Marzo 2003

OTTIMISMO (NON) DI MANIERA

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Euro e mercato globale
A.P.
 
 

 

 

 

Se in Borsa si può quotare tutto,
occorre isolare quanti cercano
di spacciare
un ronzino per un purosangue.

 

L’euro, è stato detto, ci protegge dai nostri difetti. Dal primo gennaio 1999 sono cambiate in modo radicale le regole del gioco. Grazie alla moneta comune, e al rispetto dei parametri di Maastricht, che ci impediscono tra l’altro di danneggiare un po’ tutti, più di prima possiamo scegliere qual è il nostro interesse. Possiamo eleggere un governo di cui essere orgogliosi, o di cui vergognarci. Possiamo fare le riforme grazie alle quali il reddito e l’occupazione crescono, oppure tenerci vecchie regole che ostacolano la crescita. Possiamo darci un sistema scolastico meritocratico, grazie al quale gli studenti sono valorizzati al loro meglio, o tenerci un sistema inefficiente, che a caso promuove e boccia.

L’elenco delle scelte è quanto mai lungo e riguarda i principali aspetti della vita economica e sociale. Chi lo ha capito e ha già imparato a trarne il massimo beneficio – vien da pensare all’Irlanda e alla Spagna – sta realizzando un veloce progresso di sviluppo, e di solito parla bene dell’Europa. Chi non lo ha capito – e ce ne sono parecchi in Francia, in Germania e purtroppo anche in Italia – parla male dell’Europa, soprattutto perché non vuole correre i rischi del cambiamento e preferisce attaccarsi a un passato, a volte glorioso, ma senza futuro.
Pensiamo al ruolo di freno che la Francia ha svolto in questi anni ad ogni vertice europeo: invece di porsi, come in passato, alla guida dell’Europa, ha cercato di “proteggere” i francesi dall’Europa, per esempio difendendo i propri “campioni nazionali”, che erano stati i protagonisti di un’epoca fatta di efficienti monopoli pubblici, ma destinati all’estinzione, al modo dei dinosauri.

La lezione francese è quanto mai chiara: stiamo trasferendo funzioni e compiti a una sovranità comune, che possiamo poi usare per valorizzare le nostre virtù o per perpetuare i nostri vizi. Ma se la sbagliamo, la colpa non può essere attribuita all’Europa né all’euro. Basta pensare all’atteggiamento di tanti – anche da noi – nei confronti dell’emigrazione. Non è vietato fare bene le cose: incentivare l’arrivo di immigrati di valore, curare la loro integrazione, evitarne i ghetti. Un minimo di emulazione dovrebbe spingerci a imparare dai Paesi che meglio hanno conciliato i diversi aspetti di questo problema. Basta vedere come sono “attraenti” – nei confronti di tutto il mondo – le migliori università americane!
Allora si può dire, magari provocatoriamente: abbiamo bisogno di più Europa per migliorare l’Italia. Non sarà l’euro, da solo, a garantirci più benessere e un maggiore progresso sociale. Dobbiamo ancora utilizzarlo per selezionare il meglio di ciascuno, per evitare che l’Europa realizzi la previsione di Pangloss: «Plus il y a des malheurs particuliers, et plus tout est bien».
La situazione economica oscilla sul pendolo delle previsioni dei centri di analisi, più o meno prestigiosi, più o meno reputati, siano essi dipendenti da interessate merchant bank, siano connessi ad organismi internazionali quali il Fondo monetario o l’Ocse. La tentazione ricorrente è quella di predicare l’ottimismo ad ogni costo, nella persuasione che ciò serva a scongiurare atteggiamenti negativi da parte dei consumatori e degli investitori. Operazione ardua, perché la crisi argentina e l’instabilità cronica del Vicino Oriente insinuano note stonate nelle canzoni proposte dai vocalisti dell’economia mondiale.
Gli investimenti, dunque, sono guardinghi e i consumi manifestano stanchezza. Forse si tratta di una pausa, prima di una nuova corsa, ma tant’è: il presidente della Federal Reserve tiene i tassi di interesse molto bassi, ha inondato i mercati di dollari e prosegue l’espansione della massa monetaria per costringere il cavallo a bere. I cittadini, le imprese e persino la finanza pubblica hanno raggiunto livelli straordinari di indebitamento.

