Marzo 2003

INTELLETTUALI: MERCATI MONDIALI, MODELLI NAZIONALI

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Le ragioni del malessere
Ernest van den Haag
Docente di Filosofia politica alla New York University
 
 

 

 

 

 

La società
non può fare a meno della guida degli
intellettuali,
benché a volte sembri che sia
il cieco a guidare
il cieco.

 

Le persone la cui principale attività è inventare e manipolare idee vengono chiamate intellettuali. Si dividono, peraltro, in due specie: intellettuali per vocazione, che inventano nuove idee, e intellettuali per posizione, che le divulgano e generalmente se ne occupano di seconda mano, innalzandosi a volte sopra la mediocrità, a volte anche più in alto.
Col diffondersi dell’istruzione imposto dal progresso tecnologico, il numero degli intellettuali d’ogni tipo è molto cresciuto. Professori di scienze umane e di scienze sociali, professori di diritto, giornalisti, letterati, artisti e critici, tutti costoro hanno diritto al titolo. Coloro i quali lavorano nelle scienze fisiche o scienze esatte (per esempio, i matematici) non vengono di solito definiti intellettuali. Così, nel parlare comune, un professore di inglese è un intellettuale, ma un Premio Nobel per la chimica non lo è (questa bizzarra classificazione è relativamente nuova).
Benché siano stati sempre pochi, gli intellettuali per vocazione sono esistiti fin dai tempi di Platone e di Aristotele e, da Platone in poi, gli intellettuali hanno pensato che a loro toccava governare il mondo, o almeno la società e lo Stato. Platone voleva che i filosofi fossero re o viceversa (ai suoi tempi gli intellettuali si chiamavano filosofi). Da allora e fino ad oggi, gli intellettuali hanno sempre patito il fatto che la società, pur spesso influenzata dalle loro idee, ben di rado abbia loro affidato il potere. Hanno trovato difficile accettare che le persone che acquisiscono ricchezza e potere non siano scelte in base alle qualità morali e mentali che gli intellettuali stessi presumono di possedere. Quando gli intellettuali sono andati al governo in qualità di leader rivoluzionari, sono stati il più delle volte sostituiti molto in fretta da burocrati affamati di potere. Il fato di Robespierre e dei rivoluzionari russi è illuminante.

Nel saggio Why do intellectuals oppose capitalism?, Robert Nozick (1997) argomenta che gli intellettuali in erba sarebbero talmente premiati nelle scuole secondarie, dove la loro superiore abilità mentale è apprezzatissima dagli insegnanti, da sentirsi traditi quando entrano nel mondo degli affari o delle professioni. Tale sarebbe l’abitudine a veder riconosciuta la loro superiorità nell’ambiente scolastico, che questo riconoscimento finirebbe con l’esser percepito come un diritto e darebbe luogo a risentimento qualora le loro superiori qualità non venissero adeguatamente apprezzate. Questo stato d’animo alla fine li indurrebbe a rivoltarsi contro il sistema capitalista, che nega loro ciò a cui ritengono di aver diritto.
Penso che la tesi di Nozick sia sbagliata per due ragioni. La sua idea che il mondo degli affari non riconosca e non promuova l’intelligenza è fattualmente errata. Nella maggior parte dei casi una grande intelligenza fa fare rapidamente carriera, il che non esclude che quelli che rimangono indietro si sentano amareggiati. Inoltre, e quel che più importa, ritengo che Nozick sia completamente in errore nel pensare che la scuola premi senza riserve l’intelligenza superiore alla media. Nelle scuole secondarie, il prestigio dipende in buona misura dalla popolarità. Le capacità intellettuali possono essere un vantaggio come uno svantaggio. Gli insegnanti possono ben apprezzarle, ma a scuola essere popolari tra gli insegnanti non è poi così importante per gli studenti, che tendono piuttosto a preoccuparsi del loro prestigio fra i coetanei.
Anche all’università il prestigio va più facilmente ai non-intellettuali. Perché le capacità intellettuali servano ad acquisire prestigio e aiutino a far carriera, bisogna aspettare i corsi post-laurea. Se i diplomati delle scuole secondarie sono delusi dal mondo nel quale si diplomano, come sostiene Nozick, è probabile che ciò avvenga perché si scoprono incapaci di soddisfare le domande di quel mondo, visto che la scuola ben di rado chiede di impegnarsi nell’acquisire e usare capacità vicine alla genialità.

