo dellindustrializzazione
il termine viene sempre più impiegato a indicare gli straordinari
sviluppi della scienza e della tecnica e conseguentemente di uneconomia,
come quella industriale, che si basa appunto sul progresso scientifico-tecnologico.
Moderno è il mondo delle fabbriche, in contrapposizione al
vecchio mondo della produzione artigianale, moderno è il
nuovo mondo delle comunicazioni veloci, dellinnovazione accelerata;
moderno è il mondo in cui i mercati si allargano sempre più,
mettendo a disposizione di strati sempre più larghi della
popolazione un numero e una quantità crescenti di prodotti
di consumo, soddisfacendo bisogni più sofisticati, stimolando
nuovi modelli e standard di vita.
Ma il modello progressivo, che soprattutto il positivismo aveva
alimentato nellambito della cultura ottocentesca, entra decisamente
in crisi sul finire del secolo XIX, quando si scopre limpossibilità
di uno sviluppo infinitamente ascendente delleconomia e della
società. Le crisi di sovrapproduzione, lo scatenarsi della
concorrenza sul piano internazionale, la difficoltà di controllare
landamento dei mercati mettono sotto gli occhi di tutti i
limiti del modello industriale. Nello stesso tempo appare palese
come i problemi di fondo della vita umana, la povertà, la
fatica, il dolore, la malattia, la morte, possano essere attenuati
o tenuti parzialmente sotto controllo, ma non possano essere eliminati
dallorizzonte dellesperienza umana. Cade definitivamente
il mito delle magnifiche sorti e progressive dellumanità.
Si fa strada lidea di una crisi della ragione, cioè
di una crisi delle coordinate tradizionali di pensiero, che tra
le loro categorie di fondo annoverano quella di progresso. Sembra
che di fronte al caos di una realtà incontrollabile nel suo
continuo mutare la ragione umana non disponga di strumenti adeguati
per mettere ordine, classificare, dominare gli eventi. Luomo
che, grazie alla scienza e alla tecnica, aveva creduto di poter
imporre il proprio dominio sulla realtà e di saper antivedere
ogni possibile sviluppo delle cose, scopre invece la propria essenziale
impotenza, il suo essere un piccolo ingranaggio inserito nella grande
complessità delluniverso.
Questi temi hanno costituito uno dei motivi di fondo della riflessione
filosofica nel corso del Novecento. A partire da Nietzsche, che
per primo, ancora nel secolo XIX, mette fortemente in crisi il concetto
di progresso, molti pensatori propongono di ridisegnare i confini
della cosiddetta ragione classica, quella ragione che si era identificata
nel modello matematico del conoscere. Il modello matematico, che
si era affermato in età moderna ad opera di filosofi e scienziati
come Cartesio, Galilei, Leibniz, conferiva alluomo piena fiducia
nelle sue capacità di padroneggiare razionalmente il mondo
oggettivo nei suoi intrecci complessi, di misurarne le consistenze
e prevederne gli sviluppi, di influire sugli accadimenti; in una
parola, di conoscere con assoluta certezza la realtà. Si
fa strada lidea di una ragione meno potente e sicura, che
si muove faticosamente tra zone dombra e improvvise illuminazioni.
Allevidenza solare che caratterizzava la ragione cartesiana
e che preludeva ad una verità senza preclusioni, si sostituisce
ora limmagine di una mente umana che procede attraverso chiaroscuri,
mai certa di ciò che ha raggiunto, alla perenne ricerca di
un nuovo, più profondo senso delle cose. E quello che
con espressione felice Gianni Vattimo (raccogliendo consensi e dissensi
in egual misura) ha chiamato pensiero debole, un pensiero,
cioè, che non ha paura di mostrare i propri limiti, di denunciare
la propria sprovvedutezza di fronte al reale.
Da questo insieme di considerazioni nasce il postmoderno, ossia
un modo di guardare alle cose che rompe ogni continuità con
la ragione classica, con il pensiero forte delle scienze
matematiche, con la fiduciosa certezza in uno sviluppo infinito
del progresso umano. Viene meno lidea della modernità
come crescita senza fine, si entra in ambito di mentalità
diverse, postmoderne appunto, più aperto allautocritica,
alla ricerca di nuovi modelli e valori, che non sono mai posti come
assoluti, bensì transitori, oscillanti, precari. Il termine
postmoderno comincia a diffondersi, a suscitare discussioni in modo
trasversale in diversi gruppi culturali. Oggi si può dire
che il termine sia diventato di uso comune ad indicare una serie
di fenomeni propri della società contemporanea.
Uno dei primi campi di applicazione del termine è stato quello
dellarchitettura, in contrapposizione con il cosiddetto Movimento
Moderno. Con questa espressione si era indicata, nei primi decenni
del Novecento, la tendenza architettonica ad uno stile che accanto
ai valori dellestetica rivendicava quelli della razionalità
e della funzionalità. Alla Biennale di Venezia del 1980,
larchitetto italiano Paolo Portoghesi presentò il progetto
di una strada nuovissima contrassegnata ai lati da due
file di palazzi ispirati agli stili più diversi, intendendo
con ciò segnalare lesigenza di nuove proposte formali
che, superando le regole tradizionali codificate nellambito
del Movimento Moderno, mirassero alla creazione di nuovi significati
e valori.
In maniera diversa, e con una certa cautela, anche allinterno
del campo letterario si è affermata una tendenza di ispirazione
postmoderna. In questo caso il termine è stato inteso soprattutto
come un invito a ridefinire che cosa si intende per testo ed espressività
del testo, a partire da un impegno critico che ha come fine primario
lindividuazione delle specifiche potenzialità espressive
di ogni discorso letterario. Secondo tale prospettiva, si usa anche
il termine di decostruzione, a indicare appunto lintento
di smontare il testo per saggiarne le intime possibilità
espressive e decifrarne i contenuti autentici. Uno dei massimi teorizzatori
di questa tendenza è lo studioso francese Jacques Derrida,
che con le sue opere ha lanciato non poche provocazioni culturali.
Tuttavia, il settore in cui più ampio è stato limpiego
del termine postmoderno e più viva la discussione intorno
al suo significato è stato quello delle arti visive, che
negli anni recenti hanno conosciuto forme molto audaci di sperimentazione.
Nel quadro delle arti visive sono sostanzialmente emerse due tendenze
in ordine allinterpretazione del postmoderno.
Il critico Renato Barilli lo collega al fatto che nella nostra società
si sia passati da una civiltà meccanica, quale era quella
del mondo nato dallindustrializzazione, ad una civiltà
elettronica, dove «tutto è energia», tensione,
avidità di conquistare nuove frontiere sul piano della quantità
(più spazio, più tempo, più fisicità),
lasciando ben poco alla qualità, allassaporamento appagato
e soddisfatto di quelle stesse frontiere raggiunte. Lo sviluppo
dellelettronica, secondo Barilli, ha avuto una notevole influenza
sulla nascita di nuove tecniche espressive, a partire dai tardi
anni Sessanta, e in ultima analisi sullevoluzione delle stesse
tendenze artistiche.
Unaltra linea interpretativa, invece, tende a cogliere nel
postmoderno il riutilizzo di modelli e stili tradizionali variamente
intrecciati fra loro, in modo da ottenere risultati nuovi e originali.
Si afferma, da questo punto di vista, unidea del postmoderno,
a somiglianza di quanto era avvenuto per larchitettura, come
posizione eclettica, composita, difficilmente classificabile sotto
un unico segno, capace di combinare liberamente, fuori dalle regole
tradizionali, forme e motivi diversi.
Qualunque sia linterpretazione data, è comunque vero
che sotto letichetta del postmoderno si raccolgono tendenze
e orientamenti differenti, che ora combinano insieme, ora sviluppano
in modo autonomo motivi di pura inventività, motivi ripresi
dalla tradizione e motivi ispirati ad esperienze e acquisizioni
della più recente tecnologia. Ciò che li accomuna
è lesigenza di novità, di sperimentalismo, che
emerge anche là dove cè un esplicito richiamo
a forme e stili già affermati; anche in questo caso, infatti,
i contenuti ripresi vengono per così dire reinventati alla
luce di nuove visioni e di nuove direttive artistiche. Non è
casuale che uno dei gruppi più attivi negli anni Ottanta
in Italia si sia caratterizzato e fatto conoscere dal pubbblico
con lespressione di nuovi-nuovi.
Una delle tendenze emergenti dellarte postmoderna è
certamente quella che prende il nome di transavanguardia,
termine coniato dal critico Achille Bonito Oliva alla fine degli
anni Settanta, per indicare un gruppo di artisti che riprendevano
in nuove forme e con nuova ispirazione canoni pittorici propri dellespressionismo.
A differenza delle avanguardie artistiche attive in tempi precedenti,
le quali si erano caratterizzate per luso di uno specifico
linguaggio artistico, la transavanguardia rivendica un uso inedito
del linguaggio come strumento trasversale, di
passaggio tra forme espressive e realizzazioni artistiche
diverse. Lo stile diventa allora una sorta di sintesi in costante
evoluzione, di stili diversi, sotto il segno comunque di una tendenza
neoespressionistica, cioè una tendenza a valorizzare il colore
e lincisività del disegno quali strumenti capaci di
restituire la complessità delle emozioni profonde. La transavanguardia
si presenta come specie di arte nomade, in viaggio attraverso forme
stilistiche già esperite nel passato, per tradurle e ricomporle
in un nuovo, multiforme linguaggio dotato di grande efficacia espressiva.
Ciò non significa che gli artisti della transavanguardia
si identifichino nei linguaggi tradizionali; essi ne riprendono
le linee figurative per riplasmarle continuamente, per reinventarle
in nuove dimensioni, convinti che «in una società di
transizione verso una stabilizzazione indefinibile, è possibile
adottare solo una mentalità nomade e transitoria» (Bonito
Oliva).
In Germania, intanto, uno dei gruppi più in vista è
quello denominato nuovi selvaggi, unespressione
coniata dalla stampa a indicare la violenza della loro pittura.
I nuovi selvaggi rivendicano lassoluta libertà di utilizzare
forme artistiche affermatesi nel passato senza sottostare tuttavia
ad alcuna norma stilistica; essi considerano la pittura come una
conquista di spazi inesplorati, una specie di avventura che si costruisce
inventivamente via via che lartista opera concretamente, traendo
liberamente dalla tradizione, con attitudine trasgressiva e fantasia,
motivi formali e contenutistici che possano ricollegarsi alle esperienze
degli uomini di oggi. In un mondo precario e mutevole, dove non
cè spazio per valori assoluti e immutabili, larte
diventa lo strumento privilegiato, grazie alla sua capacità
di costante rinnovamento, per acquisire una sia pur instabile identità.
