Dicembre 2002

NEI VERSI DI SALVATORE BELLO

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Terra, e madre
Gino Pisanò  
 
 

 

 

 

Sullo sfondo, una storia millenaria,
una storia rappresa in immagini
associate per
simboli dettati dalla intelligenza
del cuore.

 

Con questa non ultima, ma postrema silloge di versi (dopo Come fanciulli, 1965; Di giorno in giorno, 1997) dal titolo Terra, e madre dove s’accampano liriche vergate fra il 1997 e il 2002, Salvatore Bello, sacerdote e poeta, si ripresenta al pubblico dei lettori con voce sommessa, secondo il suo costume, ma ricca di implicazioni tematiche e stilistiche che ne fanno una testimonianza solida e pregnante nel panorama letterario del Novecento salentino. Non c’è una lirica che non intrighi il lettore per via di quella continuità tonale che aggrega intorno a sé un’altrettanto continua ricerca di senso lungo il solco aperto dal titolo, di per sé semantico dell’intenzione. E detto senso si precisa come mondo della storia, del quotidiano, della vita da recuperare nelle sue essenze profonde e primordiali attraverso il solo sentiero possibile: la poesia.

Terra, e madre appare sintagma epifrastico da intendersi analogicamente sinonimico fino all’identità assoluta dei due semantemi nei quali si risolve, in endiadi, il postulato dell’archetipo materno nella sua proiezione tellurica, fisica e, in definitiva, storico-esistenziale. La dimora vetero-salentina, vitale per segni animici, folklorici, antropologici risulta liofilizzata da entità territoriale, asettica e concreta, in fantasma di pianto e di amore, nel quale si intersecano autoctonia di radici e identità geoantropica. Sullo sfondo, una storia millenaria, medesima nei suoi segni paesaggistici e umani, oggi perduti o in via di estinzione a fronte di processi omologanti e mistificatori, una storia rappresa in immagini associate per simboli dettati dall’ “intelligenza del cuore”. Voce non nuova, certamente, nel plesso lirico-ideologico della “dimora” di matrice meridionale (e non solo, se si pensi soltanto a Pasolini, a Pavese, a Caproni, ai fiorentini anni Trenta del “Calendario”, poi frontespiziani, e ad altri fioriti lungo l’argine, ormai remoto, idillico-leopardiano e carducciano-pascoliano) ove si stagliano esemplarmente Quasimodo e Gatto, Bodini e Sinisgalli, Pierro e Gatti, senza citare la galassia di epigoni e minori, fino ai contubernali Moro e Romano, ma voce certamente originale per esiti formali e linguistici, nonché per temi distesi in una dorsale poetica sorretta da un’insospettabile (in un poeta non letterato di professione) coscienza letteraria. La quale si palesa nell’accurata selezione degli istituti retorici impiegati con sottile cura a beneficio di strutture verbali spesso iperbatiche, intrise di assonanze e rade rime lontane, talora giocate sul discordo fonematico sdrucciolo-piano (timida-annida) o melicamente coese da fonotipi coerenti con l’assunto ideologico.
Si osservi, ad esempio, l’impianto vocalico che trapunta la lirica S. Mauro di Gallipoli. Vi si indovina la notte rischiarata dalla luna, simbolo infero-funerario dalla forte connotazione misterica, «tonda e rossa», dittologia assonanzata che semantizza, col suo vocalismo, stupore per la sacertà arcana dell’evento, sicché consegue una serialità di suoni offerti da vocali chiuse (le i e le u) in funzione di risonanze interiori che cospirano a sonorizzare il brivido sotteso al mistero: spii timida, collina, damigella, civetta, il via libera, annida, scogli, cui fanno pendant le cupe u toniche di ruvido, ultimo, annuncia, dominante l’animismo magico di antica ascendenza esperia qui simbolizzato dalla civetta, notturna-sepolcrale ancella della luna-proserpina regina degli inferi. Paesaggio riscritto e perciò assoluto che evoca, alla lontana, pascoliane suggestioni (il chiù dell’Assiuolo), nella sua autonomia evocante scenari monastico-bizantini (S. Mauro) morti al tempo, non alla storia dell’anima. Stupore è parola-chiave, come ruvido balcone è perfetta analogia iconico-sinonimica dei ruderi claustrali.