Nel Medioevo, gli intellettuali assunsero un atteggiamento critico nei confronti della ricerca di beni materiali, ossia di benessere e ricchezza. La Chiesa, che dava loro lavoro, era critica anch’essa. Le obiezioni, tuttavia, non erano rivolte al sistema economico o alle sue flagranti diseguaglianze. L’ostilità degli intellettuali al sistema economico divenne generale nell’Ottocento, col diffondersi del capitalismo. Fu allora che Henri Murger pubblicò Scènes de la vie de Bohème, che Giacomo Puccini musicò non molto tempo dopo. In una delle prime scene dell’opera, i bohèmiens – aspiranti artisti, scrittori e poeti – si godono una festa rumorosa nell’appartamento che condividono. Compare il proprietario dell’alloggio a chiedere l’affitto arretrato. I bohèmiens lo scherniscono aspramente, finché quello, sconfitto, si ritira. Da allora in poi, proprietari terrieri, banchieri, industriali e creditori hanno fatto costantemente parte degli anti-eroi nella narrativa e nelle arti in genere. Con l’eccezione per qualche verso ironica di Major Barbara di George Bernard Shaw, non mi risulta che vi sia un solo eroe capitalista nella narrativa. I “cattivi”, invece, abbondano.
Perché gli intellettuali sono ostili al sistema capitalista? Dopo tutto, il capitalismo ha innalzato gli standard di vita generali (e in particolare quello dei poveri) fino a livelli mai raggiunti in precedenza, e ha ridotto la quantità di fatica e costrizione prima inevitabili. E’ senza dubbio il sistema economico di maggior successo che il mondo abbia mai conosciuto. Eppure, suscita tra gli intellettuali un’ostilità anch’essa senza precedenti. Dal Medioevo in poi, moralisti e uomini di Chiesa in coro hanno additato al disprezzo la peccaminosa motivazione del ricco, che mostra di preferire il “sordidum lucrum” alla salvezza eterna. Anche più peccaminosi, poi, sono i motivi di coloro che si sforzano di “diventare ricchi”, dei mercanti che, a differenza dei nobili e dei contadini, commerciano per ricavarne profitto. Il “motivo del profitto” dei capitalisti viene tuttora assai poco apprezzato, nonostante la sua utilità.

I sistemi precedenti erano fondati sul “pretium justum”, su una minima mobilità sociale e su una minima ambizione a mantenere la pace sociale, ma a tali sistemi si riconosceva la sanzione divina. L’economia di libero mercato, invece, che si fonda sui profitti e sulla massima mobilità, non viene percepita come moralmente accettabile. Le diseguaglianze che essa crea vengono vissute come immeritate e inique. L’idea che il successo economico sia segno della grazia divina, un tempo diffusa tra i calvinisti, non ha quasi più corso. Il sistema economico capitalista sembra ingiusto e certo non si crede che sia istituito e benedetto da Dio. Benché le attività produttive remunerate dal capitalismo abbiano un ovvio merito economico, appaiono del tutto prive di merito morale, se non addirittura esplicitamente immorali. Dopo tutto, dal punto di vista delle motivazioni, sono dirette a fini egoistici. A differenza delle attività di governo, non vengono intraprese altruisticamente, al servizio delle comunità. Vengono invece intraprese – orrore! – per amore del privato guadagno, del profitto. Gli intellettuali amano l’altruismo e disprezzano l’egoismo, chiamato anche avidità, per utile che possa essere. Ritengono, contro ogni evidenza, che le azioni dei governi siano motivate esclusivamente dalla preoccupazione per il bene pubblico. Considerano il sistema economico capitalista – di nuovo, contro ogni evidenza – come un gioco a somma zero. I capitalisti che hanno successo vengono perciò giudicati come profittatori senza scrupoli, che sfruttano gli altri.

In verità, non vi è nessuna ovvia giustificazione morale del fatto che un industriale dotato di talento o fortuna diventi ricco, mentre un soldato coraggioso, o un’infermiera piena di abnegazione, un artista o uno scienziato, un lavoratore manuale scrupoloso e, non dimentichiamolo, un accademico, fatichi ad arrivare alla fine del mese. Né il ricco né il povero appaiono aver moralmente meritato la loro sorte.

