Nel Mediterraneo si giocherà la partita per la vita o per
la morte, per il muro valicato in armi o per il ponte valicato con
i commerci.
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LIliade e lOdissea rispondono a domande diametralmente
opposte. LIliade è la storia di un assedio, quello
della città di Troia da parte dei Greci. LOdissea racconta
il ritorno di Ulisse nella sua Itaca. Ebbene, questi due temi sono
dinamicamente opposti. Lassedio è statico e deve restar
tale. La tentazione permanente degli assedianti è di smontare
le tende e andarsene via. Ma non si può, né si deve.
La virtù di un assedio è la costanza, la pazienza,
laccanimento.
Al contrario, il ritorno di Ulisse dovrebbe compiersi senza alcun
impedimento, senza ritardi, senza soste fra Troia e Itaca. E
il ritorno al focolare dalla fida Penelope. Ma se le cose fossero
andate in questo modo, non avremmo avuto lOdissea, perché
essa altro non è che lenumerazione dei ritardi imposti
alleroe dagli dei, almeno secondo linterpretazione corrente.
Dieci anni per raggiungere la patria, via mare? Ma vogliamo scherzare?
Ecco perché lo scrittore Jean Giono ha scritto con la Nascita
dellOdissea una versione particolarmente irriverente del ritorno
di Ulisse. Secondo Giono, Ulisse non aveva alcuna fretta di raggiungere
la noiosa Itaca, dove lo attendevano i doveri coniugali e gli intrighi
di corte. E aggiunge Michel Tournier, altro grande, o massimo scrittore
francese contemporaneo: come un operaio che sperperi la paga settimanale
al sabato sera facendo il giro di tutte le bettole del quartiere,
Ulisse si perde in tutti i porti mediterranei, dove viene trattenuto
da stupende silfidi. Le avventure narrate nellOdissea saranno
altrettante impudenti menzogne che la sua febbre di ubriaco inventerà
per giustificare il mostruoso ritardo.
Si aggiunga che lOdissea è un viaggio molto strano.
Perché si tratta di un ritorno, ma il ritorno non è
il contrario di un viaggio, un antiviaggio, in qualche modo? Il
vero viaggio è quello degli Argonauti (Giasone, Eracle, Castore,
Polluce e alcuni altri), partiti alla conquista del Vello dOro.
In fatto di vello, è la barba grigia a riportare Ulisse dal
suo catastrofico periplo. Perché lOdissea è
la storia di una caduta. Ogni episodio segna una nuova tappa verso
la sconfitta, un gradino più in basso nella discesa di non
si sa quale voragine.
Allinizio lavventura non manca di una certa vivacità.
LIsola dei Lotofagi e la lotta col ciclope Polifemo siscrivono
in una dimensione epica. Ma la degradante ritirata presso Circe,
la discesa agli Inferi e linterminabile legame con Calipso
sanno di decadenza.
Tuttavia è sulle rive dei Feaci che Ulisse tocca il fondo
del suo stato di abbandono. Sostiene Tournier: quando viene gettato
dalla tempesta su queste coste sconosciute, egli ha perso veramente
tutto, i compagni, la nave, le armi e anche i vestiti. E un
lattante barbuto con i capelli grigi che le onde partoriscono sulla
sabbia. Ma è approdato alla foce di un fiume, ed è
qui che Nausicaa, figlia del re del luogo, è solita lavare
i panni con le sue compagne. Non a torto si resta meravigliati di
questo particolare: la principessa reale che lava da sola la biancheria
della corte (biancheria certo bella, ricamata, fregiata di stemmi,
ricca di trine, ma pur sempre biancheria), paradosso affascinante
che accomuna alla più alta nobiltà il più modesto
dei compiti femminili.
Nausicaa e le sue compagne stendono il bucato al sole, fanno merenda
e giocano a palla. Ed è proprio la palla a rotolare fino
al naufrago, addormentato nellerba vicino al fiume. Svegliatosi,
si alza, nudo, col viso e il corpo orribilmente segnati dal sale
e dagli scogli. Le donzelle fuggono strepitando. Lunica che
resta è Nausicaa. E figlia di un re, e sente il dovere
di affrontare quel mostro sconosciuto, spuntato dai cespugli. Lei
lo accoglierà, lo vestirà, lo condurrà da suo
padre, re Alcinoo.
