Si può concludere che il conflitto, cioè
la soluzione delle dispute per mezzo della forza armata, sta per
diventare un relitto della storia?
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Sono trascorsi poco più di duecento anni dalla pubblicazione
del saggio Per la pace perpetua di Immanuel Kant. Il
grande filosofo sosteneva che se le nazioni fossero progredite verso
forme di governo più repubblicate (cioè democratiche),
avessero aumentato la loro interdipendenza economica e si fossero
date un quadro di diritto internazionale più saldo, avrebbero
capito che ricorrere ai conflitti militari era sempre più
insensato.
Se Kant fosse ancora vivo, certamente giudicherebbe incoraggianti
i progressi compiuti dal genere umano negli ultimi due secoli. Quando
egli scrisse quelle pagine, nessun Paese era autenticamente democratico.
Oggi, invece, 121 dei 192 Paesi del mondo sono definiti democrazie
elettorali: lo conferma lultimo rapporto di Freedom
House, lorganizzazione di New York che effettua il monitoraggio
dei diritti umani e dei movimenti democratici nel mondo. Nel 1991
i Paesi così definiti erano soltanto 76.
La storia fornisce validi elementi per concludere che le democrazie
non si fanno la guerra tra di loro: preferiscono comporre le dispute
con la trattativa, così come risolvono le divergenze politiche
interne con le elezioni o con le leggi. Pertanto, è logico
ritenere che, quanto più crescerà il numero delle
democrazie, tanto più diminuiranno le probabilità
di guerra.
Per di più, in questi ultimi decenni linterdipendenza
economica si è accresciuta a ritmi sbalorditivi. Essa lega
i Paesi fra loro, o quanto meno impedisce loro di fare a pezzi i
partners commerciali. Europa e America possono avere dispute commerciali,
ma le loro economie dipendono a tal punto luna dallaltra
che il compromesso resta la via obbligata. Per giunta, lEuropa,
gli Stati Uniti e molti altri Paesi sono così inseriti in
una rete kantiana di organismi internazionali, che un atto unilaterale
di aggressione diventa sempre meno plausibile. Si può allora
concludere che il conflitto, cioè la soluzione delle dispute
per mezzo della forza armata, sta per diventare un relitto della
storia?
Ahimè, né i precedenti del decennio successivo alla
guerra fredda né le prospettive del mondo per gli anni a
venire ci inducono a sperare che si avveri il sogno di Kant: la
pace perpetua. Negli ultimi dieci anni si sono combattute più
guerre fra Stati e più guerre civili (in Ruanda, Sierra Leone,
Bosnia, Armenia, Perù, Cambogia, Timor Est, Indonesia, Cecenia,
Afghanistan, Iraq, Sudan, e molte altre) di quante ce ne siano state
in qualsiasi decennio a partire, più o meno, da un certo
punto del XIX secolo. E gli Stati Uniti, sebbene la loro opinione
pubblica sia contraria alla guerra allestero, fra il 1991
e il 2003 si sono posti alla guida di due coalizioni belliche e
hanno preso parte a operazioni di peacekeeping di ogni
sorta. Luso della forza, quindi, è in aumento.
Perché? I motivi che mi vengono in mente sono numerosi e
inquietanti. In primo luogo, su questo pianeta non tutti pensano
che morire e uccidere il prossimo sia un male. Per esempio, i giovanotti
che alla guida degli aerei si sono schiantati l11 settembre
contro le torri del World Trade Center non la pensavano in questo
modo, e i loro seguaci sembrano in aumento.
In secondo luogo, occorre tener presente che le tensioni locali
rinfocolano le condizioni di conflitto in ogni parte del mondo.
Pensiamo per esempio alle pressioni demografiche che affliggono
alcune delle regioni più tormentate. Se, come si prevede,
nei prossimi cinquantanni la popolazione del Pakistan aumenterà
da 145 a 345 milioni, come potrà il suo tessuto sociale sopportare
questo stress? E che importanza hanno le perdite di vite umane,
quando il prezzo della vita è tanto basso e le persone così
disperate?
Infine cè un nuovo e interessante motivo per supporre
che luso della forza non verrà meno; e qui torniamo
alla posizione tutta speciale della Repubblica americana e del suo
potere nel mondo. La tesi avanzata da esperti di strategia di tutto
rispetto è questa: la dura sconfitta con mezzi hightech subìta
dai talebani conferma che la cosiddetta rivoluzione
delle cose militari, dovuta alluso dei satelliti e delle armi
intelligenti, non fa che accrescere la tendenza degli americani
a considerare la guerra come unattività facile e poco
costosa. La sindrome del Vietnam è cosa del passato.
A Washington imperversa il dibattito sullopportunità
di rovesciare alcuni satrapi nel Vicino e Lontano Oriente, e molti
ammoniscono che ciò potrà avere conseguenze politiche,
diplomatiche e regionali imprevedibili, ma pochi dicono che atti
del genere provocheranno perdite intollerabili fra le forze americane,
come sta avvenendo ora in Iraq. Forse sono pessimista. Forse lera
della pace perpetua è dietro langolo. Nel nostro mondo
affascinante e contraddittorio vivono miliardi di persone che vorrebbero
trasformare le spade in aratri. Il problema è che invece
molti non vogliono, e costoro non spariranno poi tanto presto.
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