Nel passato le diseguaglianze, per quanto immeritate, venivano attribuite all’imperscrutabile volontà di Dio o, più tardi, alla natura ineluttabile. Oggi vengono spesso attribuite all’ineguaglianza delle opportunità, capro espiatorio preferito per la spiegazione di ogni sorta di diseguaglianze di fatto. Gli intellettuali che inveiscono contro di esse, tuttavia, sono ben di rado consapevoli che se potessimo davvero rendere identiche le opportunità, se la linea di partenza fosse davvero la stessa per tutti (cosa che la natura non produce mai e a cui la società può solo approssimarsi), avremmo probabilmente risultati più ineguali di quelli che abbiamo oggi, perché i talenti e le vocazioni dei singoli variano moltissimo. Variano perciò anche i risultati dei loro sforzi e il valore loro attribuito dal mercato. Le ineguaglianze possono essere redistribuite, non eliminate. Il divario tra il ricco e il povero che gli intellettuali deplorano così intensamente potrebbe addirittura aumentare se ai blocchi di partenza tutti fossero davvero sulla stessa linea. Se anche i redditi fossero in qualche modo livellati mediante la redistribuzione, i poveri non sparirebbero, perché le persone spendono i loro redditi, per eguali che siano, in misure diverse.
Alcuni filosofi contemporanei considerano moralmente riprovevole la “lotteria naturale” che distribuisce in modo diseguale i talenti. Fra le differenze naturali che amerebbero poter in qualche modo livellare, vi è la capacità, nonché la propensione, a compiere sforzi. Entrambe variano da persona a persona e possono contribuire alla povertà di alcuni e alla ricchezza di altri. L’eguaglianza delle opportunità, per quanto desiderabile, non sarebbe qui di molto aiuto, a meno che non si riuscisse a livellare anche la diligenza. Nel migliore dei casi, l’eguaglianza delle opportunità è un fatto di giustizia procedurale, della quale però normalmente si pensa che resti ben al di qua della giustizia sociale, fintanto che permane, come non può non permanere, l’ineguaglianza dei risultati.
Vi è, tuttavia, un’eccezione: la giustizia procedurale tende ad essere considerata soddisfacente quando assume la forma di una vera e propria lotteria. Quando vi è pari diritto e pari capacità di partecipare, e il risultato è indipendente dallo sforzo, dal talento o dalla ricchezza, una lotteria viene percepita come giusta, benché il risultato sia privo di giustificazione morale proprio come lo è quello della “lotteria naturale” di Rawls (1971).
E’ raro, peraltro, che gli intellettuali se la prendano con le lotterie vere e proprie (benché sia possibile considerare le lotterie come imposte progressive che però, a differenza delle imposte autentiche, non è obbligatorio pagare). La “lotteria naturale”, comunque, viene considerata moralmente ingiustificabile “in sé”: e in realtà non si può giustificarla, a meno di pensare che i talenti sono dono di Dio, distribuiti secondo il suo imperscrutabile disegno.
I talenti naturali innati si combinano spesso a vantaggi sociali, sicché si tende facilmente a pensare che non di talenti si tratti, ma del risultato di una diseguaglianza delle opportunità che, per definizione, è ingiusta e può essere annullata con adeguate politiche sociali.
Vincere o perdere per mano di un fato impersonale è accettato (come in passato si accettava la volontà di Dio). I moralisti, però, ossia buona parte degli intellettuali, sono contrari all’ineguaglianza dei risultati – e al sistema che la permette – quando questa pare dovuta all’ineguale distribuzione delle opportunità e dei talenti, e al valore che il mercato arbitrariamente attribuisce ai secondi.