Il fatto è che il dovere dospitalità si fa sentire
tanto più imperiosamente quanto più la posizione che
si occupa è elevata. Lungo il cammino, lei lo istruisce:
quando farà ingresso nella sala comune, egli dovrà
dirigersi direttamente verso la regina Aretè, seduta a filare
accanto al camino, poiché è proprio a lei che dovrà
implorare ospitalità.
Così sarà fatto. Ma quando Aretè chiede allo
sconosciuto nome e origine, Ulisse si limita a raccontare le circostanze
del suo naufragio. Per il resto, egli non ha più né
nome né origine. E diventato il naufrago anonimo e
colpito da amnesia. Ragione di più perché gli vengano
tributati tutti gli onori. Alcinoo arriverà ad offrirgli
la figlia in sposa, ma bisognerebbe che lo sconosciuto accettasse
di vivere nella terra dei Feaci. Ma di ciò non cè
neppure da discutere. Dunque, egli ripartirà, ma prima avrà
luogo un banchetto notturno in suo onore, dominato dalla presenza
dellaedo Demodoco, senzaltro una delle vette, e forse
il massimo vertice dellOdissea.
Ogni scrittore, ma anche chiunque si occupi di letteratura, non
saprebbe troppo riflettere su questo banchetto notturno. Vi è
la corte, riunita attorno alla coppia reale. Il re Alcinoo domina
non solo per dignità, ma anche per lucidità, poiché
egli soltanto ha intuito il segreto del grande naufrago. Vi è
laedo Demodoco cieco e allucinato, che ignora divinamente
questa tavolata di umani. Lepica è il suo regno. Egli
non conosce che gli dèi e gli eroi dellOlimpo. Egli
non conosce che i superuomini che si affrontano sotto le mura di
Troia. Perché la guerra di Troia non appartiene già
più alla storia. Anche se si è conclusa da meno di
dieci anni, la guerra sconfina nella leggenda e, con essa, coloro
che la fecero.
E laedo ispirato canta. Che cosa canta Demodoco? Canta episodi
grandiosi della guerra di Troia, dove appaiono gli uomini che si
batterono. Canta la grande lite che oppose Ulisse e Achille, figlio
di Peleo. Canta il cavallo di legno introdotto in città,
tremenda e meravigliosa invenzione di Ulisse.
Ecco ora lincredibile paradosso: questi episodi fondamentali
della guerra di Troia non sono menzionati nellIliade! E
lOdissea, è laedo cieco Demodoco che ce li fanno
conoscere. E come reagisce a questa evocazione il naufrago sconosciuto
a capotavola? Si copre il volto con un velo purpureo, perché
ha vergogna delle lacrime che lo inondano... Perché quelle
lacrime? Perché una simile sofferenza? Perché Ulisse
si trova in una situazione fortunatamente molto rara, e insopportabile
a coloro che la conoscono: si trova faccia a faccia con il mito
di se stesso.
Sono pochi, in effetti, i creatori di miti. Ma la regola vuole che
un destino misericordioso risparmi loro ogni incontro con la loro
stessa immagine trasfigurata di generazione in generazione. Linventore
di Tristano e Isotta era scomparso nellanonimato molto prima
che questa coppia casta e sterile divenisse simbolo della passione
amorosa. Tirso de Molina morì senza sapere che Don Giovanni
sarebbe uscito dalle pagine della sua commedia Le Trompeur
de Séville (1630), per incarnare in venti altre opere
e nella vita stessa il desiderio erotico anarchico e criminoso.
Daniel Defoe non ha mai saputo che il personaggio della sua opera
che lo avrebbe reso immortale sarebbe stato Robinson Crusoe, luomo
dellisola deserta, il padrone del nero Venerdì.
Goethe non ha avuto questa fortuna. Egli aveva venticinque anni
quando aveva pubblicato, in pieno tardo Settecento, (1774), un piccolo
romanzo nel quale racconta ingenuamente il suo primo amore e il
suo primo dolore, Werther. Era poi venuto il Romanticismo,
e unintera generazione si era riconosciuta in questinnamorato
scarmigliato che urla alla luna e finisce col tirarsi una pallottola
nel cervello. Vi furono una pettinatura, una camicia, un gergo à
la Werther. Ci fu unepidemia di suicidi. La sventura
è che Goethe superò gli ottantanni. Divenne
il grande classico, il saggio di Weimar, colui del quale le teste
coronate venivano raccogliendo il verbo. Da allora quel giovane
pazzo del 1774 divenne un insopportabile peccato di giovinezza.
