Settembre 2002

IL MEDITERRANEO DELL’ODISSEA

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Da Omero al futuro
Ada Provenzano - Tonino Caputo - Michele Orefice
 
 

 

 

 

 

Nel Mediterraneo si giocherà la partita per la vita o per la morte, per il muro valicato in armi o per il ponte valicato con i commerci.

 

L’Iliade e l’Odissea rispondono a domande diametralmente opposte. L’Iliade è la storia di un assedio, quello della città di Troia da parte dei Greci. L’Odissea racconta il ritorno di Ulisse nella sua Itaca. Ebbene, questi due temi sono dinamicamente opposti. L’assedio è statico e deve restar tale. La tentazione permanente degli assedianti è di smontare le tende e andarsene via. Ma non si può, né si deve. La virtù di un assedio è la costanza, la pazienza, l’accanimento.
Al contrario, il ritorno di Ulisse dovrebbe compiersi senza alcun impedimento, senza ritardi, senza soste fra Troia e Itaca. E’ il ritorno al focolare dalla fida Penelope. Ma se le cose fossero andate in questo modo, non avremmo avuto l’Odissea, perché essa altro non è che l’enumerazione dei ritardi imposti all’eroe dagli dei, almeno secondo l’interpretazione corrente.
Dieci anni per raggiungere la patria, via mare? Ma vogliamo scherzare? Ecco perché lo scrittore Jean Giono ha scritto con la Nascita dell’Odissea una versione particolarmente irriverente del ritorno di Ulisse. Secondo Giono, Ulisse non aveva alcuna fretta di raggiungere la noiosa Itaca, dove lo attendevano i doveri coniugali e gli intrighi di corte. E aggiunge Michel Tournier, altro grande, o massimo scrittore francese contemporaneo: come un operaio che sperperi la paga settimanale al sabato sera facendo il giro di tutte le bettole del quartiere, Ulisse si perde in tutti i porti mediterranei, dove viene trattenuto da stupende silfidi. Le avventure narrate nell’Odissea saranno altrettante impudenti menzogne che la sua febbre di ubriaco inventerà per giustificare il mostruoso ritardo.
Si aggiunga che l’Odissea è un viaggio molto strano. Perché si tratta di un ritorno, ma il ritorno non è il contrario di un viaggio, un antiviaggio, in qualche modo? Il vero viaggio è quello degli Argonauti (Giasone, Eracle, Castore, Polluce e alcuni altri), partiti alla conquista del Vello d’Oro. In fatto di vello, è la barba grigia a riportare Ulisse dal suo catastrofico periplo. Perché l’Odissea è la storia di una caduta. Ogni episodio segna una nuova tappa verso la sconfitta, un gradino più in basso nella discesa di non si sa quale voragine.

