La società
non può fare a meno della guida degli
intellettuali,
benché a volte sembri che sia
il cieco a guidare
il cieco.
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Le persone la cui principale attività è inventare
e manipolare idee vengono chiamate intellettuali. Si dividono, peraltro,
in due specie: intellettuali per vocazione, che inventano nuove
idee, e intellettuali per posizione, che le divulgano e generalmente
se ne occupano di seconda mano, innalzandosi a volte sopra la mediocrità,
a volte anche più in alto.
Col diffondersi dellistruzione imposto dal progresso tecnologico,
il numero degli intellettuali dogni tipo è molto cresciuto.
Professori di scienze umane e di scienze sociali, professori di
diritto, giornalisti, letterati, artisti e critici, tutti costoro
hanno diritto al titolo. Coloro i quali lavorano nelle scienze fisiche
o scienze esatte (per esempio, i matematici) non vengono di solito
definiti intellettuali. Così, nel parlare comune, un professore
di inglese è un intellettuale, ma un Premio Nobel per la
chimica non lo è (questa bizzarra classificazione è
relativamente nuova).
Benché siano stati sempre pochi, gli intellettuali per vocazione
sono esistiti fin dai tempi di Platone e di Aristotele e, da Platone
in poi, gli intellettuali hanno pensato che a loro toccava governare
il mondo, o almeno la società e lo Stato. Platone voleva
che i filosofi fossero re o viceversa (ai suoi tempi gli intellettuali
si chiamavano filosofi). Da allora e fino ad oggi, gli intellettuali
hanno sempre patito il fatto che la società, pur spesso influenzata
dalle loro idee, ben di rado abbia loro affidato il potere. Hanno
trovato difficile accettare che le persone che acquisiscono ricchezza
e potere non siano scelte in base alle qualità morali e mentali
che gli intellettuali stessi presumono di possedere. Quando gli
intellettuali sono andati al governo in qualità di leader
rivoluzionari, sono stati il più delle volte sostituiti molto
in fretta da burocrati affamati di potere. Il fato di Robespierre
e dei rivoluzionari russi è illuminante.
Nel saggio Why do intellectuals oppose capitalism?, Robert Nozick
(1997) argomenta che gli intellettuali in erba sarebbero talmente
premiati nelle scuole secondarie, dove la loro superiore abilità
mentale è apprezzatissima dagli insegnanti, da sentirsi traditi
quando entrano nel mondo degli affari o delle professioni. Tale
sarebbe labitudine a veder riconosciuta la loro superiorità
nellambiente scolastico, che questo riconoscimento finirebbe
con lesser percepito come un diritto e darebbe luogo a risentimento
qualora le loro superiori qualità non venissero adeguatamente
apprezzate. Questo stato danimo alla fine li indurrebbe a
rivoltarsi contro il sistema capitalista, che nega loro ciò
a cui ritengono di aver diritto.
Penso che la tesi di Nozick sia sbagliata per due ragioni. La sua
idea che il mondo degli affari non riconosca e non promuova lintelligenza
è fattualmente errata. Nella maggior parte dei casi una grande
intelligenza fa fare rapidamente carriera, il che non esclude che
quelli che rimangono indietro si sentano amareggiati. Inoltre, e
quel che più importa, ritengo che Nozick sia completamente
in errore nel pensare che la scuola premi senza riserve lintelligenza
superiore alla media. Nelle scuole secondarie, il prestigio dipende
in buona misura dalla popolarità. Le capacità intellettuali
possono essere un vantaggio come uno svantaggio. Gli insegnanti
possono ben apprezzarle, ma a scuola essere popolari tra gli insegnanti
non è poi così importante per gli studenti, che tendono
piuttosto a preoccuparsi del loro prestigio fra i coetanei.