Oppure, la lirica in limine, ossia C’è terra e terra, dove il raddoppiamento copulativo-disgiuntivo si finalizza a manifesto dell’identità precisata nel corpo verbale da semi di natura terragna, arida, sitibonda: polvere, sassi, recessi, silenzi, tracce d’oscure fatiche, cavi tronchi, cocci rossi, ciotole, pipe, selci, ossi di capra, vecchi. Paesaggio d’anima, perciò umano e fraternale (non occorre scomodare Saba o il Betocchi del Vetturale) ossessivo nella sua rassegna enumerativa di oggettistica simbolica (quasi correlativa) del senso interiore di siccitosa, secolare desertificazione di speranze inevase, medesima nei suoi tratti canonici sonorizzati da scontri consonantici aspri e chiocci, egemoni le occlusive velari sorde spesso raddoppiate (es. C’è, traCCe, CoCCi, Cavi, Ciotole, aCCumulate, selCi) o le sibilanti geminate (SaSSi, receSSi, roSSi, oSSi) a supporto di similari, striscianti effetti melici offerti dall’emistichio eponimo (teRRa e teRRa) dove il nesso quadruplice della liquida vibrante rinterza il peso e la distanza dell’elemento fisico (la terra salentina) da altro spazio geografico ed esistenziale. Notevole l’uso del polisindeto che amplifica e dilata il confine orizzontale (e sassi…e recessi…e fonti e fronde e tracce), contigua l’ellissi del predicato esibito, al singolare, solo in incipit («C’è») dal quale, per sillessi, il lungo ordine di nominativi espansi in strutture completive. Sinestetico il nesso «oscure fatiche» emerse da esiodei destini di dannazione al lavoro georgico, contumaci le capre morte e «spolpate» nelle sere di «feste comandate», mentre i vecchi, novelli Sisifi, paghi di tristezze, si mutano in omerici rapsodi di gesta e canti di iddii minori.
Antropologia di derivazione iapigia, ormai espunta dalla storia economica e politica del Salento, che qui sopravvive a conferma del carattere trascendentale della poesia che universalizza non le cose, ma le essenze atemporali, impalpabili, segrete delle cose.
E di tutto ciò Salvatore Bello ha piena coscienza. Si legga Quasi fili d’erba, momento epilinguistico, dove egli riflette, metapoeticamente, sulle ragioni e sul destino del suo canto, similato al filo d’erba, che a forza spunta dalla terra arsa, orlando, fatuo, nel crepuscolo dei giorni quasi vuoti e senza senso, il perimetro della chianca, qui correlativo oggettivo di un peso interiore, di un’accidia che assume le fattezze della pena. Segue il rifiuto della poesia come vanità, come puro e paludato esercizio retorico questuante un «autorevole parere», ma anche come schema letterario dimidiato fra realtà e simbolo (v. 5). Poesia che tra «labile memoria e amnesia totale» può risolversi in illusione o disinganno (il «frutto» e il «fiore»), ma che si propone come il «verde» di «vile erba mediterranea», ossimoricamente «mortale e vivissimo» che, in allitterazione, «allerta a non disertare» ancorché incombenti il «seccore», lo «squallore» del nulla e della morte. Si osservi, anche, nell’ultimo verso il ricorso a un ordo verborum caratterizzato da epifrasi e da sillessi. Lirica-manifesto, metapoesia, epilinguismo. Ecco la traccia della segreta educazione letteraria di questo poeta non epigonale, ma autonomo nella dimensione emotiva e nella ricerca di una parola poetica tutta sua.

