Sullo sfondo, una storia millenaria,
una storia rappresa in immagini
associate per
simboli dettati dalla intelligenza
del cuore.
|
|
Con questa non ultima, ma postrema silloge di versi (dopo Come
fanciulli, 1965; Di giorno in giorno, 1997) dal titolo Terra, e
madre dove saccampano liriche vergate fra il 1997 e il 2002,
Salvatore Bello, sacerdote e poeta, si ripresenta al pubblico dei
lettori con voce sommessa, secondo il suo costume, ma ricca di implicazioni
tematiche e stilistiche che ne fanno una testimonianza solida e
pregnante nel panorama letterario del Novecento salentino. Non cè
una lirica che non intrighi il lettore per via di quella continuità
tonale che aggrega intorno a sé unaltrettanto continua
ricerca di senso lungo il solco aperto dal titolo, di per sé
semantico dellintenzione. E detto senso si precisa come mondo
della storia, del quotidiano, della vita da recuperare nelle sue
essenze profonde e primordiali attraverso il solo sentiero possibile:
la poesia.
Terra, e madre appare sintagma epifrastico da intendersi analogicamente
sinonimico fino allidentità assoluta dei due semantemi
nei quali si risolve, in endiadi, il postulato dellarchetipo
materno nella sua proiezione tellurica, fisica e, in definitiva,
storico-esistenziale. La dimora vetero-salentina, vitale per segni
animici, folklorici, antropologici risulta liofilizzata da entità
territoriale, asettica e concreta, in fantasma di pianto e di amore,
nel quale si intersecano autoctonia di radici e identità
geoantropica. Sullo sfondo, una storia millenaria, medesima nei
suoi segni paesaggistici e umani, oggi perduti o in via di estinzione
a fronte di processi omologanti e mistificatori, una storia rappresa
in immagini associate per simboli dettati dall intelligenza
del cuore. Voce non nuova, certamente, nel plesso lirico-ideologico
della dimora di matrice meridionale (e non solo, se
si pensi soltanto a Pasolini, a Pavese, a Caproni, ai fiorentini
anni Trenta del Calendario, poi frontespiziani, e ad
altri fioriti lungo largine, ormai remoto, idillico-leopardiano
e carducciano-pascoliano) ove si stagliano esemplarmente Quasimodo
e Gatto, Bodini e Sinisgalli, Pierro e Gatti, senza citare la galassia
di epigoni e minori, fino ai contubernali Moro e Romano, ma voce
certamente originale per esiti formali e linguistici, nonché
per temi distesi in una dorsale poetica sorretta da uninsospettabile
(in un poeta non letterato di professione) coscienza letteraria.
La quale si palesa nellaccurata selezione degli istituti retorici
impiegati con sottile cura a beneficio di strutture verbali spesso
iperbatiche, intrise di assonanze e rade rime lontane, talora giocate
sul discordo fonematico sdrucciolo-piano (timida-annida) o melicamente
coese da fonotipi coerenti con lassunto ideologico.
Si osservi, ad esempio, limpianto vocalico che trapunta la
lirica S. Mauro di Gallipoli. Vi si indovina la notte rischiarata
dalla luna, simbolo infero-funerario dalla forte connotazione misterica,
«tonda e rossa», dittologia assonanzata che semantizza,
col suo vocalismo, stupore per la sacertà arcana dellevento,
sicché consegue una serialità di suoni offerti da
vocali chiuse (le i e le u) in funzione di risonanze interiori che
cospirano a sonorizzare il brivido sotteso al mistero: spii timida,
collina, damigella, civetta, il via libera, annida, scogli, cui
fanno pendant le cupe u toniche di ruvido, ultimo, annuncia, dominante
lanimismo magico di antica ascendenza esperia qui simbolizzato
dalla civetta, notturna-sepolcrale ancella della luna-proserpina
regina degli inferi. Paesaggio riscritto e perciò assoluto
che evoca, alla lontana, pascoliane suggestioni (il chiù
dellAssiuolo), nella sua autonomia evocante scenari monastico-bizantini
(S. Mauro) morti al tempo, non alla storia dellanima. Stupore
è parola-chiave, come ruvido balcone è perfetta analogia
iconico-sinonimica dei ruderi claustrali.