Anche alluniversità il prestigio va più facilmente
ai non-intellettuali. Perché le capacità intellettuali
servano ad acquisire prestigio e aiutino a far carriera, bisogna
aspettare i corsi post-laurea. Se i diplomati delle scuole secondarie
sono delusi dal mondo nel quale si diplomano, come sostiene Nozick,
è probabile che ciò avvenga perché si scoprono
incapaci di soddisfare le domande di quel mondo, visto che la scuola
ben di rado chiede di impegnarsi nellacquisire e usare capacità
vicine alla genialità.
Nel Medioevo, gli intellettuali assunsero un atteggiamento critico
nei confronti della ricerca di beni materiali, ossia di benessere
e ricchezza. La Chiesa, che dava loro lavoro, era critica anchessa.
Le obiezioni, tuttavia, non erano rivolte al sistema economico o
alle sue flagranti diseguaglianze. Lostilità degli
intellettuali al sistema economico divenne generale nellOttocento,
col diffondersi del capitalismo. Fu allora che Henri Murger pubblicò
Scènes de la vie de Bohème, che Giacomo Puccini musicò
non molto tempo dopo. In una delle prime scene dellopera,
i bohèmiens aspiranti artisti, scrittori e poeti
si godono una festa rumorosa nellappartamento che condividono.
Compare il proprietario dellalloggio a chiedere laffitto
arretrato. I bohèmiens lo scherniscono aspramente, finché
quello, sconfitto, si ritira. Da allora in poi, proprietari terrieri,
banchieri, industriali e creditori hanno fatto costantemente parte
degli anti-eroi nella narrativa e nelle arti in genere. Con leccezione
per qualche verso ironica di Major Barbara di George Bernard Shaw,
non mi risulta che vi sia un solo eroe capitalista nella narrativa.
I cattivi, invece, abbondano.
Perché gli intellettuali sono ostili al sistema capitalista?
Dopo tutto, il capitalismo ha innalzato gli standard di vita generali
(e in particolare quello dei poveri) fino a livelli mai raggiunti
in precedenza, e ha ridotto la quantità di fatica e costrizione
prima inevitabili. E senza dubbio il sistema economico di
maggior successo che il mondo abbia mai conosciuto. Eppure, suscita
tra gli intellettuali unostilità anchessa senza
precedenti. Dal Medioevo in poi, moralisti e uomini di Chiesa in
coro hanno additato al disprezzo la peccaminosa motivazione del
ricco, che mostra di preferire il sordidum lucrum alla
salvezza eterna. Anche più peccaminosi, poi, sono i motivi
di coloro che si sforzano di diventare ricchi, dei mercanti
che, a differenza dei nobili e dei contadini, commerciano per ricavarne
profitto. Il motivo del profitto dei capitalisti viene
tuttora assai poco apprezzato, nonostante la sua utilità.
I sistemi precedenti erano fondati sul pretium justum,
su una minima mobilità sociale e su una minima ambizione
a mantenere la pace sociale, ma a tali sistemi si riconosceva la
sanzione divina. Leconomia di libero mercato, invece, che
si fonda sui profitti e sulla massima mobilità, non viene
percepita come moralmente accettabile. Le diseguaglianze che essa
crea vengono vissute come immeritate e inique. Lidea che il
successo economico sia segno della grazia divina, un tempo diffusa
tra i calvinisti, non ha quasi più corso. Il sistema economico
capitalista sembra ingiusto e certo non si crede che sia istituito
e benedetto da Dio. Benché le attività produttive
remunerate dal capitalismo abbiano un ovvio merito economico, appaiono
del tutto prive di merito morale, se non addirittura esplicitamente
immorali. Dopo tutto, dal punto di vista delle motivazioni, sono
dirette a fini egoistici. A differenza delle attività di
governo, non vengono intraprese altruisticamente, al servizio delle
comunità. Vengono invece intraprese orrore!
per amore del privato guadagno, del profitto. Gli intellettuali
amano laltruismo e disprezzano legoismo, chiamato anche
avidità, per utile che possa essere. Ritengono, contro ogni
evidenza, che le azioni dei governi siano motivate esclusivamente
dalla preoccupazione per il bene pubblico. Considerano il sistema
economico capitalista di nuovo, contro ogni evidenza
come un gioco a somma zero. I capitalisti che hanno successo vengono
perciò giudicati come profittatori senza scrupoli, che sfruttano
gli altri.