Gli intellettuali hanno la sensazione che dovrebbero essere altamente remunerati. Sentono di meritare non meno degli uomini d’affari, dei giocatori di calcio, dei cantanti o degli attori di Hollywood. Ma il merito morale, che gli intellettuali rivendicano, e il merito economico, che il mercato remunera, ben lungi dall’essere identici, sono in realtà del tutto indipendenti l’uno dall’altro, ed è su questo che gli intellettuali hanno soprattutto da recriminare, anche perché spesso nel merito economico non vedono merito alcuno.
Nel sistema capitalista la struttura socioeconomica – la distribuzione delle diseguaglianze – è non solo indipendente da criteri morali ma anche, con qualche eccezione, sfavorevole agli intellettuali, che detestano comunque il mercato, visto che esso paga solo il valore economico. Il valore morale non viene neppure considerato, e altrettanto si dica degli intellettuali che lo producono e lo divulgano. E tuttavia, il desiderio di un sistema sociale in cui un governo giusto giustamente remuneri i meriti morali, concedendo onori e ricchezze, non può essere soddisfatto. E’ un desiderio inestinguibile, come lo è il grido: «Aperite mihi portas justitiae».
In passato, Iddio voleva un’apparente ingiustizia, e la fede la giustificava. Egli era «giustamente segreto – e segretamente giusto» (Sant’Agostino). Oggi c’è rimasto solo il sistema sociale con cui prendersela. E il sistema sociale non assicura giustizia ultramondana, né può sopravvivere, in ultimo, se è percepito come ingiusto dagli intellettuali e da altri che si sentono svantaggiati, mentre coloro che ne beneficiano si sentono colpevoli.
Il mondo moderno creato dal capitalismo è fondamentalmente secolare nei suoi modi di pensiero. La fede religiosa non è forte e seria abbastanza da riuscire a lenire il risentimento e il disagio morale che derivano dalle ineguaglianze e dalla loro distribuzione. Agli intellettuali può essere rimproverato di aver reso più debole la religione e screditato il sistema socioeconomico.
La loro ostilità non è mai stata interamente riservata al capitalismo: è stata rivolta anche alle fondamenta morali delle nostre società, ed è stata sufficientemente efficace da dar luogo a quel diffuso «disincanto del mondo» di cui parlava Max Weber.
La religione, che certo non metteva sullo stesso piano merito morale e merito economico, non obiettava tuttavia a che i meriti economici ricevessero remunerazioni economiche, considerando che il merito morale, diversamente da quello economico, non aveva bisogno di essere premiato in questo mondo. Così venivano posti limiti all’invidia e alle pretese di eguaglianza o giustizia morale su questa terra. Sarebbe stato nell’aldilà che Dio avrebbe reso «justitia dulcore misericordiae temperata», compensando ogni sofferenza non meritata. La religione non si opponeva ad alcun sistema economico, bensì solo all’enfasi sul miglioramento materiale. Così, psicologicamente (benché non logicamente) poteva sostenere in pratica qualunque status quo.
La legittimità delle diseguaglianze non fu mai seriamente contestata finché la legittimità stessa era concessa dalla tradizione. L’economia di mercato, però, distrugge costumi e credenze tradizionali e sostituisce alla tradizione la propria razionalità mondana. Il capitalismo crede nell’efficienza economica e nel progresso, non nella “pietas” tradizionale. Distrugge, o quanto meno indebolisce, la tradizione morale pre-capitalistica senza offrirne nessun’altra che possa giustificare il sistema. Non offre difesa morale alle obiezioni morali degli intellettuali fondate sull’egualitarismo che fra loro prevale. Se si abbandona, come si dovrebbe, tale egualitarismo, allora il capitalismo risulta moralmente giustificabile.
Il capitalismo, inoltre, ha fatto diminuire la distanza fra le classi superiori e inferiori e ha accresciuto la mobilità dalle une alle altre. Entrare a far parte della classe media e superiore è più facile di quanto sia mai stato.