Goethe non trova parole sufficientemente dure per condannare le
rêveries morbose di quel romanticismo, di cui,
tuttavia, è padre. Ma noi riconosciamo le lacrime che versa
su Werther, sono quelle che versava già alla tavola di Alcinoo
un naufrago dai capelli grigi, al quale tutto era stato rubato,
anche i ricordi di guerra sotto le mura di Troia.
Ma quale fu litinerario decennale? Quali rotte mediterranee
percorse Ulisse prima di approdare a Itaca? Prima tappa in Tracia,
nella terra dei Ciconi; poi, verso lodierna Libia incontra
i Lotofagi; un salto a Cuma, nella grotta di Polifemo, e da lì
nelle Eolie, a casa del dio dei venti; dopo una puntata nella Sardegna,
terra dei Lestrigoni, Odisseo finisce tra le braccia della maga
Circe; non si fa incantare dalle sirene di Capri, attraversa lo
Stretto controllato da Scilla e Cariddi e sbarca a sud della Sicilia,
nellIsola del Sole. Di nuovo in mare, è vittima di
un naufragio, che lo costringe ad attraversare, aggrappato a un
relitto, mezzo Mediterraneo, fino allisola di Calipso, presso
Gibilterra. Lungo viaggio su una zattera, fino allisola dei
Feaci, Corfù. Da qui, undicesima e ultima tappa, larrivo
a Itaca.
I giacimenti marini delletà
classica
Già nel 1446 Leon Battista Alberti voleva recuperare
le enormi navi romane di Nemi, colate a picco forse al tempo
dellimperatore Claudio. Quando, nel 1932, il progetto
fu realizzato, ci si accorse che alle dimensioni eccezionali,
79 metri di lunghezza, corrispondeva una singolare sontuosità
dellarredo, dalle colonne marmoree ai bagni caldi, ai
pavimenti in mosaico, ai rivestimenti in marmo. Proprio attorno
a quegli anni si verificarono i primi progressi tecnici decisivi
che permisero allarcheologia subacquea di entrare in
una fase di indagine scientifica di primordine (in successione,
scafandro autonomo, adattamento del flash elettronico, sonar
laterale, tv subacquea).
Le vie commerciali spagnole e britanniche nelle Indie Occidentali
fanno delle Bahamas, della Florida e delle Bermude il paradiso
dellarcheologia subacquea delletà moderna,
e quelle dei grandi fiumi che sfociano nel Mare del Nord e
nel Baltico sono state importanti per le scoperte e i recuperi
riferiti al Medio Evo, a cominciare dal complesso di navi
di Skuldelev, nel fiordo danese di Roskilde, rivelatesi di
poco posteriori al 1000, mentre la leggenda le attribuiva
a un naufragio regale del 1400.
Il Mediterraneo, invece, è larea privilegiata
di grandi ritrovamenti che datano prevalentemente dallantichità
classica, ma anche da epoche più remote. Alla preistoria
dellarcheologia subacquea appartengono scoperte sensazionali,
come quella di Anticitera, del 1900, dove furono estratte
36 statue marmoree e parecchi bronzi, tra i quali lEfebo,
forse un originale di Lisippo: oggi si sa con certezza che
la nave di Anticitera si inabissò tra l80 e il
50 a.C., forse poco prima del 65 a.C. Il celebre Zeus del
Capo Artemisio, uno dei capolavori della bronzistica greca
del IV secolo a.C., fu recuperato in mare nel 1928 nel nord
dellEubea e le ricerche nel luogo del ritrovamento furono
interrotte per un incidente mortale sopraggiunto nel corso
delle immersioni; ma i dati del ritrovamento che consentono
di attribuire il naufragio alletà giulio-claudia
fanno ritenere che un carico prezioso giaccia ancora tra le
sabbie dei fondali. E quasi tutto ormai si sa del ritrovamento
nel mare di Riace dei due guerrieri bronzei, anchessi
capolavori greci del V secolo a.C.
Le informazioni tratte dalle esplorazioni dei relitti subacquei
sono fondamentali per la conoscenza delle procedure artigianali
e degli scambi commerciali. Così nei fondali di Capo
Spitha, a sud-ovest del Peloponneso, sono stati studiati i
carichi di due relitti, uno della tarda antichità che
trasportava almeno 16 colonne di granito per un peso superiore
alle 130 tonnellate, e laltro del III secolo a.C. con
quattro sarcofagi, sempre di granito, con decorazioni solo
parzialmente abbozzate. Nel primo caso, materiale tratto da
un qualche edificio in rovina, da reimpiegare altrove; nel
secondo, prodotti usciti dalle cave, da lavorare nei luoghi
di destinazione finale.