In verità, non vi è nessuna ovvia giustificazione
morale del fatto che un industriale dotato di talento o fortuna
diventi ricco, mentre un soldato coraggioso, o uninfermiera
piena di abnegazione, un artista o uno scienziato, un lavoratore
manuale scrupoloso e, non dimentichiamolo, un accademico, fatichi
ad arrivare alla fine del mese. Né il ricco né il
povero appaiono aver moralmente meritato la loro sorte.
Nel passato le diseguaglianze, per quanto immeritate, venivano
attribuite allimperscrutabile volontà di Dio o, più
tardi, alla natura ineluttabile. Oggi vengono spesso attribuite
allineguaglianza delle opportunità, capro espiatorio
preferito per la spiegazione di ogni sorta di diseguaglianze di
fatto. Gli intellettuali che inveiscono contro di esse, tuttavia,
sono ben di rado consapevoli che se potessimo davvero rendere identiche
le opportunità, se la linea di partenza fosse davvero la
stessa per tutti (cosa che la natura non produce mai e a cui la
società può solo approssimarsi), avremmo probabilmente
risultati più ineguali di quelli che abbiamo oggi, perché
i talenti e le vocazioni dei singoli variano moltissimo. Variano
perciò anche i risultati dei loro sforzi e il valore loro
attribuito dal mercato. Le ineguaglianze possono essere redistribuite,
non eliminate. Il divario tra il ricco e il povero che gli intellettuali
deplorano così intensamente potrebbe addirittura aumentare
se ai blocchi di partenza tutti fossero davvero sulla stessa linea.
Se anche i redditi fossero in qualche modo livellati mediante la
redistribuzione, i poveri non sparirebbero, perché le persone
spendono i loro redditi, per eguali che siano, in misure diverse.
Alcuni filosofi contemporanei considerano moralmente riprovevole
la lotteria naturale che distribuisce in modo diseguale
i talenti. Fra le differenze naturali che amerebbero poter in qualche
modo livellare, vi è la capacità, nonché la
propensione, a compiere sforzi. Entrambe variano da persona a persona
e possono contribuire alla povertà di alcuni e alla ricchezza
di altri. Leguaglianza delle opportunità, per quanto
desiderabile, non sarebbe qui di molto aiuto, a meno che non si
riuscisse a livellare anche la diligenza. Nel migliore dei casi,
leguaglianza delle opportunità è un fatto di
giustizia procedurale, della quale però normalmente si pensa
che resti ben al di qua della giustizia sociale, fintanto che permane,
come non può non permanere, lineguaglianza dei risultati.
Vi è, tuttavia, uneccezione: la giustizia procedurale
tende ad essere considerata soddisfacente quando assume la forma
di una vera e propria lotteria. Quando vi è pari diritto
e pari capacità di partecipare, e il risultato è indipendente
dallo sforzo, dal talento o dalla ricchezza, una lotteria viene
percepita come giusta, benché il risultato sia privo di giustificazione
morale proprio come lo è quello della lotteria naturale
di Rawls (1971).
E raro, peraltro, che gli intellettuali se la prendano con
le lotterie vere e proprie (benché sia possibile considerare
le lotterie come imposte progressive che però, a differenza
delle imposte autentiche, non è obbligatorio pagare). La
lotteria naturale, comunque, viene considerata moralmente
ingiustificabile in sé: e in realtà non
si può giustificarla, a meno di pensare che i talenti sono
dono di Dio, distribuiti secondo il suo imperscrutabile disegno.