Altre sperimentazioni, di carattere più popolare, sono state
avviate in Francia dal gruppo di Figuration libre, i
cui esponenti si ispirano variamente a certe forme dellarte
e delle comunicazioni popolari dai fumetti ai media, a certe
provocazioni della pop-art per condurre un discorso di radicale
presa di coscienza della realtà. Nella stessa direzione si
sono collocati i graffitisti newyorkesi, con opere che
anche per il modo provocatorio con cui si propongono al pubblico
intendono essere un richiamo pressante, quando non una denuncia
dei problemi del mondo doggi attraverso immagini graffiate-graffianti
di facile comunicatività.
Le tendenze interne al postmoderno sono molteplici, spesso non facilmente
identificabili e classificabili nelle reciproche differenze, data
la costante circolarità di motivi dalluno allaltro
gruppo. Tra coloro che in maniera più diretta si richiamano
al passato ricordiamo i cosiddetti ipermanieristi o
pittori colti o citazionisti, che si ricollegano
ai grandi maestri del Rinascimento, per riaffermarne le scelte stilistiche.
Gli anacronici, invece, guardano agli autori del passato
per «rifare loro il verso», riproponendone in maniera
esasperata e deformante i temi e le linee compositive. I nuovi
futuristi, al contrario, si collegano alle esperienze della
comunicazione di massa, con intento dissacratorio nei confronti
della figurazione artistica tradizionale.
Indubbiamente, le tendenze presenti nella comunicazione di massa
hanno avuto una larga influenza sui più recenti sviluppi
delle nuove correnti artistiche, rendendo in qualche caso impossibile
stabilire il confine tra i due campi.
Per esempio, luso di tecniche sempre più raffinate
e specialistiche nellambito della fotografia e dellinformatica
ha offerto ampio materiale alla sperimentazione artistica. Pensiamo
da un lato al montaggio di fotogrammi in serie, al fotomontaggio
o a immagini ottenute con speciali procedimenti e filtri; dallaltro
lato, alla composizione computerizzata con esiti multiformi, fino
alla realizzazione della realtà virtuale. Nellincontro
tra arte e tecnica delle comunicazioni si aprono per il futuro infinite
possibilità di sperimentazione.
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Nei film del
neorealismo emerge come collante un
populismo forte,
non pietistico,
non larmoyant,
e nelle opere migliori un senso alto
del tragico.
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GRANDANGOLO - 3
Gli anni del Neorealismo
Martino Altarocca
Sotto il consueto, pietroso sole di giugno, Roma esultava e si
curava le ferite. Era il 1944. Dentro la città sembrava si
fosse rovesciata lintera Quinta Armata americana. Stuoli di
G-men e di prostitute apparse come per incanto tra le rovine si
aggiravano per le strade e facevano lalba nei primi locali
notturni tirati su in tutta fretta. La metropoli somigliava a un
formicaio impazzito: fame, truffe, miseria, collera contro chi la
guerra aveva voluto e imposto alla maggioranza degli italiani, euforia
di libertà, entusiasmi, speranze. Da quel formicaio nacque
il neorealismo.
Famelici come tutti, a caccia di un futuro come tutti, alcuni uomini
si aggiravano alla ricerca di un fantasma: il cinema. Il cinema
a Roma non esisteva più. Cinecittà, sconquassata dai
bombardamenti, saccheggiata, era stata occupata dagli sfollati.
E la pellicola? Dove trovarla? E i soldi? Dove cercare qualche vecchia
macchina da presa scampata alla distruzione? E i produttori? Spariti
o incerti. Eppure, già nel novembre 44 qualcuno si
era buttato nellavventura.
«Per fare Roma città aperta Rossellini
dovette vendersi tutto. Tutto. La pelliccetta mia, la catenina doro,
tutto quello che avevamo per pezzetti di mozzicone di pellicola.
Andavamo avanti a pane e caciotta»: è la prima moglie
di Rossellini che parla. Rossellini aveva unabilità
diabolica nello scovare soldi: da una contessa, da un pastore sardo
arricchito dal mercato nero, da un commerciante di stoffe, a spizzichi,
a credito, pagando e non pagando la troupe, «mettendo in macchina
a volte qualche spezzone di pellicola scaduta e sperando nella fortuna».
Rossellini buttò la macchina da presa nelle strade e nelle
piazze, tra i casoni popolari della periferia, in un clima lugubre,
carico di memorie e di miseria, con gli abitanti che si prestavano
a fare da comparse, avendo ancora negli occhi le retate delle SS
e la violenza contro quanti opponevano un qualsiasi gesto di protesta
o di difesa. Così morì, in Roma città
aperta, stroncata da una raffica, Anna Magnani: a pancia allaria,
come una povera donna gravida.
«Io della scena della morte non ho fatto prove. Quando mi
hanno trascinato fuori dal portone allimprovviso, ho rivisto
le cose [...]. Sono ripiombata indietro di pochi mesi, al tempo
in cui per Roma portavano via i ragazzi. Perché era popolo-popolo
quello che stava addossato contro i muri. E quei dieci tedeschi
erano tedeschi-tedeschi, presi dal campo di concentramento. Di colpo
non sono stata più io [...]. La gente era pallida nel risentire
i nazisti mentre parlavano tra loro. Questo mi ha comunicato langoscia,
la rabbia [...] che ho espresso [...]».
Agghiaccianti furono lurlo e la corsa diperata dellattrice
dietro il camion che portava il suo uomo verso la tortura. Agghiacciante
la scarica di mitra che la stese al suolo.
Non è soltanto questo film a nascere in un clima tanto drammatico,
avventuroso, di disordine, di caos organizzativo, di arrischiata
improvvisazione artigianale. Tutti i primi film del neorealismo
ne hanno goduto e sofferto, realizzato sotto lurgenza
delle unghiate che quegli anni infliggevano a milioni di uomini.
Sciuscià (Shoe-shine!) di De Sica (sceneggiatura
di Zavattini e Sergio Amidei) entra in lavorazione quando Roma
città aperta non è ancora comparso sugli schermi.
Anche per Sciuscià ogni giorno di lavoro è
unincognita: utilizzati otto tipi di pellicola, le vecchie
lampade saltavano in continuazione, si girava senza permessi e la
polizia scacciava la troupe mentre gli sciuscià impegnati
nel film si disperdevano senza lasciare traccia. Da mesi a Roma,
come a Napoli e a Palermo, migliaia di bambini si aggiravano nelle
strade piccoli topi famelici esercitando mille mestieri:
lustrascarpe per i paesani in divisa, piccoli ruffiani,
bari provetti nel gioco delle tre carte e ladri spesso strumentalizzati
da bande senza scrupoli pronte a bruciarli nei traffici,
nei furti, negli imbrogli. Resi scaltri, a volte implacabili dalla
loro condizione disperata, De Sica ce li ha raccontati nella loro
crudezza, così come nei lampi di candore e di abbandono propri
di uninfanzia sfigurata da una società impietosa. Il
sogno di un cavallo bianco, con il quale cavalcare felici, non li
abbandonerà mai.
Allalba del 1946, tra le nebbie e il freddo dellinverno
lombardo, prendeva il via un altro film realizzato allavventura,
Il sole sorge ancora, per la regia di Aldo Vergano.
I pochi soldi provenivano dalle associazioni partigiane; spesso
tardavano, e allora tutto fatalmente si fermava. Troupe ridotte
allosso, nessun attore di richiamo, operai e contadini chiamati
a interpretare scene di cui pochi mesi prima erano stati protagonisti
o testimoni.
«Ci furono contadine che toccarono momenti di isterismo quando
nel ruolo del prete recitavo le litanie accompagnando verso la fucilazione
un gruppo di partigiani prigionieri. Una mi si attaccò alla
tonaca, insomma tutto diventò allimprovviso vivo, reale,
e io a mia volta raggiunsi unemozione maggiore... Giravamo
nei posti dove cera stata pochi mesi prima una durissima resistenza,
tutto era terribilmente fresco e cocente. Non recitavano, rivivevano
quello che avevano vissuto»: lo ricorda Carlo Lizzani, giovane
critico cinematografico, chiamato a ricoprire il ruolo del prete.
Ultimo in ordine di tempo a prendere la parola tra gli autori di
quella prima ondata di film neorealisti, Luchino Visconti, che nellestate
del 47 arriva in Sicilia: in testa, un vecchio amore per il
Verga de I Malavoglia e un progetto folle. In tasca, sei milioni.
A contatto con i pescatori di Acitrezza, con laspra scansione
dei loro giorni e delle notti in mare, delle loro condizioni di
vita immutate mezzo secolo dopo Verga, la struttura de I Malavoglia
si dissolve, ma non lo spirito di quel libro.
Senza sceneggiatura, senza piano di lavorazione, senza preventivo
finanziario, senza gru né dolly, con qualche metro di carrello,
un capomacchinista e un capoelettricista, Visconti batte il suo
primo ciak. Protagonisti de La terra trema saranno i
pescatori e le donne di Acitrezza. Con questi mezzi Visconti racconta
il dissolversi della famiglia dei Valastro, la loro rivolta contro
i grossisti del pesce, la sconfitta e la decisione di riprendere
il lavoro senza dichiararsi vinti. La troupe restò in Sicilia
per otto mesi: unautentica bestemmia per il cinema industriale.
Visconti ci rimise anche del suo, fino a quando un produttore accettò
di terminare una buona volta «questa assurda tela di Penelope».
Rossellini aveva continuato il suo viaggio nellItalia dellimmediato
dopoguerra con Paisà (1947). Sei episodi, dalla
Sicilia alle valli di Comacchio, attraverso Napoli, Roma, Firenze:
luccisione di «quella sporca ragazza italiana»
su una spiaggia della Sicilia al momento dello sbarco dei liberatori,
lamicizia tra un soldato nero e uno sciuscià, la guerriglia
nelle strade a Firenze, il massacro dei partigiani gettati vivi
nelle acque delle paludi. Un reportage accecante sulle vicende della
piccola gente alle prese con la storia. E dopo Paisà,
ecco Germania anno zero (1948). E il racconto
atroce di una famiglia tedesca in una Berlino sbriciolata dai bombardamenti.
Al centro della storia, il piccolo Edmond, che uccide il padre malato,
«una bocca inutile», è la sua giustificazione,
e si suicida.
Nel 48 De Sica e Zavattini con Ladri di biciclette
propongono un fatto di cronaca in apparenza insignificante: il furto
di una bici. La macchina da presa segue il pellegrinaggio affannoso
di un abitante di una borgata romana alla ricerca di una vecchia
bicicletta che rappresenta per lui un mezzo indispensabile di lavoro
e di vita. Lo accompagna il figlio bambino, tra speranze, sconforto,
umiliazioni, in un ambiente estraneo, indifferente, spesso ostile...
Apparivano in quegli stessi anni i primi film di esordio di Giuseppe
De Santis: Caccia tragica e Riso amaro,
giudicati insieme ad altri forse sbrigativamente come
un contributo al movimento neorealista.
Nel settembre 48, Visconti con le pizze de La terra
trema scende al Lido di Venezia. Ed è il massacro.
