Settembre 2002

COLLANA DI STUDI SULLA CIVILTÀ MEDITERRANEA

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Otranto di Donato Moro
Gino Pisanò
 
 

Dalla magnifica edizione congediana, Hydruntum. Fonti documenti e testi sulla vicenda otrantina del 1480, riportiamo la “Nota del curatore”, Gino Pisanò, amico fraterno dell’Autore e custode di tutte le sue “carte” letterarie.

 

Gli studi di Donato Moro (Galatina 1924-1997) che qui si pubblicano, rieditati nei due tomi di un unico volume, sono il frutto della sua vita spesa nella ricerca storico-culturale, nella cura filologica di testi legati all’Umanesimo meridionale, nella lettura critica delle dinamiche ideologico-formali sottese allo sviluppo dell’Età moderna, attività, queste, tutte riconducibili a un filo ideale, a un unico tema, a un preciso e concreto “luogo” della storia: Otranto.
Trattasi di numerosi contributi, fra saggi e articoli, scritti in un arco temporale compreso fra il 1971 e il 13 agosto 1996, data che rappresentò, per l’amico perduto, l’inizio di un calvario che si concluse con la morte. Amico, per me (volle affidarmi tutte le sue carte letterarie), ma anche “maestro e donno” di vita e di pensiero, sicché la pubblicazione postuma dei suoi studi di matrice idruntina, fortemente voluta dalla pietas di Maria Marinari, sua generosa e mitissima consorte, rappresenta il saldo di un debito d’affetto cui giova l’oraziano tu calentem / debita sparges lacrima favillam / vatis amici. Sì, dell’amico poeta. Ché Donato coltivò due grandi amori: quello per la “sua” Otranto e quello per la poesia. Quest’ultimo, forse, lo intrigò di più, perché misura e segno della sua umanità, dei suoi tormenti interiori.
Ma la vicenda idruntina del 1480-‘81, universalmente nota per il cruento epilogo dovuto ai turchi, rappresentò il terreno di una milizia critico-storico-filologica dal carattere strenuo, appassionato, direi sofferto per energie intellettuali e fisiche profuse, per “duelli’’ cui non sempre l’amicizia fece velo, per inconcussa ricerca della verità documentale cui egli subordinò ogni sentimento, ogni enfasi retorico-celebrativa, ogni moto di umana o campanilistica simpatia.

Rigore scientifico e certezza filologica lo condussero negli archivi ad esplorare o a ritrovare testimonianze di fonti inedite o rare, di altre, talora, note, ma contraffatte da interpolazioni erudite o celebrative seriori, donde la loro collazione e cura prodotte con acuminata perizia, con animo equo, con sudditanza a un solo valore: il vero.
I fatti di Otranto comportavano (e comportano) implicazioni e problematiche coese alla storia italiana, europea, mediterranea, in bilico, per oltre un decennio e per il sorgere dell’Impero ottomano sulle ceneri del Bizantino, fra il crepuscolo del Medioevo e l’aurora dell’Età moderna, donde lo slargarsi dell’orizzonte regionale fino a comprendere quello di altre città (Napoli, Firenze, Ferrara, Venezia, Roma) di polare grandezza nel quadrante storico-politico d’Italia allo snodo tra Quattro e Cinquecento.
Il lettore si moverà, infatti, entro coordinate che convocano letteratura e società per i riflessi che la seconda produsse sulla prima, nonché per l’eclatanza che l’eccidio di Otranto ebbe nelle corti, negli intellettuali, nell’immaginario collettivo dei popoli e, infine, nella sfera del sacro.
Ripubblicare e unire insieme gli studi di Donato Moro, in quest’ordine di cose, non significa solo onorare d’«umane lodi e d’amoroso pianto» un salentino che amò la sua terra oltre la storia, fino a farne un archetipo materno nella propria poesia (Segni nostri, l993), ma anche offrire agli studiosi di storia patria, nazionale ed europea uno strumento completo e complesso per i molteplici risultati che qui si ordinano in un quadro unitario e cronologicamente definito.
Tutta la vicenda idruntina è, infatti, compresa in queste pagine ricche di documenti e di citazioni bibliografiche indispensabili per chi voglia misurarsi ancora con essa.
La mia cura si è limitata a pochi, ma necessari interventi. Ho uniformato le citazioni senza, però, eliminare alcune ripetizioni bibliografiche, poiché ogni saggio mantiene (anche in considerazione dei tempi diversi di sua stesura) una propria autonomia, ancorché tematicamente legato agli altri. Ho inserito le parentesi quadre ove richiesto, ho normalizzato gli accenti, ho eliminato precedenti refusi, ho lievemente riorganizzato la punteggiatura, ho adottato i corsivi ove necessario, ho razionalizzato, secondo vigenti criteri, la virgolettatura, ho ridotto l’uso delle maiuscole, mantenendole intatte, invece, nelle fonti citate e diplomaticamente trascritte da Moro, ho raccolto nel secondo tomo gli scritti di carattere divulgativo o di minor spessore (articoli, note, recensioni, commemorazioni), sicché ho riservato al primo gli studi più scientificamente probanti.
Pertanto, può accadere al lettore di imbattersi in valutazioni contrastanti circa personaggi o documenti citati dall’autore e riportati in entrambi i tomi. Ciò è dovuto alle progressive conclusioni cui egli, man mano, cronologicamente, pervenne. Emblematico, in questo senso, il giudizio sul Coniger, positivo nel secondo tomo, ma negativo, poi, nel saggio critico che ne esplora con più marcata coscienza critico-filologica la validità come fonte.