Oppure, la lirica in limine, ossia Cè terra e terra,
dove il raddoppiamento copulativo-disgiuntivo si finalizza a manifesto
dellidentità precisata nel corpo verbale da semi di
natura terragna, arida, sitibonda: polvere, sassi, recessi, silenzi,
tracce doscure fatiche, cavi tronchi, cocci rossi, ciotole,
pipe, selci, ossi di capra, vecchi. Paesaggio danima, perciò
umano e fraternale (non occorre scomodare Saba o il Betocchi del
Vetturale) ossessivo nella sua rassegna enumerativa di oggettistica
simbolica (quasi correlativa) del senso interiore di siccitosa,
secolare desertificazione di speranze inevase, medesima nei suoi
tratti canonici sonorizzati da scontri consonantici aspri e chiocci,
egemoni le occlusive velari sorde spesso raddoppiate (es. Cè,
traCCe, CoCCi, Cavi, Ciotole, aCCumulate, selCi) o le sibilanti
geminate (SaSSi, receSSi, roSSi, oSSi) a supporto di similari, striscianti
effetti melici offerti dallemistichio eponimo (teRRa e teRRa)
dove il nesso quadruplice della liquida vibrante rinterza il peso
e la distanza dellelemento fisico (la terra salentina) da
altro spazio geografico ed esistenziale. Notevole luso del
polisindeto che amplifica e dilata il confine orizzontale (e sassi
e
recessi
e fonti e fronde e tracce), contigua lellissi
del predicato esibito, al singolare, solo in incipit («Cè»)
dal quale, per sillessi, il lungo ordine di nominativi espansi in
strutture completive. Sinestetico il nesso «oscure fatiche»
emerse da esiodei destini di dannazione al lavoro georgico, contumaci
le capre morte e «spolpate» nelle sere di «feste
comandate», mentre i vecchi, novelli Sisifi, paghi di tristezze,
si mutano in omerici rapsodi di gesta e canti di iddii minori.
Antropologia di derivazione iapigia, ormai espunta dalla storia
economica e politica del Salento, che qui sopravvive a conferma
del carattere trascendentale della poesia che universalizza non
le cose, ma le essenze atemporali, impalpabili, segrete delle cose.
E di tutto ciò Salvatore Bello ha piena coscienza. Si legga
Quasi fili derba, momento epilinguistico, dove egli riflette,
metapoeticamente, sulle ragioni e sul destino del suo canto, similato
al filo derba, che a forza spunta dalla terra arsa, orlando,
fatuo, nel crepuscolo dei giorni quasi vuoti e senza senso, il perimetro
della chianca, qui correlativo oggettivo di un peso interiore, di
unaccidia che assume le fattezze della pena. Segue il rifiuto
della poesia come vanità, come puro e paludato esercizio
retorico questuante un «autorevole parere», ma anche
come schema letterario dimidiato fra realtà e simbolo (v.
5). Poesia che tra «labile memoria e amnesia totale»
può risolversi in illusione o disinganno (il «frutto»
e il «fiore»), ma che si propone come il «verde»
di «vile erba mediterranea», ossimoricamente «mortale
e vivissimo» che, in allitterazione, «allerta a non
disertare» ancorché incombenti il «seccore»,
lo «squallore» del nulla e della morte. Si osservi,
anche, nellultimo verso il ricorso a un ordo verborum caratterizzato
da epifrasi e da sillessi. Lirica-manifesto, metapoesia, epilinguismo.
Ecco la traccia della segreta educazione letteraria di questo poeta
non epigonale, ma autonomo nella dimensione emotiva e nella ricerca
di una parola poetica tutta sua.
S. MAURO DI GALLIPOLI
La luna
che saffaccia tonda e rossa
al ruvido balcone
di S. Mauro alla collina,
pare spii timida,
lannuncia, damigella,
la civetta amica,
le dà il via libera
lultimo stormo che sannida;
piú in alto
appanna le luci del villaggio,
un tizio romantico per scogli
la saluta bella signora, buona sera;
si vela di nube chiara
luna piena di stupore
allinattesa cortesia.
|
Sulla stessa lunghezza donda Parola, dove si risillaba uno
statuto poetico (aderente «al senso, alla misura [
]
contro il tempo [le mode letterarie] conquistati») nel conativo
«sta [
] al tuo posto», dal quale «ala dopo
ala» il poeta attingerà «una zolla minuscola
di cielo» fatto di «grazia» e di «mistero».
Donde la funzione della poesia come solacium, nata dal ludo letterario
e dal canto cordiale («versi, un po per gioco / un po
per canto», in Cuore di rospo) nel botro della vita, dove,
come in Sbarbaro, «mare è il mare, rospo è il
rospo / fiore è il fiore». Insomma, gotica nudità
di essenze liberate al ventilabro della verità «dalla
voce di poeti» che vegliano «i morti / partoriti da
tirannie ed arbitri / entro un recinto dantico mare [il Salento]
/ radente palafitta» che «ci balbetta sillabe di gioia»
alla risacca lenta del dolore (Il tacco a Sud).