Il pubblico rifiuta sonoramente lopera, la giudica lenta,
ripetitiva, noiosa, parlata in un dialetto incomprensibile. Unoffesa
al buon gusto, allo spettacolo, alla lingua italiana. Uscito in
edizione integrale, il film viene ritirato precipitosamente. Unedizione
ridotta riuscì a racimolare a stento qualche milione. Lepisodio
veneziano può essere considerato simbolicamente il primo
vistoso colpo di freno offerto allondata di film neorealisti
che dal 44-45 ha rappresentato laristocrazia (o,
se si vuole, la moda) del cinema italiano. Anche allestero,
negli Usa, in Francia, in Inghilterra, quelle opere suscitavano
consensi partecipi fino allentusiasmo.
Ma chi erano gli autori del neorealismo? Da dove venivano? Né
giovani né esordienti, Rossellini, Visconti, De Sica, Zavattini,
tutti sui quarantanni (Vergano toccava i cinquanta), avevano
lavorato a lungo durante gli anni del fascismo. Tra il 41
e il 42 Rossellini girava tre film sulla guerra che certamente
non confliggevano con gli interessi del regime. Al contrario De
Sica e soprattutto Visconti, rispettivamente con I bambini
ci guardano e Ossessione, realizzavano due opere
giustamente ricordate come momenti di rottura, segni di trasgressione
rispetto ai vecchi stereotipi di tanto cinema italiano del ventennio,
sonnolento e tardo, al riparo dei luoghi comuni perbenistici di
unetica piccolo-borghese.
Non a caso ad aprire il discorso neorealista nella stagione 44-45
è Rossellini, il più lontano da ogni movimento culturale
di critica o di rivolta al vecchio regime. Un gesto di opportunismo?
No. Fu la storia stessa ad aggredire questi autori. Una cronaca
viva, atroce si imponeva ai loro occhi e alle loro coscienze. Contraddizioni
e soprusi occultati dagli anni dolciastri del quieto vivere esplodevano
con violenza, imponendo risposte e scelte. Sommersi dalla materia
incandescente in cui gli eventi li avevano scagliati, trascinati
da correnti impietose e rivelatrici, emergeva in loro prepotente
unottica nuova, un nuovo modo di guardare la realtà,
di rappresentarla.
Che cosa univa questi autori? La rottura e il rifiuto di ogni retorica,
anche se il mondo della guerra, della resistenza, del dopoguerra
si sarebbe prestato a vuoti esercizi di precettistica oratoria.
Il plot, lintreccio, lintrigo, strumenti indispensabili
per il cinema-merce, sono accantonati senza troppi rimpianti a favore
di una narrazione secca, lineare, legata alle cose, alla quotidianità.
Radicale è il rifiuto delleroe, del personaggio eccezionale,
mentre unattenzione costante è indirizzata alla coralità,
al collettivo come condizione sociale e umana. I personaggi
del cinema neorealista sono uomini qualsiasi che la macchina da
presa può anche isolare, ma che del collettivo riflettono
drammi e vicende. Da qui linteresse tendenziale, anche se
non assoluto, per gli attori non professionisti, presi dalla strada,
anche quando nel film compaiono Anna Magnani, Aldo Fabrizi o Walter
Chiari. Al di là della diversità di stile, nei film
del neorealismo emerge come collante un populismo forte, non pietistico,
non larmoyant, e nelle opere migliori un senso alto del tragico.
Ciò che rendeva bruciante il populismo di molti di quei film
fu soprattutto «laggressione e il furore conoscitivi»,
la scoperta del tragico nellesistenza quotidiana, il rovesciamento
della dimensione aulica della storia (quella degli eroi, dei leader,
del sublime che nasconde labiezione) e la testimonianza accesa
dei risvolti di oppressione individuale e collettiva che la storia
stessa porta con sé.
Anche nei film di De Sica, il più partecipe e coinvolto in
una vena sentimentale, la scoperta del semplice, dellumile
e dei suoi drammi non denuncerà salvo che in brevi
momenti commiserazione o compatimento. In Rossellini lo sguardo
è lucido, non appannato da una commozione facile, teso a
documentare i fatti. Naturalmente in Roma città aperta
o in Paisà si possono riconoscere tracce di vecchie
e tradizionali strutture di racconto, senza che ne sia compromessa
la novità e originalità delle opere. Per non parlare
de La terra trema, dove la tragedia dei pescatori è
raccontata con distaccato rigore stilistico lontano da motivi di
lamento o di recriminazione. Una panoramica sul neorealismo non
può non richiamare anche i limiti presenti nelle opere del
movimento: la visione spesso indifferenziata della società,
il bozzettismo qua e là affiorante, un certo interclassismo
che si risolveva in generico umanesimo, il ricorso, specie nei minori,
a tecniche e strumenti di racconto collaudati quanto vecchi e artificiosi.
Dalle statistiche degli incassi i film del neorealismo escono perdenti.
Entro i tradizionali canali di distribuzione e di esercizio lo spazio
si restringe via via e gli autori che avevano dimostrato di saper
realizzare film nuovi e diversi si rivelano disorientati e incapaci
di trovare un nuovo pubblico e nuovi modi di distribuzione. Né
a livello di movimenti culturali o di forze politiche fu avanzata
lidea che qualcosa dovesse esser mutato per proteggere quel
diverso cinematografico comparso in quegli anni.
Rifiutato dal mercato, il film neorealista risulta via via sottoposto
a una pressione politica ora subdola ora furibonda, sia a livello
istituzionale sia ad opera di un largo settore della stampa. Risorge
in forma soft la censura preventiva sui progetti, sui copioni. E
gli esiti possono essere giudicati devastanti. Può sembrare
incredibile, ma il neorealismo, la verità nuda dei suoi racconti,
la sua idea onnicomprensiva e assai generica di popolo,
furono considerati pericolosi, sovversivi, rivoluzionari, da combattere.
Nonostante le ostilità politiche e le difficoltà di
mercato, alcuni autori seppero continuare il discorso, pur allinterno
delle strutture tradizionali. Umberto D di De Sica e
Zavattini (1951) è la storia di un vecchio pensionato e del
suo cane, della decisione delluomo di darsi la morte, perché
la sua ridicola pensione non gli consente di vivere, e della sua
angoscia per il cane che resterà abbandonato. Unopera
di straordinaria penetrazione conoscitiva sulla vecchiaia, sulle
sue crudeli indigenze, sulla solitudine, sullindifferenza
della società verso gli anziani. Lo stile asciutto che esclude
ogni patetismo, il racconto di una tragedia senza lacrime consegnano
Umberto D alla storia del cinema come una pagina alta
della cultura italiana del 900. Economicamente, lesito
del film fu pessimo, così come disastrosa fu lapparizione
di Bellissima di Visconti, ritratto di una madre popolana,
in preda ai suoi sogni e alle sue speranze che si concentrano sulla
figlia bambina avviata, senza successo, verso le glorie risibili
del cinema.
Rossellini, dal canto suo, si orienta verso altri interessi e maniere.
Per i minori, il distacco dal neorealismo è agevole, senza
drammi. Soltanto un esordiente, Lizzani, opera il tentativo di continuare
il discorso neorealista con Achtung banditi! (1951),
richiamandosi in qualche modo alla vocazione documentaristica del
Rossellini di Paisà. Nel 56 De Sica e Zavattini
realizzano il Tetto: film non banale ma stanco, definito
museale da Adelio Ferrero, uno dei migliori critici
cinematografici italiani. Il neorealismo era ormai soltanto un ricordo.
Sono trascorsi molti decenni dalla sua scomparsa. Nel cinema italiano
sono emerse figure di livello indiscusso: Fellini, Rosi, Antonioni,
i Taviani... Non è apparso invece alcun movimento, non si
è profilata alcuna tendenza. Movimento lo fu, a suo tempo,
il neorealismo che pur nella diversità delle sue voci volle
rispondere alla domanda di conoscenza di unItalia volutamente
dimenticata. E questa lindicazione più inquietante
che il neorealismo può ancora suggerire. Non cè
proprio nulla da scandagliare, scoprire, raccontare oggi in Italia,
nella sua storia recente, nella vicenda degli italiani di tutti
i giorni? Non una formula ripetitiva o una normativa da ricopiare,
ma unipotesi di ricerca critica e, quando è possibile,
di poesia?
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Racconti e film
fantascientifici
possono essere
un utile stimolo
alla riflessione:
sulleredità
del passato,
sui problemi
del presente,
sulle aspettative
del futuro.
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GRANDANGOLO - 4
Creatività e scienza
Mauro Borgomeo
Nel modo di pensare comune è piuttosto diffusa lopinione
che scienza e fantasia rappresentino due mondi molto lontani, se
non proprio antitetici. Si ritiene che la scienza, in quanto discorso
rigoroso e sistematico, non possa accogliere il punto di vista lieve
e vago della fantasia, identificando in tal modo il rigore con la
seriosità e la pesantezza del pensiero.
Di fatto, le cose stanno diversamente; perché, se è
vero che la scienza ha bisogno di metodo e di esattezza nel suo
procedere, è anche vero che affonda le sue radici nellintuizione,
cioè al di qua della costruzione di un processo
deduttivo-razionale. La scienza non è solo sistema, è
anche progettualità, invenzione, anticipazione, nellimmaginario
mentale, del cammino della ricerca.
Daltra parte, anche la fantasia non è identificabile
solo con limmagine che spesso se ne dà di una dimensione
priva di qualsiasi fondamento razionale e di ogni ordine interno,
una dimensione che ha a che fare essenzialmente con la poesia e
che non intrattiene alcun rapporto con i saperi di tipo scientifico.
In realtà, anche la fantasia ha le sue leggi e regole, attraverso
le quali opera costruzioni logicamente plausibili, coerenti, dotate
di senso. La fantasia può dare impulso al pensiero, suggerire
linee di riflessione, costringere nel confronto con prodotti
dellimmaginario ad una più serrata analisi del
mondo reale. Lungi dallessere due entità in opposizione,
mentalità scientifica e fantastica possono vantare punti
di contatto, proficuo scambio, motivi di collaborazione.
Non è casuale il fatto che allinizio delletà
moderna, quando si avvia quel grandioso processo di pensiero che
porta alla cosiddetta rivoluzione scientifica tra Cinque e Seicento,
si colgano alcuni orientamenti significativi da questo punto di
vista. Molti filosofi-scienziati, protagonisti della fondazione
della nuova scienza moderna, usano frequentemente nei loro trattati
un linguaggio ricco di metafore e figure che fanno appello proprio
alla capacità intuitiva e immaginativa delluomo. Ricordiamo
ad esempio la celebre metafora con cui Galileo assimila la realtà
naturale a un libro i cui contenuti sono scritti in caratteri matematici,
un libro che bisogna imparare a leggere decifrandone i segni tramite
lacquisizione di precise conoscenze.