Medesima problematica per la Relazione d’Acello (copia ms. in cod. 2350 della “Casanatense” di Roma) e il Rimaneggiamento otrantino (Relazione fatta dal segretario di Ferdinando a’ Prencipi d’Italia) dato alle stampe dallo Scherillo nel 1875. I due testi, già in appendice a Otranto nel 1480-81. Due preziose fonti fra le più antiche mai fino ad oggi individuate come tali, in “Studi di storia e cultura salentina”, Maglie, Società di storia patria per la Puglia, 1978, pp. 99-160, sono stati qui espunti dall’omonimo saggio perché l’intera Appendice risultava superata dal successivo intervento filologico-testuale operato dall’autore in La relazione d’Acello e il suo Rifacimento otrantino con nuova Appendice, dove, finalmente, Moro raggiunge e propone una lectio definitiva. Da qui la necessità di riprodurre anastaticamente l’intero materiale documentario (ossia i testi restaurati), mantenendo intatti e inalterati anche i grafici dello stemma codicum realizzati nell’originale onde evitare dispersioni o confusioni circa la numerazione delle pagine che Moro citò nelle sue note riferendosi ai numeri di esse, qui, invece, modificati per ovvie ragioni editoriali (formato, corpo, giustezza, ecc.). Per risolvere il problema, ho preferito assegnare alla “seconda” Appendice, (pp. 200-223 I t.) una duplice serie numerica inserendo in parentesi quadre quella originaria.
Così, anche, accadrà che il lettore osservi citato il Lagetto con geminazione dell’occlusiva velare sonora in un primo tempo della produzione di Moro, ossia fino a quando egli non pervenne alla lectio ultima, che superava la precedente (Laggetto) sulla base del primo Liber dei battezzati (da lui compulsato nella cattedrale di Otranto) manoscritto a partire dal 1570. Tali conclusioni sono leggibili nel secondo tomo sotto il titolo Un’annotazione otrantina del 1571 attesta vivente Giovanni Michele Lagetto, articolo già pubblicato sul “Galatino” del 22 febbraio 1979.
Ciò si è fatto per meglio organizzare tutto il processo ermeneutico-filologico di Moro, saldandolo nei suoi punti nodali e rappresentandolo in una sostanziale diacronia, come accade, infatti, per i tre studi (I Diari di Messer Cardami; Le Cronache di Messer Antonello Coniger; Il Liber de situ Japygiae (1512-1513) di Antonio de Ferrariis Galateo (...) peraltro “interno” alla questione galateana) qui progressivamente disposti secondo uno schema già attuato da Moro che li legò in un unico saggio, accorpando anche un quarto (la citata Relazione) e un quinto (La tradizione storiografico-documentaria otrantina nel corso del Cinquecento) sotto l’unitario titolo di Fonti salentine sugli avvenimenti otrantini del 1480-81.

Il secondo tomo, come ho già detto, raccoglie studi che, comunque, sarebbe ingiusto definire, stricto sensu, “minori”, anche se caratterizzati da un intento divulgativo, perciò prodotti in forma godibile, sì da raggiungere anche il lettore non specialista. Questo pur lodevole carattere di paideia ha rappresentato il principio cui mi sono attenuto nel separarli dagli altri. Lodevole perché Moro volle affidare a quest’ultimo aspetto della sua scrittura il distillato della sua ricerca, offrendola alla visibilità altrui quasi vetta di iceberg, talché lo stile è quasi cordiale e disteso, direi riposato, mentre nella produzione strettamente scientifica esso s’era fatto più austero, talora tecnicistico, per l’acerrima battaglia filologica, inesausta e, qualche volta, polemica. Insomma, i due tomi sono la tangibile evidenza del duplice registro comunicazionale adottato da Moro, epperò si illuminano, mi pare, di reciproca luce, perfettamente integrandosi...

   
   
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