I talenti naturali innati si combinano spesso a vantaggi sociali,
sicché si tende facilmente a pensare che non di talenti si
tratti, ma del risultato di una diseguaglianza delle opportunità
che, per definizione, è ingiusta e può essere annullata
con adeguate politiche sociali.
Vincere o perdere per mano di un fato impersonale è accettato
(come in passato si accettava la volontà di Dio). I moralisti,
però, ossia buona parte degli intellettuali, sono contrari
allineguaglianza dei risultati e al sistema che la
permette quando questa pare dovuta allineguale distribuzione
delle opportunità e dei talenti, e al valore che il mercato
arbitrariamente attribuisce ai secondi.
Gli intellettuali hanno la sensazione che dovrebbero essere altamente
remunerati. Sentono di meritare non meno degli uomini daffari,
dei giocatori di calcio, dei cantanti o degli attori di Hollywood.
Ma il merito morale, che gli intellettuali rivendicano, e il merito
economico, che il mercato remunera, ben lungi dallessere identici,
sono in realtà del tutto indipendenti luno dallaltro,
ed è su questo che gli intellettuali hanno soprattutto da
recriminare, anche perché spesso nel merito economico non
vedono merito alcuno.
Nel sistema capitalista la struttura socioeconomica la distribuzione
delle diseguaglianze è non solo indipendente da criteri
morali ma anche, con qualche eccezione, sfavorevole agli intellettuali,
che detestano comunque il mercato, visto che esso paga solo il valore
economico. Il valore morale non viene neppure considerato, e altrettanto
si dica degli intellettuali che lo producono e lo divulgano. E tuttavia,
il desiderio di un sistema sociale in cui un governo giusto giustamente
remuneri i meriti morali, concedendo onori e ricchezze, non può
essere soddisfatto. E un desiderio inestinguibile, come lo
è il grido: «Aperite mihi portas justitiae».
In passato, Iddio voleva unapparente ingiustizia, e la fede
la giustificava. Egli era «giustamente segreto e segretamente
giusto» (SantAgostino). Oggi cè rimasto
solo il sistema sociale con cui prendersela. E il sistema sociale
non assicura giustizia ultramondana, né può sopravvivere,
in ultimo, se è percepito come ingiusto dagli intellettuali
e da altri che si sentono svantaggiati, mentre coloro che ne beneficiano
si sentono colpevoli.
Il mondo moderno creato dal capitalismo è fondamentalmente
secolare nei suoi modi di pensiero. La fede religiosa non è
forte e seria abbastanza da riuscire a lenire il risentimento e
il disagio morale che derivano dalle ineguaglianze e dalla loro
distribuzione. Agli intellettuali può essere rimproverato
di aver reso più debole la religione e screditato il sistema
socioeconomico.
La loro ostilità non è mai stata interamente riservata
al capitalismo: è stata rivolta anche alle fondamenta morali
delle nostre società, ed è stata sufficientemente
efficace da dar luogo a quel diffuso «disincanto del mondo»
di cui parlava Max Weber.
La religione, che certo non metteva sullo stesso piano merito morale
e merito economico, non obiettava tuttavia a che i meriti economici
ricevessero remunerazioni economiche, considerando che il merito
morale, diversamente da quello economico, non aveva bisogno di essere
premiato in questo mondo. Così venivano posti limiti allinvidia
e alle pretese di eguaglianza o giustizia morale su questa terra.
Sarebbe stato nellaldilà che Dio avrebbe reso «justitia
dulcore misericordiae temperata», compensando ogni sofferenza
non meritata. La religione non si opponeva ad alcun sistema economico,
bensì solo allenfasi sul miglioramento materiale. Così,
psicologicamente (benché non logicamente) poteva sostenere
in pratica qualunque status quo.
La legittimità delle diseguaglianze non fu mai seriamente
contestata finché la legittimità stessa era concessa
dalla tradizione. Leconomia di mercato, però, distrugge
costumi e credenze tradizionali e sostituisce alla tradizione la
propria razionalità mondana. Il capitalismo crede nellefficienza
economica e nel progresso, non nella pietas tradizionale.
