Marzo 2003

I CONTI DEI VENTICINQUE

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Chi vince - Chi perde
S.B.
 
 

 

 

 

La tentazione
di relegare l’Italia
in una posizione sempre più
mediterranea
attraversa capitali come Parigi, Vienna e Berlino.

 

L’ingresso nell’Unione dei nuovi dieci Paesi membri ci costerà 26 euro a testa. E’ il risultato della divisione per ognuno degli abitanti della “vecchia” Ue dei 40,3 miliardi di euro che alimentano il pacchetto economico fissato al vertice di Copenaghen per accompagnare la prima fase dell’allargamento.
Quella che coprirà i tre anni dal 2004 – ingresso effettivo dei dieci – al 2006. Ma se il calcolo matematico è esatto ed è servito politicamente per forzare in nome della generosità le resistenze di chi voleva risparmiare, quando si tireranno davvero le somme economiche della costruzione della Grande Europa i costi non saranno uguali per tutti. E non saranno uguali nemmeno i guadagni.
Governi, imprenditori, economisti stanno cercando di rispondere a una domanda molto semplice: chi può ricavare vantaggio e chi rischia di perdere posizioni? La risposta, tuttavia, non è altrettanto semplice. Perché tante sono le variabili da qui al primo maggio 2004. Molto dipenderà da quello che i Quindici – da soli e tutti insieme – riusciranno a fare nell’anno e qualche mese che ancora mancano alla nascita vera e propria della Ue a 25.

I terreni sui quali è già cominciata la corsa a riposizionarsi sono tutti strategici. Dalla rete dei nuovi collegamenti Ovest-Est, che sarà decisiva per i commerci, fino alla riforma della politica agricola comune.

Se si fotografa la situazione di oggi, è evidente che i benefici maggiori appaiono destinati alla fascia di Paesi che confinano con i nuovi – in particolare la Germania – e che hanno la maggiore forza sia produttiva sia commerciale. In questa classifica l’Italia gioca nelle posizioni di mezzo, danneggiata soprattutto dal problema dei collegamenti: per conquistare nuovi mercati bisogna prima raggiungerli, senza spese di trasporto eccessive.
C’è, poi, il problema dello sviluppo delle aree del Mezzogiorno, che potrebbero perdere i fondi strutturali, che finiranno ad Est, e che s’intreccia alla grande questione agricola. C’è il delicato capitolo del costo del lavoro, che incide sulla competitività. E c’è la concorrenza che alcuni dei nuovi Stati membri si preparano a sferrare anche su terreni imprevisti, come i servizi bancari.

Il muro delle Alpi, che già pesa sui traffici tra l’Italia e la Ue attuale, rischia di allontanarci dal grande mercato dell’Europa centrale.
E’ vero che renderà la vita difficile anche all’arrivo dei prodotti a basso costo con i quali Polonia, Ungheria, Paesi Baltici, Slovacchia e Repubblica Ceca sperano di entrare nel mercato italiano. Ma, secondo i calcoli del Centro studi svizzero Litra, ad un esportatore polacco costerà comunque meno – per effetto delle tariffe chilometriche più economiche – portare in Italia un carico di vodka di quanto non costerà ad un esportatore italiano portare in Polonia un carico di vestiti, tanto per fare un esempio.

Ma in ogni caso, il mercato unico europeo non può essere strozzato da barriere di questo genere. A Copenaghen l’Italia si è battuta perché la Ue assicuri uno “sviluppo bilanciato” delle reti di comunicazione transeuropee. Nel 1994 furono identificati dieci “corridoi” per unire Ovest ed Est. Di questi, due interessano particolarmente l’Italia: il numero 5, da Barcellona a Kiev; e il numero 8, da Bari al Mar Nero. Per il 5 è essenziale la collaborazione di Francia (per la Lione-Torino), Austria e Germania (per il nuovo Brennero), ma i nostri partner non sembrano eccessivamente interessati ad accelerare.

La tentazione di relegare l’Italia in una posizione sempre più mediterranea attraversa capitali come Parigi, Vienna e Berlino. Con l’Austria, poi, c’è l’interminabile lite sugli “ecopunti”, che riduce il trasporto su strada.

Anche quello dei fondi strutturali è un terreno sul quale la previsione è di perdere posizioni con l’ingresso dei dieci nuovi Paesi. I fondi servono per aiutare le regioni meno sviluppate dell’Unione, ma delle 56 nuove regioni che entreranno complessivamente, ben 52 sono sotto la media. Non solo: con l’allargamento, il reddito pro-capite dell’Europa a 25 scenderà da 23.200 a 19.600 euro. Il risultato sarà che le regioni del Mezzogiorno italiano diventeranno statisticamente “ricche” e perderanno i fondi a partire dal 2007, quando scadrà l’attuale regime. Per evitare una simile prospettiva – che preoccupa anche la Germania per i suoi Länder orientali – l’Italia ha ottenuto un impegno di principio a Copenaghen. Ma la partita resta aperta.
Ma è nel campo dell’agricoltura che si attende lo scossone più forte. Nella Grande Europa ci saranno nove milioni di agricoltori in più e altri sessanta milioni di ettari di superficie coltivata: quattro volte quella italiana. Quasi tutta concentrata tra Polonia e Ungheria. Con un gran numero di addetti per ettaro (quindici in Polonia, contro i sette in Italia) e con salari molto più bassi. Anche con standard di produzione – soprattutto nell’allevamento – ancora non al livello di quelli della Ue a 15. Nell’accordo di adesione ci sono due anni di “periodo transitorio” in cui le autorità di Bruxelles terranno sotto controllo qualità, sicurezza, tutela delle denominazioni d’origine.
Come nel settore primario, anche nell’industria e nei servizi la competitività dei nuovi Paesi membri è determinata in parte considerevole da un costo del lavoro molto più basso. Non è un caso che da molti anni imprese dei Quindici hanno spostato parte dei loro interessi ad Est, oltre che nella più lontana, e ancora più a buon mercato, Asia. Con l’ingresso nell’Unione, alla distanza, la forbice si ridurrà. Ma certamente nell’immediato il vantaggio – almeno sotto il profilo commerciale – sarà dei nuovi arrivati.
Quando si parla di Grande Europa, si dimentica spesso che i nuovi Paesi entreranno nell’Unione, ma non nell’euro. L’ingresso nella moneta comune non potrà avvenire che dopo due anni di anticamera in un regime di cambi a fluttuazione fissa (lo 0,25 in più o in meno) che scatterà da quando i singoli Paesi ne faranno richiesta. Ci sarà quindi un lungo periodo di regime monetario differenziato.
Qualcuno, poi, potrebbe anche decidere di non aderire all’euro, sull’esempio di Inghilterra, Danimarca e Svezia. Il risultato: i nuovi potranno continuare ad usare quella leva monetaria che può dare una mano alla competitività. Soprattutto quando si tratta di sostenere prodotti che non possono puntare su una qualità superiore.
Ma c’è di più: qualcuno sogna di entrare anche nel dorato giro dei “paradisi” fiscali con attraenti politiche bancarie. E’ il caso dell’Estonia, che punta a rastrellare investimenti.

   
   
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