Altrettanto ricco di metafore è il linguaggio di Bacone,
il quale, nella Nuova Atlantide, coniuga in maniera ardita e originale
scienza e fantasia, al fine di tratteggiare limmagine di un
mirabolante mondo utopico, dove gli uomini, grazie allo sviluppo
delle scienze, possono raggiungere risultati di straordinaria utilità,
prefigurati appunto attraverso la fantasia creatrice dello scienziato:
esperimenti sul prolungamento della vita; esperimenti di insolazione,
di refrigerazione, di conservazione; esperimenti relativi alla luce,
alle radiazioni, ai colori, ai suoni; produzione di metalli artificiali,
di fiori e piante fuori stagione; riproduzione dei fenomeni atmosferici
e condizionamento dellaria.
La Nuova Atlantide è un testo in cui si incrociano riflessione
filosofica, invenzione fantastica, impegno letterario nella composizione
dellinsieme. Ma più in generale il nesso scienza-fantasia
costituisce un tema affascinante che in vario modo ha interessato
e interessa la letteratura. Racconti e romanzi fantascientifici
si sono largamente diffusi, coinvolgendo un vasto pubblico di lettori,
giovani e non, e dando luogo ad un vero e proprio genere letterario,
che avrà poi uno spazio considerevole anche in ambito cinematografico:
la fantascienza. Un esempio precoce di romanzo fantascientifico
(con caratteri insieme di romanzo dellorrore) è rappresentato
da Frankenstein, scritto da Mary Shelley nel 1818. La scrittrice
inglese fu forse influenzata dal vivace dibattito che si era sviluppato
nel Settecento intorno al problema della creazione e che aveva spinto
alcuni tecnici-scienziati a cimentarsi nella fabbricazione di automi,
vale a dire di esseri uomini o animali meccanici.
Il protagonista del romanzo è Frankenstein, un giovane scienziato
che, grazie alle sue ricerche, riesce a raggiungere un risultato
clamoroso: infondere la sua vita in un corpo morto. Ma lessere
miracolosamente fatto rivivere assume un aspetto mostruoso, lui
che in origine era sensibile e virtuoso, si trasforma in un terribile
assassino, mentre Frankenstein, inorridito dalle conseguenze del
suo gesto, compiuto violando le leggi della natura, cerca di trovare
un modo per fermarlo.
Il testo della Shelley, al di là della forte carica inventiva,
aveva anche uno scopo morale: intendeva cioè far riflettere,
attraverso un caso costruito con la fantasia, sui pericoli
insiti in uno sviluppo incontrollato della scienza. Indipendentemente
dalla sua volontà, Frankenstein scopre dolorosamente limpotenza
dello scienziato a cui il suo stesso prodotto sfugge di mano. Nel
corso dellOttocento, tuttavia, il grande progresso verificatosi
nellambito tecnico-scientifico non solo spinge ad una indiscussa
esaltazione delle scienze, ma stimola anche nuove composizioni fantascientifiche,
che hanno come scopo soprattutto quello di mostrare le vaste prospettive
che le scoperte scientifiche e le conseguenti realizzazioni tecniche
aprono agli uomini.
Lo scrittore più rappresentativo di questo atteggiamento
di fiduciosa apertura nei confronti delle scienze, che si traduce
in progettazione fantascientifica, può essere considerato
il francese Jules Verne (1828-1905). Verne viene conosciuto dal
largo pubblico nel 1863, con il romanzo Cinque settimane in pallone,
dove si mescolano spirito di avventura e ispirazione scientifica.
Negli anni seguenti lo scrittore dà vita ad una ricchissima
produzione di questo genere (rivolta anche a un pubblico di ragazzi),
dove linteresse per la scienza diventa spesso capacità
di precorrerne gli sviluppi futuri, come per esempio nel romanzo
Dalla terra alla luna, felice anticipazione dei viaggi spaziali
del secolo appena trascorso. Dalle pagine di Verne emergono meravigliose
realizzazioni tecniche, come il sottomarino di Ventimila leghe sotto
i mari, strumenti sempre più perfetti al servizio delluomo
e delle sue imprese, grandi progetti che soltanto i progressi del
sapere rendono realizzabili.
Anche in un romanzo di impianto più realistico, come Il giro
del mondo in ottanta giorni, la fantasia è messa al servizio
della scienza, per esaltarne le indubbie prestazioni. Unimpresa
come lipotetico viaggio di Phileas Fogg attraverso quattro
continenti in meno di tre mesi, che ancora alla metà del
secolo XIX sarebbe apparsa folle, nel giro di ventanni, grazie
alleccezionale diffusione e rapidità dei nuovi mezzi
di trasporto, è diventata praticabile, sia pure nellambito
di una costruzione fantastica che massimizza le possibilità
offerte dal sistema di comunicazione del tempo.
Tuttavia, è soprattutto nel secolo XX che la letteratura
fantascientifica si dispiega con notevole varietà di toni,
delineando grandi avventure non più nei luoghi ben conosciuti
e circoscritti della terra, bensì nelle vaste, ignote aperture
dello spazio. I confini tradizionali dello spazio e del tempo sembrano
dileguare, mentre si intravvedono le profondità ancora insondate
di mondi interplanetari e intergalattici.
Ma il racconto di avventure che si svolgono in questi nuovi scenari
mantiene un costante riferimento alla scienza, nel senso che la
scientificità segna dei limiti alla libertà inventiva
della fantasia: in questi racconti, per esempio, non accade mai
nulla che possa contraddire le leggi naturali, come lassenza
di gravità fuori dallatmosfera terrestre. Nascono così
storie intriganti, spesso mozzafiato, punteggiate da improvvisi
colpi di scena, intessute di prospettive fantastiche, ma sempre
scientificamente plausibili. Lorizzonte della scienza appare
così sempre chiaramente sullo sfondo.
Il maggiore rappresentante di questa tendenza narrativa è
Isaac Asimov, che insegnava biofisica, divulgatore scientifico e
popolare scrittore di fantascienza, considerato il fondatore della
fantascienza tecnologica, cioè di quella fantascienza
che si basa su una rigorosa documentazione scientifica. Nelle sue
opere, molto note anche al pubblico più giovane, si delinea
perciò un futuro probabile, che la scienza, strumento
positivo al servizio delluomo, aiuterà a costruire.
Una diversa modalità di costruire un racconto tra scienza
e fantasia è quella adottata da Aldous Huxley in Il mondo
nuovo, inquietante utopia di un futuro tutto dominato dallo strapotere
della tecnica e dei tecnocrati. Da un progetto di razionalizzazione
totale che intende sottoporre a controllo la stessa produzione della
vita umana, nasce appunto il mondo nuovo, un mondo dove
tutto è rigidamente determinato a priori, dove non cè
spazio alcuno per la libertà dei singoli, per i sentimenti,
per le passioni umane, dove lindividuo è fagocitato
in una soffocante struttura dinsieme. La fantascienza diventa
allora un disincantato ammonimento per metterci in guardia contro
un uso distorto del progresso tecnologico-scientifico e le sue conseguenze
distruttive per lumanità.
Ancora diversa la prospettiva in cui si collocano due grandi scrittori
contemporanei, largentino Jorge Luis Borges e litaliano
Italo Calvino. Nelle opere di entrambi la fantasia lavora acutamente
su materiali scientifici, costruendo raffinate trame narrative,
che si alimentano di suggestioni e richiami colti. I racconti si
snodano liberamente attraverso la dimensione del tempo, rievocando
il passato, anticipando il futuro, ma anche mescolando i due segmenti.
Analogamente, la narrazione rompe i confini dello spazio, annovera
mondi infiniti, che si rincorrono, si susseguono, si moltiplicano
in un gioco di specchi che si perde in una lontananza senza fine.
Particolarmente originale è il punto di vista di una fantascienza
a rovescio assunto da Calvino in Le cosmicomiche, una
serie di racconti i cui protagonisti non si muovono nel futuro,
bensì nel più lontano passato, alle origini delluniverso.
Sulla base di dati scientifici, lo scrittore opera di fantasia per
ricostruire le esperienze primordiali delluomo: la faticosa
conquista della propria identità nel passaggio da una fase
di vita ameboide e senza forma alla vera e propria vita individuale,
il lento emergere delle prime basilari categorie mentali, della
consapevolezza di sé nello spazio e nei rapporti con gli
altri; la progressiva scoperta dei colori, dei suoni, dello spazio,
del tempo; la percezione di emozioni e sentimenti; linvenzione
della capacità espressiva e del linguaggio, delle attitudini
contemplative e attive che caratterizzano la personalità
umana.
Il racconto fantascientifico ha trovato largo spazio e realizzazioni
diverse anche nel cinema. Come nellambito della letteratura,
gli orientamenti sono stati e sono molteplici, a cominciare dalla
ripresa del tema letterario di Frankenstein, tradotto
variamente in opere di alto come di infimo livello, in prospettiva
seria o in prospettiva comico-ironica, come ad opera di Mel Brooks,
ci sono stati grandi film di fantascienza, come Solaris
di Andreij Tarkovskij (che potrebbe essere visto come un corrispettivo
filmico del testo di Huxley, severo richiamo ai pericoli di un uso
totalizzante della scienza, oppure come 2001 odissea nello
spazio di Stanley Kubrick (assimilabile alla narrativa di
Calvino, nel tentativo di ricostruire fantasticamente, dalle origini,
il senso dellavventura umana). Ci sono stati anche tanti prodotti
di consumo, talvolta di pessimo gusto, tesi a provocare rozze forme
di partecipazione emotiva attraverso immagini di orrore futuribile.
Con lo sviluppo delle tecniche che hanno reso possibile la realizzazione
di straordinari effetti speciali, si è sviluppato un amplissimo
e multiforme repertorio di film fantascientifici (che ha avuto presa
particolare in ragazzi e adulti), dove convivono le guerre stellari
e gli incontri ravvicinati con mondi alieni, lutopia tecnologica
delleroe positivo Batman sullo sfondo di unallucinata
città del futuro e la strana quotidianità del
tenero E.T., venuto da infinite lontananze; le prospettive di rovina
e di morte proiettate in un indeterminato domani e quelle incautamente
risuscitate dal passato remoto della preistoria nel Jurassic
Park.
In ogni caso, racconti e film fantascientifici, quando non si tratti
di destinazioni al consumo di bassa lega, possono essere un utile
stimolo alla riflessione: sulleredità del passato,
sui problemi del presente, sulle aspettative del futuro. Spesso
anzi la dimensione fantastica, proprio perché si stacca nettamente
dalla realtà usuale, consente una presa di distanza, uno
sguardo disinteressato che meglio riesce a mettere a fuoco ciò
che nellabitudine dellosservazione quotidiana ci sfugge.
Fantasia e scienza congiunte possono trovare un modo efficace per
richiamare luomo alle sue responsabilità e al senso
dei suoi limiti, e nello stesso tempo per far comprendere lunilateralità
sia di una scienza priva di capacità autocritica come di
una fantasia che si libra vanamente in una vacua irrealtà.
