Marzo 2003

COSTITUZIONE EUROPEA

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Ultima chance
Valéry Giscard d’Estaing
 
 

 

 

 

I membri
della Convenzione
dovranno proporre la futura Costituzione europea
rispondendo, senza pregiudizi né tabù,
a tutte le richieste sollevate nella fase di ascolto.

 

Spesso, dallo scranno dal quale presiedo, mi dico che lo spettacolo che si svolge davanti ai miei occhi non è molto diverso da quello del “Jeu de paume” nell’ora del famoso giuramento della Pallacorda o della Sala dell’Indipendenza di Filadelfia tra il maggio e il settembre 1787. Lo spettacolo è quello di un gruppo di uomini e donne, simili a molti altri, ai quali lo scadenzario della storia ha imposto di cercare e stabilire le regole che permetteranno alla loro società di organizzarsi su basi giuste e durature. Questo crea tra di loro – che lo sentano o no – una forte solidarietà, poiché insieme conosceranno il successo o il fallimento.
Le modalità di designazione dei 105 membri della Convenzione europea, (uomini dei governi, dei Parlamenti nazionali, del Parlamento europeo e della Commissione), hanno creato tre correnti al suo interno.
C’è innanzitutto la corrente “bruxellese”, composta dai rappresentanti della Commissione e del Parlamento europeo. Costoro sono a proprio agio nel sistema. Dispongono di collaboratori e di uffici, hanno frequenti occasioni d’incontro e hanno già lavorato sui dossier che la Convenzione deve affrontare. Essi si preoccupano innanzitutto dei problemi istituzionali.


La seconda corrente è quella dei parlamentari nazionali. Sono numericamente maggioritari (56 su 105), ma il loro esordio alla Convenzione è stato più difficile. Arrivano in ordine sparso dai diversi Stati dell’Unione (Paesi membri o candidati) e a Bruxelles non dispongono né di collaboratori né di strumenti di lavoro, nonostante gli sforzi per procurarli a tutti. Molti non hanno alcuna esperienza europea.

La terza corrente è quella dei rappresentanti dei governi. Costoro hanno spesso esercitato funzioni importanti in Europa o nel loro Paese: presidente della Commissione europea, primo ministro, ministro degli Esteri o degli Affari europei. La loro condizione presenta una certa ambiguità: partecipano ai lavori a titolo personale o esprimono il punto di vista dei governi che li hanno designati?

Dopo l’ondeggiamento iniziale, mi sembra che si sia affermato uno spirito “convenzionale”. Tutti i delegati hanno prestato grande attenzione, perché ciascuno ha coscienza che le proposte della Convenzione saranno sottoposte al giudizio critico dei governi, per poi essere adottate. Gli uni e gli altri, a parte rare eccezioni, sono degli eletti del popolo e appartengono alla classe politica. Sono abituati a lavorare sui progetti di legge e la loro cultura li porta a interessarsi dei problemi istituzionali, cioè dell’organizzazione dei poteri.
In qualche modo sono “strutturalmente” lontani dai problemi dei cittadini che, nei sondaggi che noi utilizziamo per il nostro lavoro, si rivelano molto più interessati ai “risultati” dell’azione dell’Unione europea in termini di efficacia, semplicità e trasparenza, che non ai miglioramenti da portare alla macchina interna.

La fase di ascolto, che ha occupato i primi quattro mesi di lavoro, era importante per ridurre questo scarto tra l’approccio della Convenzione e le attese dei cittadini e si è conclusa con un primo dibattito sul posto dell’Europa nel mondo. La Convenzione anticipa, nella sua composizione, l’Europa allargata. E questo funziona. L’atteggiamento comune (dei rappresentanti degli Stati inclusi nell’allargamento) è il senso di appartenenza a un’identica Europa: condividono la stessa visione e si pongono le medesime domande. Nessuno ha preso posizione contro l’allargamento, nessuno ha proposto di tornare indietro su ciò che è ormai acquisito nella costruzione europea. Neppure gli euroscettici, a dire il vero, sottorappresentati per via del meccanismo di selezione dei membri della Convenzione.
Le linee di forza dello sviluppo dell’Unione europea negli ultimi anni del XX secolo (l’attuazione del mercato unico, la volontà di rendere l’economia europea più competitiva, anche l’introduzione dell’euro) non sono state oggetto di critiche, a parte alcune a proposito dell’economia sociale di mercato e del ruolo dei servizi pubblici.
Infine, un’ultima – e singolare – osservazione: non abbiamo sentito nessuna richiesta di estensione delle competenze comunitarie sul piano interno dell’Unione. Le sole richieste riguardano le competenze verso l’esterno. Sebbene si sia molto parlato del bisogno di una maggiore efficacia nell’esercizio delle missioni dell’Unione per quanto concerne libertà, sicurezza, giustizia e azione dell’Europa nel mondo, non abbiamo sentito nessuna richiesta di estensione delle competenze comunitarie “classiche” sul piano interno dell’Unione. Quando si è parlato di politica sociale, non sono state richieste “competenze nuove”. Questo costituisce un cambiamento considerevole rispetto al clima che regnava nella conferenza intergovernativa che ha preceduto il Trattato di Maastricht. Dovremo tenerne conto.

I membri della Convenzione hanno preso coscienza che alla fine del loro mandato dovranno proporre la futura Costituzione europea rispondendo, senza pregiudizi né tabù, a tutte le richieste sollevate nella fase di ascolto. La Costituzione prenderà giuridicamente la forma di un Trattato, perché sono gli Stati che dovranno sottoscriverla.

C’è poi una richiesta di minore introspezione. I padri fondatori degli anni Cinquanta erano rivolti verso l’esterno: i loro obiettivi erano quelli di metter fine ai conflitti in Europa, ricostruire le economie distrutte e affermare valori comuni. Oggi, con la globalizzazione, i membri della Convenzione e la società civile chiedono una presenza più solida dell’Europa nel mondo per difendere questi valori comuni, oltre a un sistema di sicurezza più coerente per proteggerla dalle nuove minacce esterne, come il terrorismo, la criminalità transfrontaliera o l’immigrazione illegale.

   
   
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