Ancora più significativo lo scavo dei relitti di Marzamemi,
al largo della Sicilia, dove si è rinvenuto un carico
di arredi ed elementi ornamentali in marmo di Larissa detà
paleocristiana, forse spediti da Costantinopoli o da un porto
egeo verso lItalia, la Sicilia o lAfrica del nord
per ledificazione di una chiesa. Di analogo significato,
i ritrovamenti di San Pietro in Bevagna e Torre Sgarrata,
presso Taranto, dove sono stati scoperti una quarantina di
sarcofagi trasportati da due navi naufragate nel II o nel
III secolo, che forniscono dati essenziali sui commerci romani
dei marmi, dei graniti e del porfidi.
Più rara lindividuazione di relitti preclassici.
Esemplare, comunque, lo scavo della nave certo salpata da
un porto della Siria intorno al 1200 a.C. e naufragata presso
Capo Gelidonya, a sud-ovest della costa turca: una piccola
nave da carico, lunga poco più di 12 metri, che trasportava
almeno 34 lingotti di rame del peso medio di 25 kg, lingotti
minori di bronzo e altri di stagno per circa una tonnellata
di peso complessivo. Vi era anche una gran quantità
di utensili di bronzo in cattive condizioni, trasportati solo
per il valore del metallo. Alcuni strumenti indicherebbero
anche la presenza di un artigiano metallurgico. Altri relitti
sono stati individuati nelle stesse aree marittime e ci hanno
fornito dati inattesi sulla più antica navigazione
fenicia nelletà del Bronzo, sulla metallurgia,
sulla metrologia e sui commerci al tempo dei ritorni
dalla guerra di Troia, confermando le ipotesi che le relazioni
fra popoli e città furono incentrati essenzialmente
sullo scambio, sul commercio e sul saccheggio.
1) Baleari: il fondo marino intorno a Ibiza custodisce preziose
ancore dargento appartenenti a navi fenicie.
2) Marsiglia: resti dellantico porto e di una nave greca.
3) Albenga: una miniera di anfore romane.
4) Pola: localizzato il relitto della corazzata austro-ungarica
Viribus Unitis, affondata dai nostri mas nel 1918.
5) Bocche di Bonifacio: il 9 settembre 43 aerei tedeschi
affondarono la corazzata italiana Roma, localizzata
ma non ancora esplorata.
6) Egadi: nel 241 a.C. ebbe luogo la battaglia navale che
concluse la prima guerra punica. Finora, nessun relitto localizzato.
7) Cartagine: si cercano tutti i resti di quello che fu il
più importante porto dellantichità.
8) Riace: recuperati i due bronzi guerrieri, sicuramente il
mare custodisce altri tesori trasportati dalla stessa nave.
9) Marzamemi: al largo della costa giacciono tre enormi colonne
doriche risalenti al I sec. d.C., e, non lontano, si trovano
i resti di una chiesa bizantina, prefabbricata.
10) San Pietro in Bevagna: resti di colonne e sarcofagi, scoperti
qualche decennio fa dal salentino R. Congedo.
11) Lepanto: si cercano i relitti delle navi che presero parte
al grande scontro navale fra cristiani e ottomani nellottobre
1571.
12) Capo Spitha: localizzati alcuni sarcofagi provenienti
dallantica Licia.
13) Cicladi: il fondo del mare è unautentica
miniera, con relitti di navi e vasellame di vario stile e
di varie epoche.
14) Capo Gelidonya: attorno al 1200 a.C., naufragio di una
nave fenicia proveniente dalla Siria. Relitto localizzato.
15 Alessandria: resti del Faro, una delle sette meraviglie,
oltre che della celeberrima Biblioteca, del porto e di costruzioni
civili e religiose abbattute in mare dal terremoto.
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E comunque, Ulisse e la sua Odissea Mediterranea come metafora
delluomo nato per non vivere come bruto, ma per seguire virtute
e conoscenza, come volle Dante. Con la sua sete di vedere, di sapere,
di scoprire. Col coraggio di mettersi su rotte sconosciute, di sbarcare
in terre ignote, di affrontare situazioni inedite.
In parallelo, (meno metaforicamente, forse, come insegna la spedizione
per il Vello in Caucaso), si trattava anche della caccia a mercati
e a materie prime rare e preziose, a scambi commerciali e a contatti
e relazioni che facevano del Mediterraneo una sorta di patria
comune, un mare interno ma con una sua internazionalità
che coinvolgeva tutti i popoli, non soltanto rivieraschi, del Mare
Nostrum.