Distrugge, o quanto meno indebolisce, la tradizione morale pre-capitalistica
senza offrirne nessunaltra che possa giustificare il sistema.
Non offre difesa morale alle obiezioni morali degli intellettuali
fondate sullegualitarismo che fra loro prevale. Se si abbandona,
come si dovrebbe, tale egualitarismo, allora il capitalismo risulta
moralmente giustificabile.
Il capitalismo, inoltre, ha fatto diminuire la distanza fra le classi
superiori e inferiori e ha accresciuto la mobilità dalle
une alle altre. Entrare a far parte della classe media e superiore
è più facile di quanto sia mai stato.
Ma, contrariamente alle speranze dei riformatori (e ai timori dei
rivoluzionari), la minor distanza fra povero e ricco e la diminuzione
della quota di poveri hanno in realtà fatto crescere il risentimento.
Ricchi e poveri ora consumano gli stessi beni, guardano gli stessi
film e spettacoli televisivi e viaggiano, in auto o in aereo, verso
le stesse destinazioni. Le differenze sono diventate minime: uno
viaggia in prima classe, laltro in classe turistica. Tuttavia,
quanto più le distanze sociali si riducono in numero e in
estensione, tanto più appaiono intollerabili. I miglioramenti
generano spesso aspettative di miglioramenti ulteriori e le aspettative
corrono più veloci dei progressi reali, sicché alla
fine eccedono le possibilità.
Ogni diseguaglianza che si riduce è la dimostrazione che
quelle residue non sono inevitabili: e perciò ogni passo
in tale direzione che non raggiunga la irraggiungibile
eguaglianza assoluta viene percepito come inadeguato. Ciò
che è abituale è considerato inevitabile e linevitabile
è tollerato. Ma linadeguato, la promessa non mantenuta,
suscita sempre risentimento; ed è per questo che il risentimento,
a cui soprattutto gli intellettuali hanno dato voce, è cresciuto.
E il fenomeno, quando viene riconosciuto, o giustificato, ben raramente
è inteso per quello che è: leffetto della diminuzione
della povertà. Considerare luno effetto dellaltro
appare paradossale, perché è lopposto di quel
che ci attenderemmo. Quando i ricchi e i poveri erano due
nazioni (per dirla con le parole di Disraeli in Sybil), i
poveri avevano conoscenza diretta, e dunque invidia, molto più
gli uni degli altri, che nei confronti dei ricchi, socialmente troppo
distanti perché si potesse invidiarli. Non più isolati
da distanze sociali enormi e apparentemente invalicabili, i poveri
oggi condividono con il resto della società i modi di vedere
più diffusi: condividono, in particolare, le aspirazioni
di consumo dei non-poveri, che la TV tutti i giorni gli porta a
casa. Mancano, però, dei mezzi necessari a soddisfare nella
misura desiderata tali aspirazioni e provano risentimento verso
ciò che stanno imparando a percepire come deprivazione.
E altrettanto fanno gli accademici che, se non poveri, si sentono
certo insufficientemente remunerati.
Privo comè di controlli manuali visibili, e di persone
visibili a manovrarli, il mercato si affida alla mano invisibile,
a meccanismi automatici. In passato, quando i prezzi salivano si
potevano accusare gli speculatori senza cuore. E più
difficile (benché non impossibile) farlo oggi. Lassenza
di unautorità direttiva visibile e tangibile, se viene
confusa, come normalmente accade, con la mancanza di direzione,
suscita spesso laccusa che il mercato implichi anarchia
della produzione.