All’inizio l’avventura non manca di una certa vivacità. L’Isola dei Lotofagi e la lotta col ciclope Polifemo s’iscrivono in una dimensione epica. Ma la degradante ritirata presso Circe, la discesa agli Inferi e l’interminabile legame con Calipso sanno di decadenza.
Tuttavia è sulle rive dei Feaci che Ulisse tocca il fondo del suo stato di abbandono. Sostiene Tournier: quando viene gettato dalla tempesta su queste coste sconosciute, egli ha perso veramente tutto, i compagni, la nave, le armi e anche i vestiti. E’ un lattante barbuto con i capelli grigi che le onde partoriscono sulla sabbia. Ma è approdato alla foce di un fiume, ed è qui che Nausicaa, figlia del re del luogo, è solita lavare i panni con le sue compagne. Non a torto si resta meravigliati di questo particolare: la principessa reale che lava da sola la biancheria della corte (biancheria certo bella, ricamata, fregiata di stemmi, ricca di trine, ma pur sempre biancheria), paradosso affascinante che accomuna alla più alta nobiltà il più modesto dei compiti femminili.
Nausicaa e le sue compagne stendono il bucato al sole, fanno merenda e giocano a palla. Ed è proprio la palla a rotolare fino al naufrago, addormentato nell’erba vicino al fiume. Svegliatosi, si alza, nudo, col viso e il corpo orribilmente segnati dal sale e dagli scogli. Le donzelle fuggono strepitando. L’unica che resta è Nausicaa. E’ figlia di un re, e sente il dovere di affrontare quel mostro sconosciuto, spuntato dai cespugli. Lei lo accoglierà, lo vestirà, lo condurrà da suo padre, re Alcinoo.
Il fatto è che il dovere d’ospitalità si fa sentire tanto più imperiosamente quanto più la posizione che si occupa è elevata. Lungo il cammino, lei lo istruisce: quando farà ingresso nella sala comune, egli dovrà dirigersi direttamente verso la regina Aretè, seduta a filare accanto al camino, poiché è proprio a lei che dovrà implorare ospitalità.
Così sarà fatto. Ma quando Aretè chiede allo sconosciuto nome e origine, Ulisse si limita a raccontare le circostanze del suo naufragio. Per il resto, egli non ha più né nome né origine. E’ diventato il naufrago anonimo e colpito da amnesia. Ragione di più perché gli vengano tributati tutti gli onori. Alcinoo arriverà ad offrirgli la figlia in sposa, ma bisognerebbe che lo sconosciuto accettasse di vivere nella terra dei Feaci. Ma di ciò non c’è neppure da discutere. Dunque, egli ripartirà, ma prima avrà luogo un banchetto notturno in suo onore, dominato dalla presenza dell’aedo Demodoco, senz’altro una delle vette, e forse il massimo vertice dell’Odissea.
Ogni scrittore, ma anche chiunque si occupi di letteratura, non saprebbe troppo riflettere su questo banchetto notturno. Vi è la corte, riunita attorno alla coppia reale. Il re Alcinoo domina non solo per dignità, ma anche per lucidità, poiché egli soltanto ha intuito il segreto del grande naufrago. Vi è l’aedo Demodoco cieco e allucinato, che ignora divinamente questa tavolata di umani. L’epica è il suo regno. Egli non conosce che gli dèi e gli eroi dell’Olimpo. Egli non conosce che i superuomini che si affrontano sotto le mura di Troia. Perché la guerra di Troia non appartiene già più alla storia. Anche se si è conclusa da meno di dieci anni, la guerra sconfina nella leggenda e, con essa, coloro che la fecero.
E l’aedo ispirato canta. Che cosa canta Demodoco? Canta episodi grandiosi della guerra di Troia, dove appaiono gli uomini che si batterono. Canta la grande lite che oppose Ulisse e Achille, figlio di Peleo. Canta il cavallo di legno introdotto in città, tremenda e meravigliosa invenzione di Ulisse.
Ecco ora l’incredibile paradosso: questi episodi fondamentali della guerra di Troia non sono menzionati nell’Iliade! E’ l’Odissea, è l’aedo cieco Demodoco che ce li fanno conoscere. E come reagisce a questa evocazione il naufrago sconosciuto a capotavola? Si copre il volto con un velo purpureo, perché ha vergogna delle lacrime che lo inondano... Perché quelle lacrime? Perché una simile sofferenza? Perché Ulisse si trova in una situazione fortunatamente molto rara, e insopportabile a coloro che la conoscono: si trova faccia a faccia con il mito di se stesso.
Sono pochi, in effetti, i creatori di miti. Ma la regola vuole che un destino misericordioso risparmi loro ogni incontro con la loro stessa immagine trasfigurata di generazione in generazione. L’inventore di Tristano e Isotta era scomparso nell’anonimato molto prima che questa coppia casta e sterile divenisse simbolo della passione amorosa. Tirso de Molina morì senza sapere che Don Giovanni sarebbe uscito dalle pagine della sua commedia “Le Trompeur de Séville” (1630), per incarnare in venti altre opere e nella vita stessa il desiderio erotico anarchico e criminoso. Daniel Defoe non ha mai saputo che il personaggio della sua opera che lo avrebbe reso immortale sarebbe stato Robinson Crusoe, l’uomo dell’isola deserta, il padrone del nero Venerdì.
Goethe non ha avuto questa fortuna. Egli aveva venticinque anni quando aveva pubblicato, in pieno tardo Settecento, (1774), un piccolo romanzo nel quale racconta ingenuamente il suo primo amore e il suo primo dolore, “Werther”. Era poi venuto il Romanticismo, e un’intera generazione si era riconosciuta in quest’innamorato scarmigliato che urla alla luna e finisce col tirarsi una pallottola nel cervello. Vi furono una pettinatura, una camicia, un gergo “à la Werther”. Ci fu un’epidemia di suicidi. La sventura è che Goethe superò gli ottant’anni. Divenne il grande classico, il saggio di Weimar, colui del quale le teste coronate venivano raccogliendo il verbo. Da allora quel giovane pazzo del 1774 divenne un insopportabile peccato di giovinezza. Goethe non trova parole sufficientemente dure per condannare le “rêveries” morbose di quel romanticismo, di cui, tuttavia, è padre. Ma noi riconosciamo le lacrime che versa su Werther, sono quelle che versava già alla tavola di Alcinoo un naufrago dai capelli grigi, al quale tutto era stato rubato, anche i ricordi di guerra sotto le mura di Troia.
Ma quale fu l’itinerario decennale? Quali rotte mediterranee percorse Ulisse prima di approdare a Itaca? Prima tappa in Tracia, nella terra dei Ciconi; poi, verso l’odierna Libia incontra i Lotofagi; un salto a Cuma, nella grotta di Polifemo, e da lì nelle Eolie, a casa del dio dei venti; dopo una puntata nella Sardegna, terra dei Lestrigoni, Odisseo finisce tra le braccia della maga Circe; non si fa incantare dalle sirene di Capri, attraversa lo Stretto controllato da Scilla e Cariddi e sbarca a sud della Sicilia, nell’Isola del Sole. Di nuovo in mare, è vittima di un naufragio, che lo costringe ad attraversare, aggrappato a un relitto, mezzo Mediterraneo, fino all’isola di Calipso, presso Gibilterra. Lungo viaggio su una zattera, fino all’isola dei Feaci, Corfù. Da qui, undicesima e ultima tappa, l’arrivo a Itaca.