Terra e madre. Sinonimi, dicevo prima. Ma la mater dolorosa (e reale)
del poeta si fa poetico lemure risorgendo, grazie allarte,
dalla stanza «vuota», universo larico condiviso con
«sei vacche» sororali, «beddhe / come le sei stelle
della T di Teresina», il padre, a latere, fissando
sopra il muro («cadenti glintonaci») «a
lapis o a carbone i conti del tabacco, / il dare e lavere
dei giorni di vendemmia» (in Ritorno). E poi
«fichi
e gelsi / la carrara a cicoreddhe creste ai bordi», mentre
«tonfa il cuore al calpestio».
Si osserverà, leggendo questi scampoli, il carattere colloquiale,
antiretorico, dimesso della voce del poeta. Tutto sembra detto al
naturale. Eppure, a ben guardare, quanta tecnica compositiva. A
cominciare dalle strutture sintattiche, spesso ablativali e assolute
(«cadenti glintonaci»), nominali («il ritorno
nella stanza della madre / un universo vuoto»), disgiunte,
per la mesta armonia che rompe lenjambement, usato non in
funzione lirica tout-court, ma per fratturare ogni abbandono sentimentale,
per rompere ogni indugio nelle dimore di un canto non virile.
Giova, allo scopo sapientemente mirato da Bello, il frequente ricorso
a inserti prelinguistici distribuiti a pioggia nel tessuto postlinguistico
che la coscienza letteraria ha elaborato. Per prelinguismo qui si
intenda ladozione di stilemi e lemmi vernacolari a flash,
che balenano dai precordi memoriali, quasi sigilli che esplodono
liberandosi come meteoriti nel buio luminoso della parola poetica,
emersa dalla dinamica della sua metamorfosi. Resistono ad essa metamorfosi,
sacralizzandosi nellinfratesto: chianca, cuntegnuse beddhe,
carrara, massaro, vora, cozzepinte, monicelle, òmmani, pentuma,
terra mara, tumu, ricula, recumeterna, terre scapule, scerse, ecc.
Giustapposti lessemi in lingua, ma in corsivo, pregnanti per intime
risonanze realistiche e antropico-sociali (es. «feste comandate»,
«libro del comando») allusivi di funzioni servili a
fronte del potere iconizzato nella figura del «massaro».
Plurilinguismo, si direbbe. Diglossia. Ma, forse e più semplicemente,
recupero di purezze ancestrali sedimentate nei recessi della memoria
e dissepolte dalla forza evocatrice del conato lirico e fantastico.
Anche in questo si epifanizza la terra-madre, in codesta oralità
primigenia fusa con i corrugati lineamenti di una piccola ecumene
estranea ai terremoti («non tremi»), alle alluvioni
(«non dilaghi») e, un tempo, alla violenza («non
uccidi») della guerra. Insomma «celeste sito».
Questo il Salento del poeta, cantato, non senza qualche enfasi liturgico-oleografica,
nellomonima lirica, quasi una canzone in forma di unica lassa,
libera nei versi e nella struttura, chiusa da un congedo dove campeggia
unapostrofe poi eponima dellintera raccolta: «Terra,
e Madre tu, pia / mi ritrarrai nel grembo».
Al di là degli esiti artistici, risalta il complesso ordito
di figure retoriche e di ricercatezze stilistiche incentrate sugli
effetti melici di rime interne, ricche e ridondanti
(es. lamento, tormento, vento), o baciate (brezza-carezza) o ipermetre
(spezzata) fonosimboliche, nel loro consonantismo aspro e cozzante,
del «seccore» (hapax in Quasi fili derba) di una
spazialità petrosa (si osservi il poliptoto: «pietre,
sulle pietre») e ruvida come le «forti mani» che
ne sterrano la «schiena».
E nel segno delle serre salentine, nella cui «schiena spezzata»
si ipostatizzano quelle dei loro figli di una volta («i vecchi
forèsi» di Cè terra e terra), «zappa
e polmoni tra le mani (in I quattro cipressi, dedicata al padre),
fa capolino, nella luce tenera e soffusa del tramonto, il pensiero
della morte. Terra-Madre-Morte i connettivi del tessuto ideologico
macrotestuale. Appartengono a pieno titolo a questo trittico le
seguenti liriche: Il sentiero inclina; La pèntuma (ricca
di segni ormai canonici, intrinseci, ad esempio, allerbario
e al bestiario di Donato Moro cui è dedicato un lungo frammento:
papaveri, lombrichi, cozzepinte, monicelle, zappe, aratri, buoi,
cavalli, pane scuro, pomodoro acerbo), Terrarossa terranera, dove
affiorano, integrandosi, folklore e sacro («a novene, nelle
chiese, ai santi»), al pari di Cantilena per S. Anna, Fermata
a S. Barbara, Belle occhi neri (tarantismo e
dintorni), Finché
agosto passerà e, più avanti, Lumi ad olio, mentre
in un orizzonte slargato, lontano dalle piccole mura, si iscrive
il trittico: Salento-Milano, Brume di Stoccolma, Oltre per il mondo.