Fin dalla metà del Secondo Millennio avanti Cristo i Micenei,
che abitavano la Grecia peninsulare, solcavano con le loro navi
lantico Mediterraneo verso Occidente, alla ricerca di materie
prime rare e preziose. Il tragitto si svolgeva lungo rotte costiere
e con lappoggio di ripari temporanei ben protetti, quali talvolta
modesti e apparentemente inospitali isolotti, come quello di Vivara
presso Ischia.
Con il crollo dei regni micenei e la scomparsa della loro marineria,
altri popoli del Vicino Oriente si sovrapposero agli itinerari più
tracciati. Tra questi emersero i Fenici, che per lungo tempo detennero
il monopolio della navigazione nel Canale di Sicilia e verso lOvest.
Solo verso 1800 a.C. furono almeno in parte affiancati da
elementi di stirpe greca, provenienti dallisola Eubea, che
insieme con i Fenici colonizzarono Ischia.
Gli antichi scrittori, per evidenziare sia i misteriosi tragitti
sia le lontane terre raggiunte, narravano di un comandante fenicio
che, vistosi seguito da navi straniere durante la navigazione alla
volta di mercati lontani e segreti, non esitò a gettare la
sua nave sugli scogli, pur di non rivelare ai concorrenti la sua
destinazione. La leggenda, poiché di leggenda molto probabilmente
si tratta, nasconde nella realtà lampiezza delle relazioni
commerciali fenicie. Già attorno al 1000 le loro navi da
carico frequentavano assiduamente il Mare Egeo, alla ricerca delloro
e del rame, mentre poco dopo, anche con il concorso finanziario
dei faraoni dEgitto e dei re dIsraele, intraprendevano
viaggi verso lArabia e compivano in tre anni il periplo dellAfrica.
Se queste spedizioni verso Oriente tendevano ad acquisire spezie,
oro, avorio e animali esotici, quelle verso lAdriatico erano
volte al commercio dellambra, preziosa per la gioielleria
dellepoca. La ricerca di beni preziosi o indispensabili, quali
largento e lo stagno, spinse i naviganti fenici ad affrontare
anche le onde delloceano Atlantico, fino a raggiungere dapprima
le coste del Portogallo, e in seguito quelle delle Isole Britanniche.
Nei loro lunghi itinerari verso Occidente, i Fenici si servirono
di navi di stazze talora considerevoli, che potevano toccare anche
le cinquecento tonnellate e superare i quaranta metri di lunghezza.
La navigabilità e la capacità di carico di questi
mercantili erano garantite dalla larghezza dello scafo, che raggiungeva
un terzo della lunghezza. La propulsione a vela consentiva una velocità
media di circa tre nodi. I naviganti greci non furono certamente
da meno, e, sia pure con minore raggio di azione, compirono grandi
imprese. Il viaggio di Ulisse verso Itaca pone in evidenza i popoli,
le terre e, non ultimi, i pericoli che incontravano i naviganti
agli inizi del primo millennio prima di Cristo. Ma mentre la spinta
verso Occidente dei Fenici fu soprattutto commerciale, quella greca
fu sostanzialmente coloniale. Resta emblematica quella dei Greci
dOriente, provenienti dalle colonie dellAsia Minore,
cacciati dai Persiani e diretti verso Ovest a fondare Marsiglia,
che navigavano su vascelli da guerra colmi di coppe per vino che
usavano per commerciare. Questo episodio nasconde (ma neanche tanto)
le caratteristiche salienti dellantica marineria, che si basavano
sulla pirateria o sul commercio.
Non a caso i porti franchi dellepoca erano posti sotto la
protezione di una divinità universalmente riconosciuta (Astarte,
Afrodite, Apollo, ecc. ) il cui santuario offriva luoghi sicuri
di commercio e di riposo, questultimo favorito dalle sacerdotesse
delle dee. Il più celebre di questi santuari era a Paphos,
nellisola di Cipro, ma altri più vicini erano probabilmente
a Santa Severa, sul litorale romano, e a Cuccureddus di Villasimius,
nella Sardegna sud-occidentale.
Dei Romani non si ricordano grandi imprese navali, oltre a quelle
delle famose battaglie contro la nemica Cartagine. Con la praticità
che fu loro propria copiarono le loro navi da quelle cartaginesi,
ma si avventurarono nel mare, che considerarono sempre ostile, soltanto
quando ne furono obbligati. Nemici della pirateria, i Romani predilessero
il commercio di contrabbando, nel quale si distinse Catone il Censore,
che in questo settore impiegava i proventi dei suoi prestiti a usura.