I giacimenti marini dell’età classica

Già nel 1446 Leon Battista Alberti voleva recuperare le enormi navi romane di Nemi, colate a picco forse al tempo dell’imperatore Claudio. Quando, nel 1932, il progetto fu realizzato, ci si accorse che alle dimensioni eccezionali, 79 metri di lunghezza, corrispondeva una singolare sontuosità dell’arredo, dalle colonne marmoree ai bagni caldi, ai pavimenti in mosaico, ai rivestimenti in marmo. Proprio attorno a quegli anni si verificarono i primi progressi tecnici decisivi che permisero all’archeologia subacquea di entrare in una fase di indagine scientifica di prim’ordine (in successione, scafandro autonomo, adattamento del flash elettronico, sonar laterale, tv subacquea).
Le vie commerciali spagnole e britanniche nelle Indie Occidentali fanno delle Bahamas, della Florida e delle Bermude il paradiso dell’archeologia subacquea dell’età moderna, e quelle dei grandi fiumi che sfociano nel Mare del Nord e nel Baltico sono state importanti per le scoperte e i recuperi riferiti al Medio Evo, a cominciare dal complesso di navi di Skuldelev, nel fiordo danese di Roskilde, rivelatesi di poco posteriori al 1000, mentre la leggenda le attribuiva a un naufragio regale del 1400.
Il Mediterraneo, invece, è l’area privilegiata di grandi ritrovamenti che datano prevalentemente dall’antichità classica, ma anche da epoche più remote. Alla preistoria dell’archeologia subacquea appartengono scoperte sensazionali, come quella di Anticitera, del 1900, dove furono estratte 36 statue marmoree e parecchi bronzi, tra i quali l’Efebo, forse un originale di Lisippo: oggi si sa con certezza che la nave di Anticitera si inabissò tra l’80 e il 50 a.C., forse poco prima del 65 a.C. Il celebre Zeus del Capo Artemisio, uno dei capolavori della bronzistica greca del IV secolo a.C., fu recuperato in mare nel 1928 nel nord dell’Eubea e le ricerche nel luogo del ritrovamento furono interrotte per un incidente mortale sopraggiunto nel corso delle immersioni; ma i dati del ritrovamento che consentono di attribuire il naufragio all’età giulio-claudia fanno ritenere che un carico prezioso giaccia ancora tra le sabbie dei fondali. E quasi tutto ormai si sa del ritrovamento nel mare di Riace dei due guerrieri bronzei, anch’essi capolavori greci del V secolo a.C.
Le informazioni tratte dalle esplorazioni dei relitti subacquei sono fondamentali per la conoscenza delle procedure artigianali e degli scambi commerciali. Così nei fondali di Capo Spitha, a sud-ovest del Peloponneso, sono stati studiati i carichi di due relitti, uno della tarda antichità che trasportava almeno 16 colonne di granito per un peso superiore alle 130 tonnellate, e l’altro del III secolo a.C. con quattro sarcofagi, sempre di granito, con decorazioni solo parzialmente abbozzate. Nel primo caso, materiale tratto da un qualche edificio in rovina, da reimpiegare altrove; nel secondo, prodotti usciti dalle cave, da lavorare nei luoghi di destinazione finale.
Ancora più significativo lo scavo dei relitti di Marzamemi, al largo della Sicilia, dove si è rinvenuto un carico di arredi ed elementi ornamentali in marmo di Larissa d’età paleocristiana, forse spediti da Costantinopoli o da un porto egeo verso l’Italia, la Sicilia o l’Africa del nord per l’edificazione di una chiesa. Di analogo significato, i ritrovamenti di San Pietro in Bevagna e Torre Sgarrata, presso Taranto, dove sono stati scoperti una quarantina di sarcofagi trasportati da due navi naufragate nel II o nel III secolo, che forniscono dati essenziali sui commerci romani dei marmi, dei graniti e del porfidi.
Più rara l’individuazione di relitti preclassici. Esemplare, comunque, lo scavo della nave certo salpata da un porto della Siria intorno al 1200 a.C. e naufragata presso Capo Gelidonya, a sud-ovest della costa turca: una piccola nave da carico, lunga poco più di 12 metri, che trasportava almeno 34 lingotti di rame del peso medio di 25 kg, lingotti minori di bronzo e altri di stagno per circa una tonnellata di peso complessivo. Vi era anche una gran quantità di utensili di bronzo in cattive condizioni, trasportati solo per il valore del metallo. Alcuni strumenti indicherebbero anche la presenza di un artigiano metallurgico. Altri relitti sono stati individuati nelle stesse aree marittime e ci hanno fornito dati inattesi sulla più antica navigazione fenicia nell’età del Bronzo, sulla metallurgia, sulla metrologia e sui commerci al tempo dei “ritorni” dalla guerra di Troia, confermando le ipotesi che le relazioni fra popoli e città furono incentrati essenzialmente sullo scambio, sul commercio e sul saccheggio.

