Marzo 2003

UTOPIA POSSIBILE?

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La pace perpetua
Paul Kennedy Docente di Storia alla Yale University
 
 

Si può concludere che il conflitto, cioè la soluzione delle dispute per mezzo della forza armata, sta per diventare un relitto della storia?

 

Sono trascorsi poco più di duecento anni dalla pubblicazione del saggio “Per la pace perpetua” di Immanuel Kant. Il grande filosofo sosteneva che se le nazioni fossero progredite verso forme di governo più repubblicate (cioè democratiche), avessero aumentato la loro interdipendenza economica e si fossero date un quadro di diritto internazionale più saldo, avrebbero capito che ricorrere ai conflitti militari era sempre più insensato.
Se Kant fosse ancora vivo, certamente giudicherebbe incoraggianti i progressi compiuti dal genere umano negli ultimi due secoli. Quando egli scrisse quelle pagine, nessun Paese era autenticamente democratico. Oggi, invece, 121 dei 192 Paesi del mondo sono definiti “democrazie elettorali”: lo conferma l’ultimo rapporto di Freedom House, l’organizzazione di New York che effettua il monitoraggio dei diritti umani e dei movimenti democratici nel mondo. Nel 1991 i Paesi così definiti erano soltanto 76.

La storia fornisce validi elementi per concludere che le democrazie non si fanno la guerra tra di loro: preferiscono comporre le dispute con la trattativa, così come risolvono le divergenze politiche interne con le elezioni o con le leggi. Pertanto, è logico ritenere che, quanto più crescerà il numero delle democrazie, tanto più diminuiranno le probabilità di guerra.

Per di più, in questi ultimi decenni l’interdipendenza economica si è accresciuta a ritmi sbalorditivi. Essa lega i Paesi fra loro, o quanto meno impedisce loro di fare a pezzi i partners commerciali. Europa e America possono avere dispute commerciali, ma le loro economie dipendono a tal punto l’una dall’altra che il compromesso resta la via obbligata. Per giunta, l’Europa, gli Stati Uniti e molti altri Paesi sono così inseriti in una rete kantiana di organismi internazionali, che un atto unilaterale di aggressione diventa sempre meno plausibile. Si può allora concludere che il conflitto, cioè la soluzione delle dispute per mezzo della forza armata, sta per diventare un relitto della storia?


Ahimè, né i precedenti del decennio successivo alla guerra fredda né le prospettive del mondo per gli anni a venire ci inducono a sperare che si avveri il sogno di Kant: la pace perpetua. Negli ultimi dieci anni si sono combattute più guerre fra Stati e più guerre civili (in Ruanda, Sierra Leone, Bosnia, Armenia, Perù, Cambogia, Timor Est, Indonesia, Cecenia, Afghanistan, Iraq, Sudan, e molte altre) di quante ce ne siano state in qualsiasi decennio a partire, più o meno, da un certo punto del XIX secolo. E gli Stati Uniti, sebbene la loro opinione pubblica sia contraria alla guerra all’estero, fra il 1991 e il 2003 si sono posti alla guida di due coalizioni belliche e hanno preso parte a operazioni di “peacekeeping” di ogni sorta. L’uso della forza, quindi, è in aumento.
Perché? I motivi che mi vengono in mente sono numerosi e inquietanti. In primo luogo, su questo pianeta non tutti pensano che morire e uccidere il prossimo sia un male. Per esempio, i giovanotti che alla guida degli aerei si sono schiantati l’11 settembre contro le torri del World Trade Center non la pensavano in questo modo, e i loro seguaci sembrano in aumento.
In secondo luogo, occorre tener presente che le tensioni locali rinfocolano le condizioni di conflitto in ogni parte del mondo. Pensiamo per esempio alle pressioni demografiche che affliggono alcune delle regioni più tormentate. Se, come si prevede, nei prossimi cinquant’anni la popolazione del Pakistan aumenterà da 145 a 345 milioni, come potrà il suo tessuto sociale sopportare questo stress? E che importanza hanno le perdite di vite umane, quando il prezzo della vita è tanto basso e le persone così disperate?
Infine c’è un nuovo e interessante motivo per supporre che l’uso della forza non verrà meno; e qui torniamo alla posizione tutta speciale della Repubblica americana e del suo potere nel mondo. La tesi avanzata da esperti di strategia di tutto rispetto è questa: la dura sconfitta con mezzi hightech subìta dai talebani conferma che la cosiddetta “rivoluzione” delle cose militari, dovuta all’uso dei satelliti e delle “armi intelligenti”, non fa che accrescere la tendenza degli americani a considerare la guerra come un’attività facile e poco costosa. La sindrome del Vietnam è cosa del passato.

A Washington imperversa il dibattito sull’opportunità di rovesciare alcuni satrapi nel Vicino e Lontano Oriente, e molti ammoniscono che ciò potrà avere conseguenze politiche, diplomatiche e regionali imprevedibili, ma pochi dicono che atti del genere provocheranno perdite intollerabili fra le forze americane, come sta avvenendo ora in Iraq. Forse sono pessimista. Forse l’era della pace perpetua è dietro l’angolo. Nel nostro mondo affascinante e contraddittorio vivono miliardi di persone che vorrebbero trasformare le spade in aratri. Il problema è che invece molti non vogliono, e costoro non spariranno poi tanto presto.

   
   
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