I consumatori adesso recalcitrano, sembra non vogliano esagerare nei comportamenti da cicale spensierate, cominciano a comprare meno auto e meno beni di consumo, nonostante sconti, dilazioni di pagamento, possibilità di acquisire dollari a costo zero o sotto zero. Quando il denaro costa poco o niente gli assets si rivalutano, secondo i manuali e gli insegnamenti della storia. Accade invece che ci sia una voglia di aquisizione minima, mentre prevale la tendenza a mantenere o a procurare liquidità, in attesa di migliori opportunità.
Il calo dei profitti, alcuni fallimenti eclatanti, l’esibizione di forme non isolate di malcostume finanziario che si è cercato di coprire e di sconfiggere, richiamano i protagonisti dell’economia e della finanza all’assunzione di posizioni maggiormente prudenti. Non è detto che sia finito il tempo favorevole ai manager spregiudicati, legati alle sorti dell’impresa che spesso impoveriscono, arricchendo se stessi in termini monetari e di potere, scarsamente controllati da azionisti fragili e frammentati, da investitori miopi, da organismi di vigilanza sonnolenti e talvolta collusi. E’ tuttavia vero che si sta registrando una riluttanza nuova e benvenuta a cavalcare l’«esuberanza irrazionale dei mercati».
Vuol dire che le imprese dovranno offrire risultati economici e non politici, che i bilanci dovranno rispondere ai criteri propri del buon investitore e non dell’ingordo speculatore? E’ auspicabile una ragionevole attenzione ai fondamentali dell’impresa, ai suoi dati immediati e alle prospettive, ai margini, alla qualità dei prodotti e alle quote di mercato. Dovrebbe avviarsi al crepuscolo l’ora della “irresponsabilità” dei manager, non partecipi al rischio d’impresa, ma avidi di potere personale e percettori di numerosi emolumenti in ogni caso. Drammatico l’insegnamento che viene dai casi dei dirigenti irresponsabili della Enron, di Kirch, della Arthur Andersen. L’elenco, purtroppo, dovrebbe essere lunghissimo, senza trascurare l’Italia.
Non tutti, come è accaduto al leader della Abb, Percy Barnevick, sono stati costretti a restituire milioni di euro malguadagnati, non certamente legati alle prestazioni del gruppo che malandrinamente dirigevano.
Siamo persuasi che la Borsa e le attività finanziarie possano e debbano dare impulso alle imprese manifatturiere e commerciali, riterremmo deprecabile mettere camicie di Nesso, anacronistiche cinture di castità alla cosiddetta speculazione finanziaria, di per sé e in giuste dosi utile, o comunque non disdicevole. La speculazione però non deve essere truccata, i protagonisti devono evitare droghe. Se in Borsa si può quotare tutto purché non si ingannino gli investitori dicendo il falso o nascondendo il vero, occorre isolare quanti cercano di spacciare un ronzino per un purosangue. Una “cultura” degli affari che mescoli il grano e il loglio avvelena tutti, distrugge valore per tutti.


Contribuiscono all’intorbidamento delle acque anche coloro i quali esaltano il valore di un’azienda solo in quanto sia “contendibile”, vale a dire per le sue labili strutture proprietarie che, in genere, favoriscono giochi di potere, coloro che valutano l’impresa non per la qualità dei prodotti, per la solidità dell’azionariato e per i mezzi che esso pone a disposizione della crescita, per i profitti, per le prospettive di sviluppo. Queste deformazioni tendono alla distorsione dei valori fondamentali che dovrebbero essere alla base della singola impresa, che dovrebbero indirizzare la politica economica di una nazione gravida di futuro.

L’approdo alla Seconda Repubblica non è stato ancora raggiunto nella politica e nella politica economica. Si parla troppo di potere e lo si persegue dissipando risorse, disperdendo energie in battaglie ideologiche su falsi idoli, si persegue meno l’efficienza e meno ancora la modernizzazione del sistema. Si esaltano gli equilibrismi tesi alla riconquista del potere, o al suo mantenimento, trascurando i fondamentali che una seria cultura istituzionale e imprenditoriale dovrebbe prediligere e avvalorare.
Imprese e proprietà solide, redditizie per margini operativi, provviste di liquidità o con indebitamenti fisiologici, in grado di espandersi e di ottenere validi risultati, è quanto istituzioni, investitori e risparmiatori dovrebbero imparare a premiare e non le strutture enfiate al nandrolone dalle evoluzioni di dirigenti che poco rischiano in proprio e molto dilapidano dell’altrui ricchezza, edificando organizzazioni attraenti solo perché dotate di proprietà deboli e perciò contendibili.

   
   
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