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Tra le luci e le ombre del progresso
agli uomini
dei nostri giorni spettano scelte
difficili, decisive
per lavvenire
dellumanità.
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GRANDANGOLO - 5
Del progresso
Emanuele Varese
Per definire che cosè progresso, prestiamo un momento
di attenzione al termine stesso: si tratta, infatti, di un termine
che potremmo definire metaforico, nel senso che illustra direttamente
il proprio contenuto semantico o significativo. Derivato dal latino,
indica lazione di muovere il passo in avanti,
avanzare, procedere. E progresso,
nel nostro linguaggio, tutto ciò che, andando in avanti,
si porta oltre la situazione esistente, in genere con una connotazione
positiva di miglioramento, potenziamento, sviluppo. E progresso
allora tutto ciò che, nellevolvere dellesperienza
umana, ha rappresentato una trasformazione qualitativamente significativa
dei nostri modi di esistenza, della nostra capacità di pensare
e conoscere, di agire, di realizzare.
Nella storia del pensiero umano ci sono state epoche che hanno valorizzato
lessenza positiva del progresso, confidando nellefficacia
delle trasformazioni; altre che, invece, hanno cercato di mettere
in guardia gli uomini dallillusione di poter davvero progredire,
cioè cambiare in maniera sostanziale le cose.
Si può dire comunque che il momento di massima esaltazione
del progresso, e anche di più intensa elaborazione teorica
intorno al concetto di progresso, si sia verificato nel secolo XIX,
in parallelo con il grandioso, seppur non omogeneo sviluppo delleconomia
e della società prodotto dallindustrialismo. Soprattutto
nella prima metà dellOttocento, quando il mondo viene
messo di fronte ai miracoli della cosiddetta rivoluzione industriale,
si afferma via via una mentalità incline a pensare che sia
oramai attivato un meccanismo di progresso indefinito, destinato
a segnare propositivamente il futuro dellumanità.
Gli sviluppi della scienza e della tecnica, la nuova organizzazione
del lavoro hanno consentito il superamento di problemi millenari,
quali la produzione di beni di consumo in quantità impensabile
nei limiti della vecchia economia preindustriale; hanno ampliato
e accelerato in maniera straordinaria la possibilità di comunicazione;
hanno consentito di diffondere standard più alti di vita,
più benessere individuale, maggiore istruzione. La filosofia
del positivismo in primo luogo si fa interprete di queste tendenze
e aspirazioni, teorizzando un futuro di costante ascesa per lumanità.
E tuttavia, mentre lintraprendenza, la libera iniziativa,
la voglia di realizzare, la spinta a competere con gli altri generano
diffusi atteggiamenti di fiducia e speranze di continuo miglioramento,
silenziosamente cominciano ad avvertirsi sintomi di crisi. Innanzitutto,
il poderoso slancio che anima leconomia industriale non avviene
in maniera uniforme, portando con sé squilibri di varia natura:
tra le diverse parti del mondo, tra Paesi e Paesi, tra aree di uno
stesso Paese, tra classi e gruppi sociali. Improvvise impennate,
inoltre, ostacolano qua e là il trionfale cammino dellespansione
economica: i mercati traboccano di merci, la superproduzione provoca
la caduta vertiginosa dei prezzi, i beni fino a quel momento invenduti
si cedono allora per poco e anche in perdita, le imprese più
deboli scompaiono come rami secchi tagliati via dal tronco robusto
della produzione, che ricomincia tuttavia dopo la temporanea crisi.
Invisibile, si sta preparando la crisi vera, la grande depressione
che, alla fine del secolo, smentendo le illusioni di una crescita
infinita, segnerà con altri caratteri i decenni successivi.
Contemporaneamente, sul piano teorico, entra in crisi il modello
di pensiero positivista e con esso la centralità del concetto
di progresso. Soprattutto ad opera di Nietzsche si afferma una visione
della storia non più come linea continua progressiva, ma
come cammino dallandamento aggrovigliato, incerto, che va
non solo in avanti, bensì anche allindietro.
Nel corso del Novecento si stabilizza un sentimento ambiguo nei
confronti del progresso: da un lato cè una corrente
di forte ammirazione per gli straordinari risultati conseguiti dal
punto di vista tecnologico-scientifico ad un ritmo più accelerato,
dallaltro permane una forma più o meno evidente di
inquietudine, quando non di aperta denuncia, nei confronti di un
fenomeno che, nel momento in cui produce beni in gran quantità,
non solo distribuisce in maniera difforme i suoi prodotti, ma anche
genera squilibri e guasti forse irreversibili in tanti settori della
vita umana. Il progresso, nel suo essere doppio, non fa camminare
tutti allo stesso modo e allo stesso ritmo, né procede omogeneamente
sui diversi piani della produttività e della qualità
complessiva della vita.
Il processo di industrializzazione che, nel corso dellOttocento
si era sviluppato in Europa e nel Nord America, ha ormai toccato
tutte le aree della terra. Lindustrialismo si espande, tocca
i Paesi arretrati, li smuove con le sue novità, li integra
in un sistema globale di scambi, rompe vecchi equilibri e getta
le basi per la costruzione di una società più avanzata.
La produzione si moltiplica, invade i mercati, apre più ampie
possibilità di consumo per strati sempre più larghi
di persone; i commerci si estendono a ritmo vertiginoso in ogni
direzione; aumentano senza sosta le possibilità di rapporti,
di spostamenti, di circolazione e di confronto delle idee.
Ma questa è solo una faccia della realtà, perché
nello stesso tempo il progresso determina squilibri o contribuisce
ad esasperare difficoltà già esistenti. Lo sviluppo,
infatti, non coinvolge omogeneamente le diverse parti del mondo;
si accentua la distanza tra i Paesi di più antica industrializzazione
e quelli che soltanto di recente sono entrati nel sistema produttivo
industriale, mentre questi ultimi tendono a mantenere una posizione
subalterna nellambito delleconomia globale. La divisione
internazionale del lavoro attribuisce ai Paesi più avanzati
un ruolo egemone nellambito delle tecnologie più sofisticate,
delegando agli altri le lavorazioni a basso o addirittura nullo
contenuto tecnologico, come dimostra la provenienza di tanti manufatti
di semplice fattura dalle fabbriche dellEstremo Oriente, escluso
ovviamente il Giappone.
Permangono differenze allinterno di uno stesso Stato, nel
diverso sviluppo delle sue aree, come accade ad esempio in Italia
col persistente divario tra Nord e Sud. Permangono anche differenze,
spesso considerevoli, allinterno delle società, fra
gruppi, ceti, classi, con la tendenza, in questi anni di crisi economica,
ad accentuare le distanze tra ricchi e poveri, anzi a creare forme
di nuova povertà e di emarginazione, che colpiscono soprattutto
gli anziani e i giovani non assorbiti dal mercato del lavoro. Ma
il contrasto nel mondo attuale è quello che oppone Paesi
ricchi e Paesi poveri, dove si addensano più di due terzi
di popolazione mondiale. Ne è un segno drammatico il costante
flusso migratorio di cittadini provenienti dai Paesi economicamente
più arretrati, con i tristi viaggi dei poveri in cerca di
lavoro e di una vita migliore, ben diverso dal viaggio turistico
diffusamente praticato dagli abitanti del mondo opulento o benestante.
E mentre la produzione dei Paesi avanzati consentirebbe di assicurare
la sussistenza di intere popolazioni delle aree sottosviluppate,
di fatto i meccanismi e le logiche economiche vigenti lasciano sussistere,
incomunicabili fra loro, il mondo dello spreco e il mondo della
fame.
Manca finora, nonostante lazione degli organismi internazionali,
una capacità complessiva di riequilibrio dei beni, di una
diversa distribuzione che garantisca via via ad un numero il più
alto possibile di persone una vita decente e il rispetto dei loro
diritti elementari.
Consideriamo poi il problema da un altro punto di vista. Indubbiamente
il progresso ha portato con sé un enorme aumento delle possibilità
di comunicare, sia per la maggiore facilità dei viaggi anche
su lunga distanza, sia per la disponibilità di strumenti
sempre più raffinati di trasmissione di notizie e dati, sia
per la diffusione dellapparato dei mass media, che portano
immagini e voci in tempo reale a milioni di persone. Ma anche in
questo caso lesito può essere doppio: il sistema mediale
può essere usato in modo da riversare in forma indiscriminata
e violenta i suoi contenuti, soffocando lautonomia critica
degli individui, oppure in modo da stimolare le capacità
di giudizio, offrendo informazioni ampie e diversificate.
Laltro discorso delicato riguarda lambiente e luso
che ne viene fatto. Da sempre gli uomini, per creare condizioni
migliori di vita, hanno modificato lambiente. Quellazione,
sviluppata via via nel corso dei millenni, ha assunto ancora una
volta un ritmo massimamente accelerato con la diffusione dellindustrialismo
e con le nuove potenzialità fornite dal progresso tecnologico-scientifico.
Nella seconda metà del secolo XIX si era avuto uno dei primi,
clamorosi segnali della nuova potenza umana, quando nel 1869 venne
realizzato il taglio del Canale di Suez, che trasformava in modo
radicale lambiente fisico dato. Negli ultimi centocinquantanni
si è camminato con passo frenetico per questa via, dando
luogo non soltanto a fenomeni di modificazione, ma di vera e propria
aggressione nei confronti dellambiente.
Le strategie di intervento si sono dirette in molteplici direzioni:
consentire il ricavo e limpiego di risorse; rendere abitabili
zone climaticamente impervie, introducendovi nuclei stabili di insediamento;
ridisegnare le strutture morfologiche di aree più o meno
vaste; immettere nella rete degli scambi anche le regioni più
marginali; controllare levolversi di determinati fenomeni
fisico-naturali. Ma ciò ha comportato spesso la rottura dellequilibrio
ecologico, lo spreco di materie prime, la diffusione di inquinamento
atmosferico e acustico, il supersfruttamento del territorio, evidenziando
gli esiti contrastanti di un processo che ora disperde, ora salvaguarda
e impiega utilmente le risorse della natura; ora stravolge e distrugge,
ora tutela e sfrutta con intelligenza il patrimonio ambientale.
Consideriamo infine il campo delle conoscenze. Innanzitutto, nel
Novecento si è verificata unintensa attività
di ricerca e di sperimentazione scientifica, frutto di una specializzazione
che, se dal punto di vista concreto operativo ha coinvolto un numero
ristretto di esperti, nelle sue fasi applicative ha interessato,
positivamente o negativamente, milioni di persone. Ma proprio lalto
livello di specialismo raggiunto rende molto difficile, se non impossibile,
un serio controllo dellopinione pubblica sugli orientamenti
e i fini della ricerca scientifica, sulluso che può
essere fatto in pratica delle sue acquisizioni. Basta pensare al
dibattito intorno allenergia atomica e al problema del suo
possibile impiego, o alla bioetica e ai confronti tuttora in corso.