Ma, contrariamente alle speranze dei riformatori (e ai timori dei rivoluzionari), la minor distanza fra povero e ricco e la diminuzione della quota di poveri hanno in realtà fatto crescere il risentimento. Ricchi e poveri ora consumano gli stessi beni, guardano gli stessi film e spettacoli televisivi e viaggiano, in auto o in aereo, verso le stesse destinazioni. Le differenze sono diventate minime: uno viaggia in prima classe, l’altro in classe turistica. Tuttavia, quanto più le distanze sociali si riducono in numero e in estensione, tanto più appaiono intollerabili. I miglioramenti generano spesso aspettative di miglioramenti ulteriori e le aspettative corrono più veloci dei progressi reali, sicché alla fine eccedono le possibilità.
Ogni diseguaglianza che si riduce è la dimostrazione che quelle residue non sono inevitabili: e perciò ogni passo in tale direzione che non raggiunga la – irraggiungibile – eguaglianza assoluta viene percepito come inadeguato. Ciò che è abituale è considerato inevitabile e l’inevitabile è tollerato. Ma l’inadeguato, la promessa non mantenuta, suscita sempre risentimento; ed è per questo che il risentimento, a cui soprattutto gli intellettuali hanno dato voce, è cresciuto. E il fenomeno, quando viene riconosciuto, o giustificato, ben raramente è inteso per quello che è: l’effetto della diminuzione della povertà. Considerare l’uno effetto dell’altro appare paradossale, perché è l’opposto di quel che ci attenderemmo. Quando i ricchi e i poveri erano “due nazioni” (per dirla con le parole di Disraeli in Sybil), i poveri avevano conoscenza diretta, e dunque invidia, molto più gli uni degli altri, che nei confronti dei ricchi, socialmente troppo distanti perché si potesse invidiarli. Non più isolati da distanze sociali enormi e apparentemente invalicabili, i poveri oggi condividono con il resto della società i modi di vedere più diffusi: condividono, in particolare, le aspirazioni di consumo dei non-poveri, che la TV tutti i giorni gli porta a casa. Mancano, però, dei mezzi necessari a soddisfare nella misura desiderata tali aspirazioni e provano risentimento verso ciò che stanno imparando a percepire come “deprivazione”. E altrettanto fanno gli accademici che, se non poveri, si sentono certo insufficientemente remunerati.

Privo com’è di controlli manuali visibili, e di persone visibili a manovrarli, il mercato si affida alla mano invisibile, a meccanismi automatici. In passato, quando i prezzi salivano si potevano accusare gli speculatori senza cuore. E’ più difficile (benché non impossibile) farlo oggi. L’assenza di un’autorità direttiva visibile e tangibile, se viene confusa, come normalmente accade, con la mancanza di direzione, suscita spesso l’accusa che il mercato implichi “anarchia della produzione”.
Eppure la mano invisibile dei profitti e delle perdite guida il mercato a rispondere alle domande dei consumatori in maniera assai più immediata di quanto potrebbe farlo una qualsivoglia autorità di pianificazione centrale, se pure volesse (in realtà, non lo vuole: il punto vero della pianificazione consiste nell’imporre piani e priorità del pianificatore ufficiale, facendo fallire quelli dei consumatori). Una molteplicità di piani individuali automaticamente coordinati non viene percepita come “pianificazione”, laddove quella centrale lo è.

Gli intellettuali, di solito, non hanno esperienza e, quel che è peggio, non comprendono gli affari pratici, soprattutto quelli economici. Disprezzano l’immoralità del sistema capitalista, nonostante i suoi risultati economici, e immaginano un sistema che, pur altrettanto produttivo, remunererebbe l’eccellenza morale.
Questo genere di sistemi è stato proposto da Platone in poi, ma non ha mai funzionato. Se non è il mercato a distribuire le remunerazioni economiche, allora una burocrazia dovrà farlo in sua vece. Ma non è probabile che la burocrazia remuneri l’eccellenza morale meglio o con maggior frequenza del mercato: non remunererà il merito economico, come fa il mercato, bensì le capacità di manipolazione burocratica e politica. Si avrà una considerevole perdita di efficienza e gli intellettuali, fautori della “pianificazione” e convinti che sarebbero stati fra i pianificatori, si ritroveranno più probabilmente fra i pianificati, magari con qualche comfort, se rinunziano all’esercizio della critica.