Quello mediterraneo è stato il teatro preferito per le battaglie
navali. La storia e la leggenda ci portano frammenti di combattimenti
sul mare che risalgono al XIII secolo prima di Cristo, non fosse
altro che per la prima grande operazione anfibia che memoria ricordi:
lo sbarco dei Greci a Troia, per cingerla dassedio.
La prima battaglia navale di gran rilievo di cui si abbia piena
documentazione storica fu quella di Salamina, del 480 a.C., seguita
un anno dopo da quella di Micale: la grande flotta persiana di Serse
venne spazzata via dalla coalizione navale ellenica, comandata da
Temistocle. Salamina rappresentò il primo schema tattico
dove manovra, sfruttamento delle condizioni meteorologiche e caratteristiche
costruttive delle navi dettero lavvio alla definizione dei
modelli di condotta tattica.
Nel 260 a.C. la flotta romana, comandata da Caio Duilio, si scontrò
con quella cartaginese al largo di Milazzo. E vinse. Fu la prima
battaglia navale di marca italica, e dove prevalse, oltre allacume
del comandante in mare, la "tecnologia" del tempo, rappresentata
dallapplicazione del "corvo" sulla prua delle navi
di Roma. Dopo che altri fatti navali contribuirono alla sconfitta
di Cartagine, Roma diventò la dominatrice del Mediterraneo,
ma ciò non le evitò il travaglio delle lotte intestine
che provocarono, fra laltro, una delle più celebri
battaglie navali del Mare Nostrum: quella di Azio, del 31 a.C.,
vinta da Ottaviano (poi Augusto) contro le flotte di Antonio e Cleopatra.
Gli anni e i secoli si snodano: il trionfo imperiale di Roma e il
suo declino, Bisanzio, le invasioni barbariche, il Medio Evo, le
scoperte oceaniche, la nascita della potenza turca, le crociate,
la Cristianità contro lIslam, le guerre tra cristiani,
le repubbliche marinare: sono tutte fasi costellate da numerose
vicende darme sul mare.
Il 7 ottobre 1571 si combatté la più grande battaglia
navale che mai abbia avuto luogo nel Mediterraneo: Lepanto. Oltre
cinquecento navi, tra cristiane e turche, prevalentemente galee,
rispettivamente al comando di don Giovanni dAustria e Ali
Pasha, si affrontarono in uno dei più memorabili combattimenti
della storia. La flotta turca venne annientata, in parte affondata,
in parte catturata. Si ebbero circa trentamila morti.
Gli anni che videro il confronto armato tra grandi potenze dellepoca,
(Spagna, Francia, Inghilterra), furono ricchi di avvenimenti marittimi:
chi vinceva sul mare, si assicurava la supremazia. Era una posta
ambiziosa cui nessuno volle mai rinunciare. Il 4 agosto 1704 lInghilterra
e la sua marina si impossessarono di Gibilterra, e questa fu la
premessa per fare del Mediterraneo una sorta di lago inglese.
Significativa per la storia del Mare Nostrum fu la battaglia di
Abukir, quando la squadra francese di Tolone, sfuggita al blocco
e alla ricerca di quella inglese comandata da Orazio Nelson, raggiunse
lEgitto, dove Napoleone stava vincendo sul terreno, ma era
bisognoso di rinforzi e di sostegno. I francesi andarono allancora
nella baia di Abukir, convinti che per un po di tempo lammiraglio
inglese non li avrebbe scoperti. Ma Nelson, studiate bene le condizioni
di vento del periodo, comprese che le navi francesi, favorite dal
dio Eolo, non potevano che aver raggiunto lEgitto in tempi
brevi. Così il primo agosto 1798 la squadra britannica raggiunse
quella francese e diede luogo a una grande battaglia, condotta con
estremo valore da parte francese, ma non con altrettanta perizia.
La Francia perse: undici unità navali su tredici colate a
picco, tremila prigionieri, mille e cinquecento feriti, mille e
settecento morti. Modeste le perdite britanniche: meno di trecento
morti e settecento feriti, e, quello che più importava, la
squadra del tutto integra. Le guerre napoleoniche proseguirono e
non mancarono altri scontri navali nel Mediterraneo, ma Abukir rimase
lannuncio dellinevitabile sconfitta marittima della
Francia.