1) Baleari: il fondo marino intorno a Ibiza custodisce preziose ancore d’argento appartenenti a navi fenicie.
2) Marsiglia: resti dell’antico porto e di una nave greca.
3) Albenga: una miniera di anfore romane.
4) Pola: localizzato il relitto della corazzata austro-ungarica “Viribus Unitis”, affondata dai nostri mas nel 1918.
5) Bocche di Bonifacio: il 9 settembre ‘43 aerei tedeschi affondarono la corazzata italiana “Roma”, localizzata ma non ancora esplorata.
6) Egadi: nel 241 a.C. ebbe luogo la battaglia navale che concluse la prima guerra punica. Finora, nessun relitto localizzato.
7) Cartagine: si cercano tutti i resti di quello che fu il più importante porto dell’antichità.
8) Riace: recuperati i due bronzi guerrieri, sicuramente il mare custodisce altri tesori trasportati dalla stessa nave.
9) Marzamemi: al largo della costa giacciono tre enormi colonne doriche risalenti al I sec. d.C., e, non lontano, si trovano i resti di una chiesa bizantina, “prefabbricata”.
10) San Pietro in Bevagna: resti di colonne e sarcofagi, scoperti qualche decennio fa dal salentino R. Congedo.
11) Lepanto: si cercano i relitti delle navi che presero parte al grande scontro navale fra cristiani e ottomani nell’ottobre 1571.
12) Capo Spitha: localizzati alcuni sarcofagi provenienti dall’antica Licia.
13) Cicladi: il fondo del mare è un’autentica miniera, con relitti di navi e vasellame di vario stile e di varie epoche.
14) Capo Gelidonya: attorno al 1200 a.C., naufragio di una nave fenicia proveniente dalla Siria. Relitto localizzato.
15 Alessandria: resti del Faro, una delle sette meraviglie, oltre che della celeberrima Biblioteca, del porto e di costruzioni civili e religiose abbattute in mare dal terremoto.