In un altro senso il Novecento ha visto un positivo allargamento
dellistruzione, sebbene a livello mondiale vi siano larghe
zone di analfabetismo. Ma non sempre listruzione è
potenziata come mezzo di effettiva crescita personale, come stimolo
al pensiero autonomo e alla critica; essa può anzi diventare
il veicolo per trasmettere, in forma più o meno subdola,
per esempio attraverso una scuola o strumenti di lettura passivizzanti,
idee e atteggiamenti conformistici. Lo stesso si può dire
per lo sviluppo del settore informatico. Ancora una volta, quindi,
siamo di fronte ad una realtà doppia: il sapere e la tecnica
possono distruggere o migliorare il mondo, le conoscenze possono
diventare mezzo di asservimento o di liberazione, le nuove scienze
informatiche possono istituire strumenti sofisticati di controllo
o ampliare le occasioni di informazione.
Il filosofo Hans Jonas, nel saggio Il principio responsabilità,
ha sviluppato appunto il tema delle grandi responsabilità
che competono a noi, uomini del nostro tempo. Si tratta di responsabilità
che non riguardano soltanto noi contemporanei, ma anche i nostri
posteri. Quale mondo stiamo preparando per chi verrà dopo
di noi?
Principio responsabilità significa proprio questo: farsi
carico di scelte il cui impatto avrà una portata che va oltre
il presente, in unottica non egoistica che porti per
esempio a sfruttare tutto ciò che appare immediatamente sfruttabile,
o a provocare interventi irreversibili, senza curarsi delle conseguenze
future ma solidaristica, che faccia dellumanità
di oggi e di domani un tutto unico.
Tra le luci e le ombre del progresso agli uomini dei nostri giorni
spettano scelte difficili, decisive per lavvenire dellumanità,
come non si era mai verificato prima per il nuovo potenziale degli
strumenti a disposizione. Ma anche la scelta si presenta problematica,
perché la consapevolezza delle responsabilità si accompagna
spesso alla sensazione che le decisioni importanti siano accentrate
nelle mani di una cerchia ristretta di individui padroni del destino
di milioni (miliardi) di altri individui.
Che tutto ciò rappresenti una fase critica, preludente tuttavia
ad un futuro di crescita, oppure una fase di declino inarrestabile
fino alla catastrofe, può dipendere anche dalle nostre capacità
di guardare acutamente dentro le pieghe del progresso, di comprendere
e interpretare, al fine di un agire razionale, gli avvenimenti in
corso.
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Il capitalismo avrebbe dovuto farsi progetto culturale, forza costruttiva
capace di dare nuova forma alla società, diffondendo maggiore
benessere, ma anche maggiore cultura e gusto
estetico.
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GRANDANGOLO - 6
Homo faber
Eraldo Schirinzi
Fin dalle epoche più remote la tecnica ha rappresentato
una componente essenziale dellevoluzione umana. I nostri antichi
progenitori che, per procurarsi il cibo, difendersi dai pericoli,
assicurare la propria sopravvivenza, si ingegnavano a tagliare e
rendere appuntiti rami dalbero o a scheggiare e lisciare pietre,
furono gli inventori delle prime rozze forme di tecnica. Da quei
primi esperimenti gli uomini perfezionarono via via la loro capacità
di operare, di costruire strumenti e utensili, di mettere in atto
nuove competenze conoscitive e pratiche, raggiungendo progressivamente
risultati più significativi. La storia delluomo è
perciò storia dell homo faber, artefice,
artigiano, costruttore, capace di trasformare operativamente le
proprie condizioni di vita mediante abilità tecniche diversificate.
Un salto qualitativo nellevoluzione delle tecniche avvenne
allinizio delletà moderna, quando, con laffermarsi
della nuova scienza, si cominciò a riflettere sulle implicazioni
pratiche dello sviluppo scientifico. Mentre gli antichi avevano
soprattutto elaborato un concetto di scienza come contemplazione
della realtà, i moderni colgono il potenziale realizzativo
di una scienza che non si limiti ad osservare il mondo, ma cerchi
i modi concreti per manipolarlo utilmente al fine di un costante
miglioramento delle condizioni di vita. La tecnica, che era stata
vista come qualcosa di esterno e separato rispetto alla conoscenza
teorica, diventa ora il suo necessario prolungamento, quasi una
verifica della sua validità attraverso le concrete possibilità
di impiego delle categorie scientifiche.
«Sapere è potere», proclamava orgogliosamente
Bacone, intendendo appunto sottolineare il legame tra teorie scientifiche
e applicazioni pratiche che conferiscono alluomo nuove capacità
di controllo sulla natura. Ma le più fruttuose conseguenze
di questa impostazione di pensiero si avranno fra Sette e Ottocento,
quando la nascita dellindustria esalterà come mai era
avvenuto fino allora la potenza costruttiva delle tecniche.
La meccanizzazione del lavoro mette in moto un processo senza fine;
alle prime macchine, frutto del geniale lavoro di artigiani-inventori,
seguono macchine più perfezionate e sofisticate, che aprono
la strada a multiformi direzioni produttive. Lo sviluppo delle tecniche
dà corpo ad un universo tecnologico allinterno del
quale mutano radicalmente i modi dellesistenza umana.
Del peso di quel mutamento è testimonianza il fatto che luomo
stesso, inventore della tecnica, diventa a sua volta oggetto di
manipolazioni tecnologiche, che coinvolgono non solo le sue condizioni
materiali di vita, ma la stessa essenza della natura umana e la
sua dimensione spirituale. Pensiamo alla messa in atto di tecniche
finalizzate allorganizzazione del consenso, alla manipolazione
dellopinione pubblica; pensiamo agli sviluppi dellingegneria
genetica. La tecnica sembra dominare ogni aspetto della vita umana
e luomo stesso, decaduto dal ruolo di soggetto a quello di
oggetto del processo tecnologico. Tale fenomeno pone questioni e
interrogativi inquietanti, che non trovano risposta nellambito
delletica tradizionale.
Se oggi siamo di fronte a problemi di tale portata, che richiedono
un profondo ripensamento della morale e una conseguente riformulazione
di regole e norme comportamentali, i pericoli insiti nel dominio
della tecnica erano già stati intravisti da tempo, con il
profilarsi di un crescente potenziamento dellapparato tecnologico
tra Otto e Novecento.
Soprattutto in Germania, nei primi decenni del secolo scorso, sotto
la spinta di un incalzante sviluppo, si era aperto un vivace dibattito
che aveva coinvolto intellettuali, scienziati, filosofi, sociologi,
politici, imprenditori. Al centro del dibattito stava il nesso tecnica-cultura,
ovvero la domanda se e come fosse possibile conciliare i valori
e gli ideali della cultura tradizionale con un progresso che assumeva
soprattutto caratteri tecnico-materiali. Uneco di tali problemi
è percepibile anche in uno dei maggiori romanzi del Novecento.
In Luomo senza qualità di Robert Musil è infatti
tratteggiato un personaggio, quello dellindustriale Arnheim,
che esemplifica una possibile risposta sostanzialmente positiva,
anche se formulata con notevole disincanto alla domanda sopra
citata. Musil disegna con ironia questa figura di industriale, «combinazione
di spirito, affari, vita comoda, cultura», il quale «nei
suoi libri e programmi si faceva banditore, nientemeno, dellunione
tra lanima e lamministrazione, ovverossia tra lideale
e il potere». Ma Arnheim non è un personaggio di pura
invenzione. Egli rappresenta, nella mediazione letteraria, un personaggio
reale: Walter Rathenau.
Rathenau (1867-1922), industriale e statista proveniente da una
ricca famiglia ebraica, fu uno dei protagonisti della vita economica,
culturale e politica in Germania allinizio del Novecento,
e fino al primo dopoguerra, quando morì vittima di un attentato
ad opera di gruppi nazionalisti.
Alla guida dellAEG, una delle maggiori industrie tedesche
fondate dal padre Emil, Rathenau sviluppò anche unintensa
attività di studio sui problemi dellindustrializzazione.
Per lui il capitalismo non avrebbe dovuto essere semplicemente un
modo di produrre dominato dalla logica del profitto, incurante della
condizione operaia, delle brutture dellambiente; il capitalismo
anzi avrebbe dovuto farsi progetto culturale, forza costruttiva
capace di dare nuova forma alla società, diffondendo maggiore
benessere, ma anche maggiore cultura e gusto estetico. Non è
casuale, da questo punto di vista, il fatto che Rathenau abbia chiamato
allAEG, insieme a studiosi, ingegneri, tecnici, anche esperti
di design, alla ricerca di una produzione valida nella sua funzionalità
come nella sua qualità estetica, al fine di «educare
il gusto degli acquirenti-consumatori.
La tecnica e la meccanizzazione non erano per lindustriale
Rathenau solo strumenti più moderni rispetto a quelli del
passato, ma fattori progressivi che, liberando luomo dai suoi
limiti naturali e apportando benessere, avrebbero contribuito alla
realizzazione del regno dello spirito, di un mondo migliore
e più armonico, attento alla qualità della vita umana.
Come Rathenau, molti, di fronte allenorme crescita dellapparato
produttivo, si chiedono come questa crescita debba essere guidata,
come si debba dare forma al progresso tecnico-scientifico perché
esso non sia in contrasto con le ragioni della cultura. Schematizzando,
si possono individuare due atteggiamenti di fondo. Uno è
latteggiamento per così dire demonizzante,
quello cioè che vede nella tecnica qualcosa di catastrofico
e che guarda con rimpianto a un mondo passato non ancora stravolto
dalla civiltà delle macchine. Laltro è latteggiamento
di chi, in linea con Rathenau, guarda alla tecnica come a un fattore
positivo di progresso. E questa la posizione più interessante
e articolata, allinterno della quale si possono individuare
due modi di accettazione della tecnica.
A molti, in modo spesso ingenuo, la tecnica appare come la portatrice
di un cambiamento epocale, di una trasformazione grandiosa nella
vita dei singoli, dei gruppi, dei popoli. Cè uno sforzo
continuo di mettere in evidenza che la tecnica non è solo
esecutività, ma creatività, che la tecnica ha grandi
effetti di liberalizzazione, in quanto essa consente di superare
i limiti posti dalla natura, di sviluppare nuove forme di vita,
di realizzare quello che prima aveva luogo solo nel sogno, nellimmaginario,
nellutopia.
Accanto a questa esaltazione della tecnica come strumento onnipotente
nelle mani delluomo, ci sono analisi più avvertite
della complessità dei problemi: perché la tecnica
e la meccanizzazione portano esigenze nuove non solo nellorganizzazione
del lavoro, ma anche in altri aspetti dellesistenza umana.