Il 20 ottobre 1827, nella baia di Navarino, le squadre riunite inglese,
francese e russa sorpresero quella turco-egiziana e la batterono,
ma intanto tempi e tecnica evolvevano: le navi a vela cominciarono
ad essere gradualmente sostituite da quelle mosse dalla macchina
a vapore e dalle eliche, con scafi in ferro dove fiancate e ponti
venivano ricoperti di corazze, mentre si diffondevano rapidamente
le moderne artiglierie con il nuovo munizionamento e apparivano
i primi congegni per la direzione del tiro.
La prima vera battaglia combattuta tra flotte moderne nelle acque
dellarea mediterranea fu quella del luglio 1866 a Lissa, tra
la flotta dellappena costruita marina italiana (lUnità
è del 1861) e la flotta austriaca, comandata dallammiraglio
Persano e dallammiraglio Tegethoff: per lItalia fu una
sconfitta cui non ci rassegnammo mai.
Ma la marina era appena nata, travagliata da precarie intese tra
i suoi uomini provenienti dalle diverse Marine pre-unitarie, e in
qualche caso minata da palesi ostilità. La dottrina tattica
era scopiazzata da quella francese; le navi, se pur molte moderne,
erano disomogenee e ancora poco avvezze a operare insieme; laddestramento
in combattimento era poco credibile e altrettanto poco affidabile.
La Belle Epoque, con qualche eccezione, fu parca di grandi conflitti.
Per gli affari di casa nostra la conquista (1911-12) della
Libia dette modo alla marina di dare un valido esempio di organizzazione
e di impiego, ma fu anche vero che il nemico navale, turco, fu pressoché
inesistente. Il conflitto navale in Mediterraneo durante la Grande
Guerra fu intenso, ma mancò loccasione della grande
battaglia. La marina italiana attese invano che la flotta austriaca
uscisse in mare aperto per affrontarla e tentare la rivincita di
Lissa. Allora ci inventammo un nuovo tipo di guerra, oltre tutto
congeniale alla nostra indole: quella dei Mas e dei mezzi dassalto,
con cui cogliemmo successi di un certo significato.
Acque morte, acque vive
«Si narra che Poseidon, potente
dio del mare, che con la sua forza proteggeva tutte le creature
marine, abbia concepito una figlia chiamata Posidonia. Era
una bellissima creatura che viveva nei fondali del Mediterraneo,
aveva dei lunghissimi capelli verdi come lo smeraldo, che
con il loro movimento, sospinti dalle correnti, creavano unatmosfera
di fiaba. Posidonia proteggeva tra le sue braccia migliaia
di specie di pesci, i quali trovavano in lei un luogo dove
ripararsi e riprodursi in tranquillità. Posidonia,
attraverso il suo respiro dolce e vitale, produceva tante
bollicine blu, come il mare, di ossigeno da cui tutta la vita
sottacqua trovava la forza di esistere...».
Ma non tutte le favole hanno un lieto fine. Così la
storia di Posidonia prelude ad un finale triste. Infatti,
è una pianta superiore, e non unalga, e sta rapidamente
scomparendo dai fondali del Mediterraneo, creando serissimi
problemi allintero ecosistema marino. Ragioni principali
della distruzione dovute a fattori esterni alla vita del mare:
luso indiscriminato delle reti a strascico, gli ancoraggi
selvaggi, le barriere artificiali per moli, porti e strutture
di vario tipo, lazione degli agenti inquinanti.
Il rischio è altissimo, se si considerino le fondamentali
funzioni che la Posidonia espleta nellecosistema marino.
Questa pianta, infatti, che si estende in praterie ad una
profondità compresa tra le poche decine di centimetri
e i 40 metri, crea un habitat ideale per la conservazione
e la riproduzione di molte specie ittiche; grazie al suo processo
fotosintetico, inoltre, produce gran parte dellossigeno
necessario alla vita del mare, ed evita, con unazione
di rallentamento del moto ondoso, compiuta dalle lunghe foglie
nastriformi, lerosione delle coste (basti pensare che
per ogni metro quadrato di Posidonia andato perduto, si rischia
lerosione di 10-20 metri lineari di arenile).
Una pianta essenziale, dunque, che va salvaguardata dallopera
distruttiva delluomo, anche facendo ricorso alla ricostituzione
di praterie là dove i diversi inquinamenti hanno raso
al suolo, nelle profondità, quelle esistenti.
Margherita di Savoia, Cervia, Trapani...