E comunque, Ulisse e la sua Odissea Mediterranea come metafora dell’uomo nato per non vivere come bruto, ma per seguire virtute e conoscenza, come volle Dante. Con la sua sete di vedere, di sapere, di scoprire. Col coraggio di mettersi su rotte sconosciute, di sbarcare in terre ignote, di affrontare situazioni inedite.
In parallelo, (meno metaforicamente, forse, come insegna la spedizione per il Vello in Caucaso), si trattava anche della caccia a mercati e a materie prime rare e preziose, a scambi commerciali e a contatti e relazioni che facevano del Mediterraneo una sorta di “patria comune”, un mare interno ma con una sua “internazionalità” che coinvolgeva tutti i popoli, non soltanto rivieraschi, del Mare Nostrum.
Fin dalla metà del Secondo Millennio avanti Cristo i Micenei, che abitavano la Grecia peninsulare, solcavano con le loro navi l’antico Mediterraneo verso Occidente, alla ricerca di materie prime rare e preziose. Il tragitto si svolgeva lungo rotte costiere e con l’appoggio di ripari temporanei ben protetti, quali talvolta modesti e apparentemente inospitali isolotti, come quello di Vivara presso Ischia.
Con il crollo dei regni micenei e la scomparsa della loro marineria, altri popoli del Vicino Oriente si sovrapposero agli itinerari più tracciati. Tra questi emersero i Fenici, che per lungo tempo detennero il monopolio della navigazione nel Canale di Sicilia e verso l’Ovest. Solo verso 1’800 a.C. furono almeno in parte affiancati da elementi di stirpe greca, provenienti dall’isola Eubea, che insieme con i Fenici colonizzarono Ischia.
Gli antichi scrittori, per evidenziare sia i misteriosi tragitti sia le lontane terre raggiunte, narravano di un comandante fenicio che, vistosi seguito da navi straniere durante la navigazione alla volta di mercati lontani e segreti, non esitò a gettare la sua nave sugli scogli, pur di non rivelare ai concorrenti la sua destinazione. La leggenda, poiché di leggenda molto probabilmente si tratta, nasconde nella realtà l’ampiezza delle relazioni commerciali fenicie. Già attorno al 1000 le loro navi da carico frequentavano assiduamente il Mare Egeo, alla ricerca dell’oro e del rame, mentre poco dopo, anche con il concorso finanziario dei faraoni d’Egitto e dei re d’Israele, intraprendevano viaggi verso l’Arabia e compivano in tre anni il periplo dell’Africa.
Se queste spedizioni verso Oriente tendevano ad acquisire spezie, oro, avorio e animali esotici, quelle verso l’Adriatico erano volte al commercio dell’ambra, preziosa per la gioielleria dell’epoca. La ricerca di beni preziosi o indispensabili, quali l’argento e lo stagno, spinse i naviganti fenici ad affrontare anche le onde dell’oceano Atlantico, fino a raggiungere dapprima le coste del Portogallo, e in seguito quelle delle Isole Britanniche.
Nei loro lunghi itinerari verso Occidente, i Fenici si servirono di navi di stazze talora considerevoli, che potevano toccare anche le cinquecento tonnellate e superare i quaranta metri di lunghezza. La navigabilità e la capacità di carico di questi mercantili erano garantite dalla larghezza dello scafo, che raggiungeva un terzo della lunghezza. La propulsione a vela consentiva una velocità media di circa tre nodi. I naviganti greci non furono certamente da meno, e, sia pure con minore raggio di azione, compirono grandi imprese. Il viaggio di Ulisse verso Itaca pone in evidenza i popoli, le terre e, non ultimi, i pericoli che incontravano i naviganti agli inizi del primo millennio prima di Cristo. Ma mentre la spinta verso Occidente dei Fenici fu soprattutto commerciale, quella greca fu sostanzialmente coloniale. Resta emblematica quella dei Greci d’Oriente, provenienti dalle colonie dell’Asia Minore, cacciati dai Persiani e diretti verso Ovest a fondare Marsiglia, che navigavano su vascelli da guerra colmi di coppe per vino che usavano per commerciare. Questo episodio nasconde (ma neanche tanto) le caratteristiche salienti dell’antica marineria, che si basavano sulla pirateria o sul commercio.
Non a caso i porti franchi dell’epoca erano posti sotto la protezione di una divinità universalmente riconosciuta (Astarte, Afrodite, Apollo, ecc. ) il cui santuario offriva luoghi sicuri di commercio e di riposo, quest’ultimo favorito dalle sacerdotesse delle dee. Il più celebre di questi santuari era a Paphos, nell’isola di Cipro, ma altri più vicini erano probabilmente a Santa Severa, sul litorale romano, e a Cuccureddus di Villasimius, nella Sardegna sud-occidentale.
Dei Romani non si ricordano grandi imprese navali, oltre a quelle delle famose battaglie contro la nemica Cartagine. Con la praticità che fu loro propria copiarono le loro navi da quelle cartaginesi, ma si avventurarono nel mare, che considerarono sempre ostile, soltanto quando ne furono obbligati. Nemici della pirateria, i Romani predilessero il commercio di contrabbando, nel quale si distinse Catone il Censore, che in questo settore impiegava i proventi dei suoi prestiti a usura.
Quello mediterraneo è stato il teatro preferito per le battaglie navali. La storia e la leggenda ci portano frammenti di combattimenti sul mare che risalgono al XIII secolo prima di Cristo, non fosse altro che per la prima grande operazione anfibia che memoria ricordi: lo sbarco dei Greci a Troia, per cingerla d’assedio.