Le altre sezioni (Intra moenia, I vecchi dietro i vetri, Chiare
nubi) si presentano meno legate al tema dominante nella prima (la
terra-madre) e risultano strutturate secondo uno schema politematico
nel quale spesso irrompe un canto di religioso amore (A Te; Lampade)
o di tristezza esistenziale (Dolore, Lasciami morire) o di ultraterrena,
salvifica attesa di una Terra promessa, ma non ancor posseduta.
Qui si segnalano, per mia contiguità di affetti e di memorie,
le liriche A Donato Moro e Di chi la voce, dedicata a Lucio Romano.
Non senza omettere un breve cenno alla ungarettiana
Madre immeritata, poesia-preghiera che coniuga tempo ed eternità.
Sempre casto e sorvegliato lo stile, forse più aderente,
nelle ultime sezioni, a una maggiore maturità poetica per
più amabile, immediata e discorsiva armonia.
terra, e
madre
CÈ TERRA E TERRA
Cè terra e terra, dove
polvere
e sassi, silenzi e recessi;
e dove fonti e fronde
e tracce doscure fatiche:
i cavi nei tronchi degli ulivi,
i cocci rossi di ciotole e pipe,
le selci nei campi accumulate
con ossi di capra spolpati le sere
delle feste comandate, ed echi
di stornelli cantati da vecchi forèsi.
QUASI FILI DERBA
Rispunti a versi quasi fili derba
così da un crepuscolo allaltro,
ed orli di verde, fatuo, la chianca
della pena; non ti so, poesia,
né realtà né emblema, meno ancora
verità o autorevole parere, se mai
pietosa ipocrisia a simulare
una ragione di pertinenza alla vita;
se risecchisce la tua pianta, in me
un oscillare tra labile memoria
ed amnesia totale, a illudere
chi cerca il frutto sulla cima,
deludere chi la trova depredata
anche del suo fiore. O tu sei,
poesia, di questerba mediterranea vile
il verde, mortale e vivissimo,
che allerta a non disertare allora
che il seccore incombe e lo squallore.
PAROLA
Parola, non ti chiedo
dumiliarti, strisciarmi ai piedi,
sta, e io ti lascio, al tuo posto di nobiltà,
al senso alla misura che ti sei
nel tempo e contro il tempo conquistati;
se da te saprò trarre immagine o pensiero,
ala dopo ala decolleremo
in una zolla minuscola di cielo
intorno a noi di grazia, di mistero.
IL RITORNO
Il ritorno nella stanza della madre
un universo vuoto, cresciutovi
buono per la terra e a mungere
sei vacche cuntegnuse beddhe
come le sei stelle della T di Teresina;
cadenti glintonaci, il padre vi fissava
a lapis o a carbone i conti del tabacco,
il dare e lavere dei giorni di vendemmia;
di chi il podere col suo archetto
a olivi, lincavo di fichi e gelsi,
la carrara a cicoreddhe creste ai bordi
Tonfa il cuore al calpestio sulle chianche
annerite e rotte, da crepe della volta
a botte soffia una nenia, sarà
il tempo remoto
che urge ancora.
CUORE DI ROSPO
Versi un po per gioco un po
per canto,
voci semplici, mare è il mare, rospo
è il rospo, fiore è il fiore, così:
su una foglia il rospo
teme a distanza il mare, e il ventre
gli si gonfia nel rivo in piena,
in bocca un fiore di stagno cui si tiene.
Si direbbe ben gli sta temere,
visto chè un rospo, senza cuore,
fosse un topino
Poetica,
sai che ti dico, salutiamoci,
senza rancore.
LA PÈNTUMA
Dalle sue bocche sparse fiori
di papavero, piogge di stagione
e la sbavano cozzepinte,
la scalano lombrichi e monicelle
la grande selce in odio a zappe e aratri
ai tempi di buoi e cavalli, rissavano
òmmani e bestie ed era vita.
Terre scàpule terre scerse,
un torso nudo, uno,
curvo a sterro di múscari,
e su una pèntuma del pendio japigio
un forèse, uno, strizza su un pane scuro
un pomodoro acerbo.
|
|