Una delle doglianze più in voga contro il capitalismo è la “mercificazione” della maggior parte delle cose. Ed è vero che il mercato dà un prezzo a quasi tutto ciò che può essere commerciato; e quasi tutto può esserlo. Il prezzo di mercato dipende dalla domanda e dall’offerta, non dal valore estetico o morale. Inoltre, il mercato tende a rendere le cose economicamente fattibili, per uniche che siano in termini estetici o morali. I professori hanno un prezzo di mercato (dal quale dipende il loro reddito) e i libri che scrivono possono diventare bestseller oppure no. Se lo diventano, il prezzo di mercato dei professori crescerà: ma gli intellettuali non gradiscono la dipendenza dal mercato.
Alcuni (di solito, coloro il cui valore di mercato è basso) si sentono ridotti al loro valore di mercato e trascurati in quanto persone e in quanto intellettuali. L’unicità dei loro contributi non è apprezzata; e, per come la vedono, il valore dei loro contributi è qualche volta inversamente proporzionale al prezzo che il mercato attribuisce loro.
Eppure la sensazione che le persone siano “ridotte a merci” non rende giustizia alla situazione. Dopo tutto, i chimici si occupano delle sostanze in termini della loro composizione chimica senza ridurle a prodotti chimici. I medici guardano ai loro pazienti in termini del loro funzionamento fisico, senza ridurli a questo. Così il mercato può trattare cose, o persone, in termini del loro valore di mercato, senza con ciò ridurle ad esso. Questo non significa che l’accusa di mercificazione sia del tutto infondata. Col capitalismo, molte più cose che in passato sono entrate nel mercato (esseri umani esclusi). Il mercato invade buona parte della nostra vita, provocando effetti culturali che contribuiscono al disagio degli intellettuali.

Benché col capitalismo industriale le persone siano più libere e prospere di quanto siano mai state, la produttività culturale, invece, ha sofferto. New York è molto più grande della Firenze del Rinascimento o della Venezia medioevale, per non parlare dell’Atene classica; ma, per più piccole e meno prospere che fossero, queste città erano tutte culturalmente più produttive di New York. Perché?
Assumendo che il talento sia distribuito più o meno equamente nel tempo e nello spazio, si può azzardare questa ipotesi. Il capitalismo ha creato per la cultura di massa un mercato mai esistito in precedenza. Tale mercato assorbe e distoglie coloro che potenzialmente sarebbero in grado di contribuire all’alta cultura e che quindi si rivolgono alle masse, invece di tendere alla creazione di prodotti unici, di maggior valore estetico ma meno redditizi. Un compositore decide di creare musica popolare, quando invece avrebbe potuto comporre musica paragonabile a quella del passato. Un architetto progetta aeroporti o supermercati invece di cattedrali (ben poche sono, nel nostro tempo, le costruzioni monumentali di un qualche valore estetico). Il fenomeno di dirottamento dei talenti verso il mercato di massa è appena cominciato, ma già contribuisce alla marginalizzazione dell’arte e degli artisti ad esso estranei. Abbiamo molti più comfort di quanti ce ne fossero in passato, ma ci sentiamo più a disagio, in parte perché tutti noi alimentiamo il mercato di massa e ne siamo a nostra volta alimentati. Può ben essere che ciò tenda a prosciugare le energie creative e renda tutti noi, ma soprattutto gli intellettuali, più agiati ma meno soddisfatti.

In Capitalism, socialism and democracy, Joseph Schumpeter (1942) aveva predetto che il capitalismo, indebolito dal suo stesso successo, sarebbe stato sostituito dal socialismo. Il tempo ha dimostrato che la profezia era sbagliata. Il socialismo, e non il capitalismo, è crollato. Schumpeter, tuttavia, vide con chiarezza il conflitto fondamentale fra efficienza economica (con conseguenti livelli di vita più elevati) e bisogno sociale di stabilità e tradizione.
L’ottimo economico, cui il capitalismo tende per sua propria natura, non è compatibile con qualsivoglia ottimo sociale, e nemmeno con un livello minimo di stabilità sociale. Come gli economisti non si stancano mai di ricordare, l’efficienza economica ottima si realizza con l’assoluta libertà degli scambi, quando beni, capitali e persone sono perfettamente liberi di spostarsi là dove possono essere usati nel modo più efficiente per far crescere il reddito. Tuttavia, se il commercio fosse totalmente libero, avremmo un mondo in cui intere popolazioni migrerebbero dalla Cina o dall’India sovrappopolate verso il continente nordamericano, relativamente sottopopolato. I capitali, invece, si sposterebbero in direzione opposta. Dall’una all’altra grande regione del mondo, i salari diverrebbero assai più eguali di quanto siano attualmente.
La “globalizzazione” spinge appunto in questa direzione. Tuttavia, è assai improbabile che la libertà degli scambi diventi mai assoluta. Ben prima di raggiungere il livello ottimo di efficienza economica, interverranno ostacoli politici a rallentare e infine bloccare il libero flusso di popoli, capitali e merci. Già solo una prima approssimazione – in termini relativi assai imperfetta – all’obiettivo dell’efficienza economica complessiva basta a provocare dislocazioni economiche che coinvolgono “stranieri”, il che a sua volta suscita atteggiamenti di risentimento nazionalistico. Le dislocazioni finora avvenute e quelle previste hanno già suscitato proteste, guidate da personaggi quali Sir James Goldsmith in Inghilterra, Pat Bucanan negli Stati Uniti, figure simili altrove. Gli argomenti economici dei protestatari sono chiaramente sbagliati. La globalizzazione a cui si oppongono promuove l’efficienza complessiva e perciò migliora gli standard di vita a livello mondiale, tendendo a livellarli.