La prima battaglia navale di gran rilievo di cui si abbia piena documentazione storica fu quella di Salamina, del 480 a.C., seguita un anno dopo da quella di Micale: la grande flotta persiana di Serse venne spazzata via dalla coalizione navale ellenica, comandata da Temistocle. Salamina rappresentò il primo schema tattico dove manovra, sfruttamento delle condizioni meteorologiche e caratteristiche costruttive delle navi dettero l’avvio alla definizione dei modelli di condotta tattica.
Nel 260 a.C. la flotta romana, comandata da Caio Duilio, si scontrò con quella cartaginese al largo di Milazzo. E vinse. Fu la prima battaglia navale di marca italica, e dove prevalse, oltre all’acume del comandante in mare, la "tecnologia" del tempo, rappresentata dall’applicazione del "corvo" sulla prua delle navi di Roma. Dopo che altri fatti navali contribuirono alla sconfitta di Cartagine, Roma diventò la dominatrice del Mediterraneo, ma ciò non le evitò il travaglio delle lotte intestine che provocarono, fra l’altro, una delle più celebri battaglie navali del Mare Nostrum: quella di Azio, del 31 a.C., vinta da Ottaviano (poi Augusto) contro le flotte di Antonio e Cleopatra.
Gli anni e i secoli si snodano: il trionfo imperiale di Roma e il suo declino, Bisanzio, le invasioni barbariche, il Medio Evo, le scoperte oceaniche, la nascita della potenza turca, le crociate, la Cristianità contro l’Islam, le guerre tra cristiani, le repubbliche marinare: sono tutte fasi costellate da numerose vicende d’arme sul mare.
Il 7 ottobre 1571 si combatté la più grande battaglia navale che mai abbia avuto luogo nel Mediterraneo: Lepanto. Oltre cinquecento navi, tra cristiane e turche, prevalentemente galee, rispettivamente al comando di don Giovanni d’Austria e Ali Pasha, si affrontarono in uno dei più memorabili combattimenti della storia. La flotta turca venne annientata, in parte affondata, in parte catturata. Si ebbero circa trentamila morti.
Gli anni che videro il confronto armato tra grandi potenze dell’epoca, (Spagna, Francia, Inghilterra), furono ricchi di avvenimenti marittimi: chi vinceva sul mare, si assicurava la supremazia. Era una posta ambiziosa cui nessuno volle mai rinunciare. Il 4 agosto 1704 l’Inghilterra e la sua marina si impossessarono di Gibilterra, e questa fu la premessa per fare del Mediterraneo una sorta di lago inglese.
Significativa per la storia del Mare Nostrum fu la battaglia di Abukir, quando la squadra francese di Tolone, sfuggita al blocco e alla ricerca di quella inglese comandata da Orazio Nelson, raggiunse l’Egitto, dove Napoleone stava vincendo sul terreno, ma era bisognoso di rinforzi e di sostegno. I francesi andarono all’ancora nella baia di Abukir, convinti che per un po’ di tempo l’ammiraglio inglese non li avrebbe scoperti. Ma Nelson, studiate bene le condizioni di vento del periodo, comprese che le navi francesi, favorite dal dio Eolo, non potevano che aver raggiunto l’Egitto in tempi brevi. Così il primo agosto 1798 la squadra britannica raggiunse quella francese e diede luogo a una grande battaglia, condotta con estremo valore da parte francese, ma non con altrettanta perizia. La Francia perse: undici unità navali su tredici colate a picco, tremila prigionieri, mille e cinquecento feriti, mille e settecento morti. Modeste le perdite britanniche: meno di trecento morti e settecento feriti, e, quello che più importava, la squadra del tutto integra. Le guerre napoleoniche proseguirono e non mancarono altri scontri navali nel Mediterraneo, ma Abukir rimase l’annuncio dell’inevitabile sconfitta marittima della Francia.
Il 20 ottobre 1827, nella baia di Navarino, le squadre riunite inglese, francese e russa sorpresero quella turco-egiziana e la batterono, ma intanto tempi e tecnica evolvevano: le navi a vela cominciarono ad essere gradualmente sostituite da quelle mosse dalla macchina a vapore e dalle eliche, con scafi in ferro dove fiancate e ponti venivano ricoperti di corazze, mentre si diffondevano rapidamente le moderne artiglierie con il nuovo munizionamento e apparivano i primi congegni per la direzione del tiro.
La prima vera battaglia combattuta tra flotte moderne nelle acque dell’area mediterranea fu quella del luglio 1866 a Lissa, tra la flotta dell’appena costruita marina italiana (l’Unità è del 1861) e la flotta austriaca, comandata dall’ammiraglio Persano e dall’ammiraglio Tegethoff: per l’Italia fu una sconfitta cui non ci rassegnammo mai.
Ma la marina era appena nata, travagliata da precarie intese tra i suoi uomini provenienti dalle diverse Marine pre-unitarie, e in qualche caso minata da palesi ostilità. La dottrina tattica era scopiazzata da quella francese; le navi, se pur molte moderne, erano disomogenee e ancora poco avvezze a operare insieme; l’addestramento in combattimento era poco credibile e altrettanto poco affidabile.
La Belle Epoque, con qualche eccezione, fu parca di grandi conflitti. Per gli affari di casa nostra la conquista (1911-‘12) della Libia dette modo alla marina di dare un valido esempio di organizzazione e di impiego, ma fu anche vero che il nemico navale, turco, fu pressoché inesistente. Il conflitto navale in Mediterraneo durante la Grande Guerra fu intenso, ma mancò l’occasione della grande battaglia. La marina italiana attese invano che la flotta austriaca uscisse in mare aperto per affrontarla e tentare la rivincita di Lissa. Allora ci inventammo un nuovo tipo di guerra, oltre tutto congeniale alla nostra indole: quella dei Mas e dei mezzi d’assalto, con cui cogliemmo successi di un certo significato.