La tecnica significa ad esempio messa in crisi e trasformazione
continua del mondo esistente; significa perciò bisogno di
comprendere una realtà mobile, attraversata da differenze,
contraddizioni, squilibri, che non si risolvono né si conciliano
in una forma unica e definitiva. In questo senso non appare più
credibile un sapere compatto che rende ragione del mondo intero;
emergono saperi e competenze variegate, non unificabili, che si
intrecciano, si interrogano reciprocamente, entrano in conflitto,
minando alla base quei sistemi di pensiero che con la loro struttura
compatta avevano dato agli uomini la consapevolezza di poter dominare
ogni possibile sviluppo della realtà. Eppure sono proprio
quei sapori variegati, a segmenti, che consentono al pensiero umano
di disporre delle cose.
Un aspetto particolare del nesso tecnica-cultura riguarda il confronto
tra tecnica e arte; un confronto incrociato, perché per un
verso è larte a porsi con la sua consistenza alta,
cioè con la sua qualità e i suoi valori, come criterio
di misura di fronte alla tecnica; e per altro verso è la
tecnica che dal basso pone interrogativi e problemi inediti allarte:
innanzitutto il problema di una norma artistica nuova, di unaltra
bellezza, definibile in termini di funzionalità, che nasce
dallimpiego di processi lavorativi e materiali nuovi, (pensiamo,
ad esempio nellarchitettura, allimpiego rivoluzionario
del cemento, del vetro, dellacciaio). Anche qui affiorano
posizioni ingenue che assegnano allartista un compito di sublimazione
del lavoro e della tecnica in arte, o che vedono nellarte
una sorta di elemento sopraggiungente dallesterno a dar valore
al prodotto. Si intravvede in queste posizioni una specie di scorciatoia
impossibile che eleva direttamente il prodotto industriale a prodotto
artistico. Ma ad una considerazione più problematica appare
il vero problema, quello di dare ordine alla produzione, di razionalizzare
il ciclo produttivo, senza abbandonarsi allillusoria idea
di unequazione tecnica-arte.
Da un altro punto di vista emerge il problema dellarte nel
momento in cui le sue opere, riprodotte tecnicamente (per esempio,
attraverso la fotografia) o addirittura prodotte in più copie
(la pellicola cinematografica), perdono laura di unicità
che le aveva contraddistinte nel passato.
Al di là delle differenze anche rilevanti nelle posizioni
che si confrontano nel dibattito sulla tecnica, emerge tuttavia
un motivo, un elemento costante che stimola le diverse voci in campo:
e cioè il fatto che la tecnica non è mai ridotta a
puro strumento, ma è vista anzi come un fattore culturale,
qualcosa che modifica a fondo magari suscitando preoccupazione
anche il mondo dello spirito; qualcosa che si traduce in
conoscenza e azione, in capacità educativa, in
quanto induce pensieri e forme di vita. Si afferma perciò
lesigenza di andare oltre la pura analisi fattuale dei fenomeni
della tecnica, per indagare il suo significato, la sua essenza,
il suo stile, ovvero il senso complessivo che va al
di là delle operazioni specifiche e particolari che essa
di volta in volta mette in atto.
Cè una sorta di accordo fra studiosi di diverse tendenze,
fra coloro che la esaltano e coloro che la osservano con inquietudine,
nel considerare la tecnica come il destino delluomo contemporaneo.
In questa prospettiva uno dei contributi più rilevanti ad
un ripensamento complessivo del fenomeno della tecnica viene dalle
opere del filosofo tedesco Martin Heidegger (1898-1976). Anche per
Heidegger la tecnica è il destino delluomo contemporaneo,
qualcosa che non si può ridurre a semplice strumento, perché
in essa cè un significato epocale, in quanto trasforma
e domina a fondo la nostra esistenza. Ma lanalisi heideggeriana
procede in maniera tutta diversa da quella di chi vede nella tecnica
uno strumento onnipotente mosso dalle mani delluomo, perché
secondo il filosofo cè sempre qualcosa di irriducibile
al volere umano.
Limmagine della società tecnologica che emerge dalle
pagine di Heidegger è preoccupante. La tecnica non è
tanto il nome dellapparato produttivo che si fonda sulle macchine,
ma è una presenza che domina tutta la realtà. La tecnica
è la forma stessa in cui si organizza la società contemporanea.
In essa domina una volontà di pianificazione e di controllo,
una volontà di amministrazione totale, a cui non si sottrae
nulla, nemmeno la coscienza umana. Tutto è ridotto a quantità,
numeri, formule per essere misurato e controllato. Le cose perdono
la peculiarità loro propria, la loro individualità,
per diventare materiale quantitativamente misurabile, oggetti manipolabili-consumabili
in un processo che non ha fine.
Tra queste cose luomo si muove con latteggiamento oggettivo
e disinteressato di chi guarda solo agli aspetti verificabili,
matematicamente definibili della realtà. Il nostro rapporto
col mondo è vago, superficiale, estraneo; si perde la possibilità
di fare vera esperienza. In questa situazione, secondo Heidegger,
bisogna fare i conti a fondo con la realtà in cui si vive,
ma anche col passato. Nel mondo contemporaneo della scienza e della
tecnica arriva infatti a compimento lintero corso del pensiero
occidentale. Con unoriginale interpretazione della storia
della filosofia, Heidegger vede, dopo il tralucere delloriginaria
verità del mondo nei primi pensatori greci, un processo di
obnubilamento, per cui quella che dovrebbe costituire per la coscienza
umana la questione fondamentale, e cioè qual è il
senso complessivo delle cose e della realtà in cui viviamo,
passa in secondo piano, incalzata da unaltra questione: come
possiamo stabilire con certezza il nostro dominio sul mondo?
In questo spostamento dello sguardo filosofico avviene un fatto
decisivo: la razionalità occidentale tende sempre più
a identificarsi con la razionalità scientifica, basata sul
criterio della massima efficienza tecnico-produttiva. Ed è
questa efficienza il motore nascosto che muove lo sviluppo della
nostra civiltà, attraverso il raggiungimento di successi
sempre più clamorosi, che contrassegnano appunto il dominio
della tecnica. Eppure, nonostante i risultati e le risposte sicure
della scienza, il mondo di oggi è percorso da un diffuso
senso di insicurezza e da inquietudini profonde.
Uscire dalla crisi significa imboccare la via di un nuovo modello
di pensiero diverso dalla ragione calcolante delle scienze esatte
e della tecnica. Ciò non significa disconoscere limportante
ruolo che nella vita concreta giocano la scienza e la tecnologia,
ma acquisire consapevolezza del fatto che la ragione scientifica
non può rispondere a tutte le domande delluomo, né
a tutti i suoi bisogni.
Qui ci viene in aiuto la poesia, perché i poeti parlano con
parole piene, che risuonano di molti accenti. Al contrario del linguaggio
della quotidianità dove le parole si consumano nella
semplice funzione del comunicare per scopi pratici le parole
poetiche evocano uneco profonda, che fa riscoprire i valori
essenziali, lo spessore autentico delle cose non più ridotte
allunica dimensione tecnico-produttiva.
Possiamo tradurre il richiamo heideggeriano alla poesia come un
richiamo al senso critico, ad un atteggiamento che non accetta le
cose nella loro piatta superficialità, ma le valorizza nella
pienezza del loro multiforme modo di essere. Il dominio della tecnica
riduce tutto a quantità; è necessario riscoprire il
mondo delle qualità, delle differenze, dei chiaroscuri attraverso
cui si mostra il volto sfaccettato della realtà, degli uomini
stessi, che la tecnica minaccia di ridurre alla semplice dimensione
di oggetti manipolabili.
Senso critico significa capacità di guardare qualcosa distanziandosene,
cioè non facendosi coinvolgere. Da questo punto di vista
si può anche recuperare il senso autentico della tecnica,
strumento utile e necessario, a patto che non diventi lunico
orizzonte dellesistenza umana.
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Una volta eliminati eccessi e squilibri,
al limite dopo
la scomparsa
delluomo,
ci penserà la Terra stessa a riparare
le ferite, a ritrovare un suo benessere.
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GRANDANGOLO - 7
La frammentazione
Giorgio De Santis
La fine del vecchio ordine mondiale, delimitato e fissato in due
blocchi contrapposti, anziché produrre un mondo senza più
divisioni e conflitti, ha generato una molteplicità di confini:
di natura etnica, economica, religiosa, culturale.
Molteplici soggetti si sono messi in competizione per dividersi
le spoglie della guerra fredda; dallunica minaccia globale
si è passati alla molteplicità di conflitti locali.
Ciò che è accaduto nellex Jugoslavia lo si ritrova,
con maggiore o minore violenza, nella maggior parte delle regioni
della terra.
E stato valutato che oltre lottanta per cento delle
nazioni presentano al loro interno delle tensioni o dei conflitti
interetnici. La situazione dellAfrica è probabilmente
la più esplosiva: oltre un migliaio di rivendicazioni tribali
potrebbero disegnare la mappa del continente africano, che è
stato suddiviso arbitrariamente in una cinquantina di Stati dalle
potenze coloniali. Questa situazione è lesito di una
serie di elementi tra loro diversi ma convergenti: è entrato
in crisi il concetto di nazione, mentre riaffiorano antiche ostilità
tra gruppi diversi per motivi economici e culturali; il potere degli
organismi internazionali appare limitato o scarsamente riconosciuto,
e neanche gli Usa sono in grado di garantire una stabilità
planetaria; la concorrenza e la crisi produttiva internazionale
alimentano reciproche diffidenze e spinte protezionistiche: il nostro
mondo appare sempre più frammentato e conflittuale.
Parallelamente alla spinta a frantumare gli Stati nelle singole
etnie, è in atto una tendenza opposta a unificare regole,
valori, scenari per tutta lumanità. La spinta a unificare
i problemi a livello mondiale arriva da una serie di elementi differenti:
le nuove forme di produzione di massa, le multinazionali e gli scambi
economici tra nazioni; la diffusione delle reti di comunicazione
e le risonanze che si creano nel villaggio globale; la necessità
di fornire risposte unitarie a problemi sovranazionali, quali lambiente
e lenergia; le migrazioni e la mescolanza di popolazioni e
razze in corso in molte parti della terra. In questepoca si
interagisce, ci si sposta, si scambiano beni e informazioni a un
ritmo e con modalità tali da sconvolgere gli equilibri passati.
Questo processo dalle molte facce intensifica scambi e rimescolamenti
tra culture, ma nello stesso tempo indebolisce le radici sociali
e culturali che fondano lidentità di una società.
E anche per riconquistare una propria identità che
si sviluppano fermenti antagonistici di divisione e disgregazione.
La tolleranza e laccettazione del diverso sono valori ancora
da acquisire nei fatti e probabilmente richiedono lunghi tempi per
unaccettazione effettiva, ma, visti gli stretti tempi storici
con cui bisogna fare i conti, ci si adopera per accelerare le tappe.
Proprio questa è una delle grosse sfide che lumanità
ha di fronte: passare dalla conflittualità locale ad una
consapevole assunzione della mondialità dei problemi.