Specchi dacqua morta, le saline. Bacini sorvegliati
dai mulini a vento, o comunque percorsi dal vento. E
il bianco teatro del sale, un nobile decaduto, che ha trascinato
nel suo tramonto anche la salagione del pesce.
Addio alla salina, dunque? Forse non del tutto. Esiste qualche
speranza di salvezza. Esiste la possibilità di farne
un parco. Esiste (e in Israele è una realtà)
la risorsa di sfruttare gli stagni solari per la produzione
di elettricità. Esiste la possibilità di convertire
i vasi salinanti abbandonati in fattorie marine e in riserve
alimentari perpetue, con lallevamento di specie ittiche
pregiate. Esiste infine la speranza di un risanamento dellindustria
salinifera classica, sempre che si dia corso a una concentrazione
delle caselle in un unico, grandioso giardino del sale,
razionalizzato e finalizzato secondo i più moderni
ritrovati della tecnica.
«Sogni, forse», scriveva in proposito Gesualdo
Bufalino. «Ma quante belle idee e realtà odierne,
sulle quali esiste comune consenso, furono allinizio
nullaltro che sogni?».
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La Seconda Guerra registrò un certo numero di scontri fra
le squadre italiane e britanniche, e alcune grandi operazioni anfibie,
quali quelle del Nord Africa del novembre 42, in Sicilia del
luglio 43 e in Provenza nel 44. Qualcosa di più
fu la battaglia di mezzo giugno 42 con lo scontro di Pantelleria.
Molto di più fu lo scontro di mezzo agosto 42, quando
le operazioni furono finalmente condotte da parte italiana con un
certo coordinamento dei mezzi propri della guerra che avremmo dovuto
condurre: sommergibili, motosiluranti, unità leggere, aerei.
E infatti il successo non mancò.
Da allora, registriamo oltre mezzo secolo di pace, in un mare che
non è, né poteva essere più Nostrum,
e che si dovrà decidere se debba essere trasformato in un
muro o in un ponte. Linstabilità politica riguarda
il Vicino Oriente, al cospetto di un Continente europeo che si va
progressivamente consolidando come Unione, allargata a tutte le
nazioni.
Ma un altro tipo di instabilità minaccia il pacifico sviluppo
delle relazioni tra le diverse sponde del Mediterraneo: laggressività
dellideologia islamica nei confronti dellOccidente e
del Settentrione (del Nord e dellOvest, come si dice in area
coranica), ritenuti a torto responsabili della decadenza delluniverso
musulmano, può portare ancora una volta, come ai tempi dellImpero
Ottomano battuto sotto le mura di Vienna, ad uno scontro tra civiltà.
Il rischio è reale, e non ha per campo il solo Mediterraneo,
ma lintero scacchiere planetario, come hanno dimostrato gli
attacchi contro obiettivi civili, politici e militari negli Stati
Uniti l11 settembre del primo anno del terzo millennio. Due
mondi politici, culturali e religiosi si fronteggiano, potenzialmente
disposti a trasformare le guerre locali con cui si misurano qui
e là in un confronto devastante e genocida. Eppure, a rifletterci
bene, è sempre il Mediterraneo di Ulisse, dei Fenici, degli
Etruschi, dei Greci, dei Romani, dei Faraoni, e delle potenze marinare
di tutti i tempi, a restare un vero e proprio ago della bilancia.
Qui è lincontro-scontro più visibile e diretto
tra teocrazie e democrazie, il posizionamento ravvicinato del detonatore
che può dare un nome allapocalisse. Interi, irripetibili
patrimoni di arte e di civiltà rischiano di trasformarsi
in archeologie sommerse per terra e per mare. Testimonianze di suprema
grandezza della cultura universale rischiano di essere cancellate
dalla più brutale e incomprensibile delle guerre, quella
di religione, o in nome della religione.
Lottusità dellideologia teocratica coniugata
allesercizio del potere antidemocratico può seppellire
in una coltre di rovine millenni di manifestazioni architettoniche,
artistiche, letterarie, che dopo una lunghissima guerra civile hanno
dato allEuropa il primato civile tra Oriente e Occidente.
E nel Mediterraneo che si giocherà, dunque, la partita
per la vita o per la morte, per il muro valicato in armi o per il
ponte valicato con i commerci. E qui che fa ritorno il cuore
del mondo, a palpitare o a pulsare. A battere i tempi della guerra
o quelli della pace, finché il pendolo della storia mediterranea,
nello stesso tempo grande e tragico, si fermerà, segnando
il destino del futuro del Mare Nostrum, cioè
delluniverso terracqueo.
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