Acque morte, acque vive

«Si narra che Poseidon, potente dio del mare, che con la sua forza proteggeva tutte le creature marine, abbia concepito una figlia chiamata Posidonia. Era una bellissima creatura che viveva nei fondali del Mediterraneo, aveva dei lunghissimi capelli verdi come lo smeraldo, che con il loro movimento, sospinti dalle correnti, creavano un’atmosfera di fiaba. Posidonia proteggeva tra le sue braccia migliaia di specie di pesci, i quali trovavano in lei un luogo dove ripararsi e riprodursi in tranquillità. Posidonia, attraverso il suo respiro dolce e vitale, produceva tante bollicine blu, come il mare, di ossigeno da cui tutta la vita sott’acqua trovava la forza di esistere...».
Ma non tutte le favole hanno un lieto fine. Così la storia di Posidonia prelude ad un finale triste. Infatti, è una pianta superiore, e non un’alga, e sta rapidamente scomparendo dai fondali del Mediterraneo, creando serissimi problemi all’intero ecosistema marino. Ragioni principali della distruzione dovute a fattori esterni alla vita del mare: l’uso indiscriminato delle reti a strascico, gli ancoraggi selvaggi, le barriere artificiali per moli, porti e strutture di vario tipo, l’azione degli agenti inquinanti.
Il rischio è altissimo, se si considerino le fondamentali funzioni che la Posidonia espleta nell’ecosistema marino. Questa pianta, infatti, che si estende in praterie ad una profondità compresa tra le poche decine di centimetri e i 40 metri, crea un habitat ideale per la conservazione e la riproduzione di molte specie ittiche; grazie al suo processo fotosintetico, inoltre, produce gran parte dell’ossigeno necessario alla vita del mare, ed evita, con un’azione di rallentamento del moto ondoso, compiuta dalle lunghe foglie nastriformi, l’erosione delle coste (basti pensare che per ogni metro quadrato di Posidonia andato perduto, si rischia l’erosione di 10-20 metri lineari di arenile).
Una pianta essenziale, dunque, che va salvaguardata dall’opera distruttiva dell’uomo, anche facendo ricorso alla ricostituzione di praterie là dove i diversi inquinamenti hanno raso al suolo, nelle profondità, quelle esistenti.