S. MAURO DI GALLIPOLI

La luna
che s’affaccia tonda e rossa
al ruvido balcone
di S. Mauro alla collina,
pare spii timida,
l’annuncia, damigella,
la civetta amica,
le dà il via libera
l’ultimo stormo che s’annida;

piú in alto
appanna le luci del villaggio,
un tizio romantico per scogli
la saluta “bella signora, buona sera”;
si vela di nube chiara
luna piena di stupore
all’inattesa cortesia.

Sulla stessa lunghezza d’onda Parola, dove si risillaba uno statuto poetico (aderente «al senso, alla misura […] contro il tempo [le mode letterarie] conquistati») nel conativo «sta […] al tuo posto», dal quale «ala dopo ala» il poeta attingerà «una zolla minuscola di cielo» fatto di «grazia» e di «mistero». Donde la funzione della poesia come solacium, nata dal ludo letterario e dal canto cordiale («versi, un po’ per gioco / un po’ per canto», in Cuore di rospo) nel botro della vita, dove, come in Sbarbaro, «mare è il mare, rospo è il rospo / fiore è il fiore». Insomma, gotica nudità di essenze liberate al ventilabro della verità «dalla voce di poeti» che vegliano «i morti / partoriti da tirannie ed arbitri / entro un recinto d’antico mare [il Salento] / radente palafitta» che «ci balbetta sillabe di gioia» alla risacca lenta del dolore (Il tacco a Sud).
Terra e madre. Sinonimi, dicevo prima. Ma la mater dolorosa (e reale) del poeta si fa poetico lemure risorgendo, grazie all’arte, dalla stanza «vuota», universo larico condiviso con «sei vacche» sororali, «beddhe / come le sei stelle della “T di Teresina”», il padre, a latere, fissando sopra il muro («cadenti gl’intonaci») «a lapis o a carbone i conti del tabacco, / il dare e l’avere dei giorni di vendemmia» (in Ritorno). E poi… «fichi e gelsi / la carrara a cicoreddhe creste ai bordi», mentre «tonfa il cuore al calpestio».
Si osserverà, leggendo questi scampoli, il carattere colloquiale, antiretorico, dimesso della voce del poeta. Tutto sembra detto al naturale. Eppure, a ben guardare, quanta tecnica compositiva. A cominciare dalle strutture sintattiche, spesso ablativali e assolute («cadenti gl’intonaci»), nominali («il ritorno nella stanza della madre / un universo vuoto»), disgiunte, per la mesta armonia che rompe l’enjambement, usato non in funzione lirica tout-court, ma per fratturare ogni abbandono sentimentale, per rompere ogni indugio nelle dimore di un canto non virile.
Giova, allo scopo sapientemente mirato da Bello, il frequente ricorso a inserti prelinguistici distribuiti a pioggia nel tessuto postlinguistico che la coscienza letteraria ha elaborato. Per prelinguismo qui si intenda l’adozione di stilemi e lemmi vernacolari a flash, che balenano dai precordi memoriali, quasi sigilli che esplodono liberandosi come meteoriti nel buio luminoso della parola poetica, emersa dalla dinamica della sua metamorfosi. Resistono ad essa metamorfosi, sacralizzandosi nell’infratesto: chianca, cuntegnuse beddhe, carrara, massaro, vora, cozzepinte, monicelle, òmmani, pentuma, terra mara, tumu, ricula, recumeterna, terre scapule, scerse, ecc. Giustapposti lessemi in lingua, ma in corsivo, pregnanti per intime risonanze realistiche e antropico-sociali (es. «feste comandate», «libro del comando») allusivi di funzioni servili a fronte del potere iconizzato nella figura del «massaro». Plurilinguismo, si direbbe. Diglossia. Ma, forse e più semplicemente, recupero di purezze ancestrali sedimentate nei recessi della memoria e dissepolte dalla forza evocatrice del conato lirico e fantastico.
Anche in questo si epifanizza la terra-madre, in codesta oralità primigenia fusa con i corrugati lineamenti di una piccola ecumene estranea ai terremoti («non tremi»), alle alluvioni («non dilaghi») e, un tempo, alla violenza («non uccidi») della guerra. Insomma «celeste sito». Questo il Salento del poeta, cantato, non senza qualche enfasi liturgico-oleografica, nell’omonima lirica, quasi una canzone in forma di unica lassa, libera nei versi e nella struttura, chiusa da un congedo dove campeggia un’apostrofe poi eponima dell’intera raccolta: «Terra, e Madre tu, pia / mi ritrarrai nel grembo».

Al di là degli esiti artistici, risalta il complesso ordito di figure retoriche e di ricercatezze stilistiche incentrate sugli effetti melici di rime interne, ‘ricche’ e ridondanti (es. lamento, tormento, vento), o baciate (brezza-carezza) o ipermetre (spezzata) fonosimboliche, nel loro consonantismo aspro e cozzante, del «seccore» (hapax in Quasi fili d’erba) di una spazialità petrosa (si osservi il poliptoto: «pietre, sulle pietre») e ruvida come le «forti mani» che ne sterrano la «schiena».
E nel segno delle serre salentine, nella cui «schiena spezzata» si ipostatizzano quelle dei loro figli di una volta («i vecchi forèsi» di C’è terra e terra), «zappa e polmoni tra le mani (in I quattro cipressi, dedicata al padre), fa capolino, nella luce tenera e soffusa del tramonto, il pensiero della morte. Terra-Madre-Morte i connettivi del tessuto ideologico macrotestuale. Appartengono a pieno titolo a questo trittico le seguenti liriche: Il sentiero inclina; La pèntuma (ricca di segni ormai canonici, intrinseci, ad esempio, all’erbario e al bestiario di Donato Moro cui è dedicato un lungo frammento: papaveri, lombrichi, cozzepinte, monicelle, zappe, aratri, buoi, cavalli, pane scuro, pomodoro acerbo), Terrarossa terranera, dove affiorano, integrandosi, folklore e sacro («a novene, nelle chiese, ai santi»), al pari di Cantilena per S. Anna, Fermata a S. Barbara, Belle occhi neri (tarantismo e…dintorni), Finché agosto passerà e, più avanti, Lumi ad olio, mentre in un orizzonte slargato, lontano dalle piccole mura, si iscrive il trittico: Salento-Milano, Brume di Stoccolma, Oltre per il mondo.