Si può addirittura pensare che la globalizzazione faccia giustizia: dopo tutto, perché un bambino dovrebbe essere deprivato solo per il fatto di essere nato in India, mentre un bambino americano o europeo gode di privilegi incalcolabili solo per essere nato negli Stati Uniti o in Europa? Non vi è teoria morale che possa giustificarlo. Eppure la globalizzazione, che potrebbe porvi rimedio, suscita sentimenti a dir poco ambigui. Nessuno vuole davvero la piena libertà degli scambi.
Benché i loro argomenti economici siano sbagliati, le conclusioni dei critici della società attuale, intellettuali compresi, hanno qualche fondamento. Le politiche a cui si oppongono generano non solo penose dislocazioni economiche (verosimilmente temporanee), ma, inevitabilmente, finiscono anche con l’erodere identità e culture nazionali. Costumi, atteggiamenti e idee tradizionali ne verrebbero radicalmente cambiati. Così, è improbabile che l’opposizione politica a un regime di assoluta libertà degli scambi venga superata. Tale opposizione è giustificata da argomenti, se non economici, culturali. L’ideale economico dell’efficienza globale, ottimo economico, risulta, come si è detto, semplicemente incompatibile con l’ottimo sociale, o anche con una non più che modica stabilità.
Gli intellettuali hanno sempre insistito sul fatto che nelle società capitaliste si sacrifica troppo all’efficienza. Possono ben aver colto nel segno, benché le loro argomentazioni si fondino spesso su idee economiche fallaci. Gli economisti hanno troppo a lungo trascurato l’indispensabile ingrediente non-razionale necessario alla coesione sociale. Tendono ad essere razionalisti. E’ paradossale che proprio gli intellettuali di formazione letteraria, largamente responsabili dell’erosione dei collanti non-razionali delle nostre società – compresi la religione, il nazionalismo e molte altre tradizioni – debbano essere coloro che danno voce al malessere suscitato da politiche ascrivibili, in ultima analisi, a quello stesso razionalismo di cui sono stati fautori.

L’antichità greco-romana produsse civiltà fiorenti, nonostante l’assenza di un Dio morale trascendente che avrebbe punito i loro peccati. Che la nostra civiltà, che ha sperimentato il Cristianesimo, possa sopravvivere al suo abbandono, è una questione aperta. Molti intellettuali, per intanto, si volgono nostalgici al socialismo che, per loro, ha sostituito la religione, pur mancando della fede in una vita oltre la morte. Costoro, compresi i marxisti di tutte le specie, hanno trovato rifugio nelle nostre università. Molti sono rimasti (o sono diventati) cripto-marxisti, pur essendo il loro più un atteggiamento mentale che una teoria. E l’influenza culturale del marxismo è ancora forte, soprattutto nelle classi medie. Chiunque non sia abbastanza di sinistra è “fascista”, e si diffondono derivati del marxismo quali il “decostruzionismo”, il “femminismo radicale”, la “political correctness”.
Per descrivere il rapporto tra la società e gli intellettuali, Schumpeter usò la metafora del cieco e del suo cane vedente. L’analogia è corretta. La società non può fare a meno della guida degli intellettuali, benché a volte sembri che sia il cieco a guidare il cieco. Gli intellettuali sono tutt’altro che una massa omogenea. Vi sono fra loro grandi differenze, nonostante alcune caratteristiche comuni. La critica degli intellettuali e delle loro teorie, se fondata, non può che provenire da altri intellettuali e da altre teorie.

   
   
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