Lo sviluppo della popolazione sulla terra è avvenuto con
una crescita impressionante. Oggi siamo circa sei miliardi, mentre
eravamo circa la metà tre decenni fa, e si prevede una popolazione
di oltre otto miliardi e mezzo fra trentanni. Lesplosione
demografica è in pieno sviluppo nelle nazioni più
povere, favorita dalle migliori condizioni igieniche e sanitarie.
Ma un aumento della popolazione mondiale richiede energia, acqua,
alimenti, terreni, materie prime in quantità sempre maggiori;
e questo comporta una conseguente rapida riduzione della loro disponibilità
per ogni persona. Limitare lincremento della popolazione mondiale
è forse il problema nodale che va risolto ora per permettere
un adeguato livello di vita e di benessere a tutti gli uomini.
La città è al centro dei grandi rivolgimenti contemporanei.
Nelle città vengono prese le decisioni, è lì
che si accentrano le maggiori trasformazioni e si consuma la maggior
parte delle materie prime e dellenergia; è lì
che si producono più rifiuti e più inquinamento.
Attualmente vive nelle città il 45 per cento della popolazione
mondiale, e tale percentuale dovrebbe salire a oltre il 60 per cento
tra meno di trentanni. Sempre entro lo stesso periodo di tempo
oltre un quarto della popolazione della terra vivrà in città
con più di quattro milioni di abitanti; nel 2000 sono state
una trentina le città con oltre sette milioni di abitanti;
tre quarti di queste città sono nel Terzo Mondo, mentre solo
una, Parigi, in Europa, ha raggiunto lo stesso livello. Il raddoppio
della popolazione di una città africana avviene ogni dieci
anni, mentre non si raddoppia la superficie e si rendono necessarie
ulteriori quantità di acqua e di alimenti che non è
facile garantire.
Lo sviluppo impetuoso delle grandi città porta con sé
numerose conseguenze. Da un lato aumentano le opportunità
professionali e gli scambi di esperienze e di idee; ma dallaltro
si riducono i terreni coltivabili a disposizione, mentre aumentano
i bisogni di cibo e di materie prime. Questo processo genera e moltiplica
situazioni di povertà e miseria, favorisce la perdita di
radici e di tradizioni, crea le condizioni per una forte conflittualità
sociale. Le nuove grandi città hanno invece bisogno di progetti
forti e di identità precise, assenti nelle anonime e frammentate
espansioni urbane a macchia dolio.
La Terra dispone tuttora di molte risorse che però, per vaste
che siano, stanno comunque finendo. Così lacqua è
ancora sovrabbondante, ma, per la difficoltà di utilizzarla
e per il crescente inquinamento, può sostenere al massimo
un altro raddoppio della domanda, fatto che dovrebbe verificarsi
sempre entro i prossimi trentanni. Già ora in molte
aree della terra lacqua scarseggia o risulta gravemente inquinata,
mentre gli interventi umani stanno alterando gli equilibri idrici
con dighe, costruzioni, disboscamenti, che rendono le acque poco
controllabili e favoriscono frane e alluvioni.
Intanto il cibo disponibile già scarseggia in varie zone.
Attualmente, almeno un miliardo di individui mangia meno del necessario
e un alto miliardo è soggetto a fame cronica. La terra coltivabile,
che nella storia umana è sempre stata sovrabbondante, oggi
si va riducendo per la desertificazione e lerosione del suolo,
per lo sviluppo urbano, per linquinamento idrico e agricolo.
Nel contempo, si riducono le foreste: i sei miliardi di ettari di
foreste che esistevano pochi secoli fa si sono quasi dimezzati,
e solo un quarto è ancora foresta intatta e naturale. La
riduzione delle foreste è causata da inquinamenti e piogge
acide, ma soprattutto dalla deforestazione operata dalluomo,
per la crescente richiesta di terreni da coltivare, di spazi per
allevare il bestiame, di minerali da estrarre dal sottosuolo, di
legname per costruire. Dovrebbe esser chiaro che queste risorse
sono uniche e insostituibili.
Sulla terra esistono circa 250 mila piante superiori, di cui circa
80 mila commestibili. Tremila sono state usate dalluomo per
la sua alimentazione. Oggi solo 150 piante sono coltivate su larga
scala; meno di venti tipi di vegetali danno il 90 per cento dei
prodotti, mentre tre soli cereali (grano, riso e mais) forniscono
il 60 per cento delle calorie vegetali consumate dalluomo.
Di riso, ad esempio, sono state differenziate nei secoli e nelle
diverse zone centinaia di varietà, in quanto alcune piante
sopravvivono con solo sessanta centimetri di pioggia, mentre altre
richiedono cinque metri dacqua annui.
La varietà biologica permette di competere meglio con le
piante infestanti, difendersi da specifici parassiti, diversificare
i gusti alimentari, rispondere a differenti esigenze di conservazione.
Un agricoltore, per non rischiare tutto il raccolto, seminava diverse
specie per cui, secondo le piogge o la presenza di parassiti vari,
si garantiva comunque un raccolto. Le specie animali e vegetali
non utilizzate dalluomo tendono a scomparire, e ogni giorno
si perdono fino a cento specie viventi. Oggi con la genetica vengono
selezionate e utilizzate in agricoltura solo le piante più
produttive e le varietà più resistenti a un solo parassita;
con lindustrializzazione vengono usate macchine, pesticidi,
fertilizzanti, sistemi di irrigazione che richiedono e producono
piante tutte uguali. Questa uniformità, questo impoverimento
genetico già presentano gravi limiti, in quanto è
bastato un nuovo parassita per distruggere tutti i raccolti.
Ogni attività produttiva richiede grandi quantità
di energia. Il flusso di energia nelle nazioni più sviluppate
è aumentata di oltre cinquanta volte nellultimo secolo,
e un cittadino nordamericano consuma 40 volte lenergia di
un abitante del Terzo Mondo. Attualmente quasi il 90 per cento dellenergia
mondiale proviene dai combustibili fossili: carbone, petrolio, metano.
Si scoprono nuove riserve di combustibili, ma la loro quantità
è comunque in forte diminuzione. Solo il carbone ha riserve
abbondanti, ma il suo impiego è limitato dallinquinamento
causato da acido solforico (piogge acide) e da anidride carbonica
(effetto serra). La ricerca di fonti alternative è aperta,
ma le potenzialità dellenergia solare ed eolica restano
limitate, mentre lenergia da fusione nucleare è ancora
lontana e potrebbe essere comunque osteggiata. Il problema va affrontato
utilizzando in parallelo tecnologie produttive più dolci,
risparmi energetici e una differenziazione delle fonti. Il discorso
è analogo per le altre materie prime: solo ferro, alluminio
e silicio sono abbondanti nella crosta terrestre. A mano a mano
che si estraggono minerali dal suolo, la loro concentrazione nei
giacimenti si riduce progressivamente, per cui aumentano le scorie
prodotte, mentre cresce anche lenergia necessaria per produrre
ununità di materiale. In questo modo il progressivo
esaurimento dei giacimenti dei minerali accelera anche lesaurimento
dei combustibili fossili. Lidea e la pratica di una società
usa e getta deve perciò essere superata.
I cittadini delle zone sviluppate producono ogni giorno enormi quantità
di rifiuti. In Italia se ne producono quotidianamente 50 mila tonnellate,
accumulate in discariche o bruciate in inceneritori. Questo comporta
un grande spreco di risorse e inquinamento ambientale. La raccolta
indifferenziata dei rifiuti, che richiede una loro separazione nelle
abitazioni in cui vengono prodotti, è necessaria per evitare
di finire sommersi. Fra laltro, ogni giorno sono prodotti
nel mondo 900 mila tonnellate di rifiuti tossici, il 90 per cento
dei quali nelle aree industrializzate: sono scorie nucleari, metalli
come il piombo della benzina o il mercurio delle pile, oppure sostanze
chimiche artificiali come vernici e solventi.
Molte cose si possono fare per dare un futuro migliore agli abitanti
del pianeta. Ad esempio, riciclando bottiglie e lattine, usando
in città mezzi pubblici o biciclette, riparando gli oggetti
piuttosto che buttarli via per comprarne altri. E ancora: dandosi
un regime di vita sobrio, limitando anche nel nostro ambiente conflitti
e tensioni, essendo tolleranti verso le diversità, sostenendo
una solidarietà internazionale, adottando tecnologie soft
a basso costo energetico. Tutto questo, però, non basta.
Nel frattempo la popolazione umana continua a crescere, e questo
significa maggiori fabbisogni. Perpetuando questo modello di sviluppo
senza cambiamenti, il tracollo del sistema Terra può diventare
inevitabile.
Ma esistono anche meccanismi di autoregolazione, per cui lincremento
di popolazione a un certo punto tende a frenare, e i costi delle
materie prime diventano così alti che occorre cercare fonti
alternative. Ma se si rinviano allestremo questi cambiamenti,
al momento in cui saranno diventati necessari e inevitabili, il
malessere sarà ben più visibile. Sarebbe meglio avviare
per tempo scelte strategiche globali per promuovere uno sviluppo
sostenibile su cui fondare il benessere dellumanità.
Per sviluppo sostenibile si intende il dare risposta ai bisogni
presenti senza compromettere, per le future generazioni, la possibilità
di soddisfarne i bisogni.
Le previsioni sul futuro della Terra, in base ai dati disponibili
e ai modelli matematici utilizzati, sono spesso catastrofiche: sovrappopolazione,
denutrizione, inquinamento, accumulo di rifiuti, esaurimento di
materie prime, deforestazione, estensione dei deserti, riscaldamento
del clima e scioglimento dei ghiacciai per leffetto serra,
malformazione nei vegetali per il buco dozono. In questi modelli
la Terra viene considerata il campo di battaglia tra diversi e complessi
fenomeni intrecciati fra loro.
Una diversa ipotesi considera la Terra come un organismo vivente
che cerca un suo equilibrio ed evolve per rimarginare provvisori
squilibri: come riassorbire linquinamento delle acque, oppure
bilanciare leccesso di anidride carbonica. Gli scienziati
non sono tutti concordi sulle varie ipotesi, anche se studi recenti
hanno dimostrato che levoluzione avviene per equilibri punteggiati
e discontinui, con cambiamenti rapidi alternati a fasi stabili;
le mutazioni avverrebbero in modo mirato e attivo, con un autocontrollo
funzionale alle necessità e alle risorse.
Quel che è necessario scoprire è se i tempi biologici
siano compatibili con quelli storici degli interventi e delle alterazioni
prodotte dalluomo. Una volta eliminati eccessi e squilibri,
al limite dopo la scomparsa delluomo, ci penserà la
Terra stessa a riparare le ferite, a riequilibrare le sue risorse,
a ritrovare un suo benessere, adatto anche alla vita del nuovo uomo,
che non è che uno dei tanti viventi che popolano il nostro
più bello e bistrattato laboratorio planetario.
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