Le altre sezioni (Intra moenia, I vecchi dietro i vetri, Chiare nubi) si presentano meno legate al tema dominante nella prima (la terra-madre) e risultano strutturate secondo uno schema politematico nel quale spesso irrompe un canto di religioso amore (A Te; Lampade) o di tristezza esistenziale (Dolore, Lasciami morire) o di ultraterrena, salvifica attesa di una Terra promessa, ma non ancor posseduta.

Qui si segnalano, per mia contiguità di affetti e di memorie, le liriche A Donato Moro e Di chi la voce, dedicata a Lucio Romano. Non senza omettere un breve cenno alla ‘ungarettiana’ Madre immeritata, poesia-preghiera che coniuga tempo ed eternità.
Sempre casto e sorvegliato lo stile, forse più aderente, nelle ultime sezioni, a una maggiore maturità poetica per più amabile, immediata e discorsiva armonia.

terra, e madre

C’È TERRA E TERRA

C’è terra e terra, dove polvere
e sassi, silenzi e recessi;
e dove fonti e fronde
e tracce d’oscure fatiche:
i cavi nei tronchi degli ulivi,
i cocci rossi di ciotole e pipe,
le selci nei campi accumulate
con ossi di capra spolpati le sere
delle feste comandate, ed echi
di stornelli cantati da vecchi forèsi.


QUASI FILI D’ERBA

Rispunti a versi quasi fili d’erba
così da un crepuscolo all’altro,
ed orli di verde, fatuo, la chianca
della pena; non ti so, poesia,
né realtà né emblema, meno ancora
verità o autorevole parere, se mai
pietosa ipocrisia a simulare
una ragione di pertinenza alla vita;

se risecchisce la tua pianta, in me
un oscillare tra labile memoria
ed amnesia totale, a illudere
chi cerca il frutto sulla cima,
deludere chi la trova depredata
anche del suo fiore. O tu sei,
poesia, di quest’erba mediterranea vile
il verde, mortale e vivissimo,
che allerta a non disertare allora
che il seccore incombe e lo squallore.


PAROLA

Parola, non ti chiedo
d’umiliarti, strisciarmi ai piedi,
sta, e io ti lascio, al tuo posto di nobiltà,
al senso alla misura che ti sei
nel tempo e contro il tempo conquistati;
se da te saprò trarre immagine o pensiero,
ala dopo ala decolleremo
in una zolla minuscola di cielo
intorno a noi di grazia, di mistero.


IL RITORNO

Il ritorno nella stanza della madre
un universo vuoto, cresciutovi
buono per la terra e a mungere
sei vacche cuntegnuse beddhe
come le sei stelle della “T di Teresina”;
cadenti gl’intonaci, il padre vi fissava
a lapis o a carbone i conti del tabacco,
il dare e l’avere dei giorni di vendemmia;
di chi il podere col suo archetto
a olivi, l’incavo di fichi e gelsi,
la carrara a cicoreddhe creste ai bordi…

Tonfa il cuore al calpestio sulle chianche
annerite e rotte, da crepe della volta
a botte soffia una nenia, sarà
il tempo remoto
che urge ancora.


CUORE DI ROSPO

Versi un po’ per gioco un po’ per canto,
voci semplici, mare è il mare, rospo
è il rospo, fiore è il fiore, così:
su una foglia il rospo
teme a distanza il mare, e il ventre
gli si gonfia nel rivo in piena,
in bocca un fiore di stagno cui si tiene.
Si direbbe ben gli sta temere,
visto ch’è un rospo, senza cuore,
fosse un topino… Poetica,
sai che ti dico, salutiamoci,
senza rancore.


LA PÈNTUMA

Dalle sue bocche sparse fiori
di papavero, piogge di stagione
e la sbavano cozzepinte,
la scalano lombrichi e monicelle

la grande selce in odio a zappe e aratri
ai tempi di buoi e cavalli, rissavano
òmmani e bestie ed era vita.

Terre scàpule terre scerse,
un torso nudo, uno,
curvo a sterro di múscari,
e su una pèntuma del pendio japigio
un forèse, uno, strizza su un pane scuro
un pomodoro acerbo.

   
   
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