Margherita di Savoia, Cervia, Trapani... Specchi d’acqua morta, le saline. Bacini sorvegliati dai mulini a vento, o comunque percorsi dal vento. E’ il bianco teatro del sale, un nobile decaduto, che ha trascinato nel suo tramonto anche la salagione del pesce.
Addio alla salina, dunque? Forse non del tutto. Esiste qualche speranza di salvezza. Esiste la possibilità di farne un parco. Esiste (e in Israele è una realtà) la risorsa di sfruttare gli stagni solari per la produzione di elettricità. Esiste la possibilità di convertire i vasi salinanti abbandonati in fattorie marine e in riserve alimentari perpetue, con l’allevamento di specie ittiche pregiate. Esiste infine la speranza di un risanamento dell’industria salinifera classica, sempre che si dia corso a una concentrazione delle caselle in un unico, grandioso “giardino del sale”, razionalizzato e finalizzato secondo i più moderni ritrovati della tecnica.
«Sogni, forse», scriveva in proposito Gesualdo Bufalino. «Ma quante belle idee e realtà odierne, sulle quali esiste comune consenso, furono all’inizio null’altro che sogni?».

La Seconda Guerra registrò un certo numero di scontri fra le squadre italiane e britanniche, e alcune grandi operazioni anfibie, quali quelle del Nord Africa del novembre ‘42, in Sicilia del luglio ‘43 e in Provenza nel ‘44. Qualcosa di più fu la battaglia di mezzo giugno ‘42 con lo scontro di Pantelleria. Molto di più fu lo scontro di mezzo agosto ‘42, quando le operazioni furono finalmente condotte da parte italiana con un certo coordinamento dei mezzi propri della guerra che avremmo dovuto condurre: sommergibili, motosiluranti, unità leggere, aerei. E infatti il successo non mancò.

Da allora, registriamo oltre mezzo secolo di pace, in un mare che non è, né poteva essere più “Nostrum”, e che si dovrà decidere se debba essere trasformato in un muro o in un ponte. L’instabilità politica riguarda il Vicino Oriente, al cospetto di un Continente europeo che si va progressivamente consolidando come Unione, allargata a tutte le nazioni.
Ma un altro tipo di instabilità minaccia il pacifico sviluppo delle relazioni tra le diverse sponde del Mediterraneo: l’aggressività dell’ideologia islamica nei confronti dell’Occidente e del Settentrione (del Nord e dell’Ovest, come si dice in area coranica), ritenuti a torto responsabili della decadenza dell’universo musulmano, può portare ancora una volta, come ai tempi dell’Impero Ottomano battuto sotto le mura di Vienna, ad uno scontro tra civiltà. Il rischio è reale, e non ha per campo il solo Mediterraneo, ma l’intero scacchiere planetario, come hanno dimostrato gli attacchi contro obiettivi civili, politici e militari negli Stati Uniti l’11 settembre del primo anno del terzo millennio. Due mondi politici, culturali e religiosi si fronteggiano, potenzialmente disposti a trasformare le guerre locali con cui si misurano qui e là in un confronto devastante e genocida. Eppure, a rifletterci bene, è sempre il Mediterraneo di Ulisse, dei Fenici, degli Etruschi, dei Greci, dei Romani, dei Faraoni, e delle potenze marinare di tutti i tempi, a restare un vero e proprio ago della bilancia. Qui è l’incontro-scontro più visibile e diretto tra teocrazie e democrazie, il posizionamento ravvicinato del detonatore che può dare un nome all’apocalisse. Interi, irripetibili patrimoni di arte e di civiltà rischiano di trasformarsi in archeologie sommerse per terra e per mare. Testimonianze di suprema grandezza della cultura universale rischiano di essere cancellate dalla più brutale e incomprensibile delle guerre, quella di religione, o in nome della religione.
L’ottusità dell’ideologia teocratica coniugata all’esercizio del potere antidemocratico può seppellire in una coltre di rovine millenni di manifestazioni architettoniche, artistiche, letterarie, che dopo una lunghissima guerra civile hanno dato all’Europa il primato civile tra Oriente e Occidente.
E’ nel Mediterraneo che si giocherà, dunque, la partita per la vita o per la morte, per il muro valicato in armi o per il ponte valicato con i commerci. E’ qui che fa ritorno il cuore del mondo, a palpitare o a pulsare. A battere i tempi della guerra o quelli della pace, finché il pendolo della storia mediterranea, nello stesso tempo grande e tragico, si fermerà, segnando il destino del futuro del “Mare Nostrum”, cioè dell’universo terracqueo.

   
   
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