Eppure la mano invisibile dei profitti e delle perdite guida il
mercato a rispondere alle domande dei consumatori in maniera assai
più immediata di quanto potrebbe farlo una qualsivoglia autorità
di pianificazione centrale, se pure volesse (in realtà, non
lo vuole: il punto vero della pianificazione consiste nellimporre
piani e priorità del pianificatore ufficiale, facendo fallire
quelli dei consumatori). Una molteplicità di piani individuali
automaticamente coordinati non viene percepita come pianificazione,
laddove quella centrale lo è.
Gli intellettuali, di solito, non hanno esperienza e, quel che
è peggio, non comprendono gli affari pratici, soprattutto
quelli economici. Disprezzano limmoralità del sistema
capitalista, nonostante i suoi risultati economici, e immaginano
un sistema che, pur altrettanto produttivo, remunererebbe leccellenza
morale.
Questo genere di sistemi è stato proposto da Platone in poi,
ma non ha mai funzionato. Se non è il mercato a distribuire
le remunerazioni economiche, allora una burocrazia dovrà
farlo in sua vece. Ma non è probabile che la burocrazia remuneri
leccellenza morale meglio o con maggior frequenza del mercato:
non remunererà il merito economico, come fa il mercato, bensì
le capacità di manipolazione burocratica e politica. Si avrà
una considerevole perdita di efficienza e gli intellettuali, fautori
della pianificazione e convinti che sarebbero stati
fra i pianificatori, si ritroveranno più probabilmente fra
i pianificati, magari con qualche comfort, se rinunziano allesercizio
della critica.
Una delle doglianze più in voga contro il capitalismo è
la mercificazione della maggior parte delle cose. Ed
è vero che il mercato dà un prezzo a quasi tutto ciò
che può essere commerciato; e quasi tutto può esserlo.
Il prezzo di mercato dipende dalla domanda e dallofferta,
non dal valore estetico o morale. Inoltre, il mercato tende a rendere
le cose economicamente fattibili, per uniche che siano in termini
estetici o morali. I professori hanno un prezzo di mercato (dal
quale dipende il loro reddito) e i libri che scrivono possono diventare
bestseller oppure no. Se lo diventano, il prezzo di mercato dei
professori crescerà: ma gli intellettuali non gradiscono
la dipendenza dal mercato.
Alcuni (di solito, coloro il cui valore di mercato è basso)
si sentono ridotti al loro valore di mercato e trascurati in quanto
persone e in quanto intellettuali. Lunicità dei loro
contributi non è apprezzata; e, per come la vedono, il valore
dei loro contributi è qualche volta inversamente proporzionale
al prezzo che il mercato attribuisce loro.
Eppure la sensazione che le persone siano ridotte a merci
non rende giustizia alla situazione. Dopo tutto, i chimici si occupano
delle sostanze in termini della loro composizione chimica senza
ridurle a prodotti chimici. I medici guardano ai loro pazienti in
termini del loro funzionamento fisico, senza ridurli a questo. Così
il mercato può trattare cose, o persone, in termini del loro
valore di mercato, senza con ciò ridurle ad esso. Questo
non significa che laccusa di mercificazione sia del tutto
infondata. Col capitalismo, molte più cose che in passato
sono entrate nel mercato (esseri umani esclusi). Il mercato invade
buona parte della nostra vita, provocando effetti culturali che
contribuiscono al disagio degli intellettuali.
Benché col capitalismo industriale le persone siano più
libere e prospere di quanto siano mai state, la produttività
culturale, invece, ha sofferto. New York è molto più
grande della Firenze del Rinascimento o della Venezia medioevale,
per non parlare dellAtene classica; ma, per più piccole
e meno prospere che fossero, queste città erano tutte culturalmente
più produttive di New York. Perché?
Assumendo che il talento sia distribuito più o meno equamente
nel tempo e nello spazio, si può azzardare questa ipotesi.
Il capitalismo ha creato per la cultura di massa un mercato mai
esistito in precedenza. Tale mercato assorbe e distoglie coloro
che potenzialmente sarebbero in grado di contribuire allalta
cultura e che quindi si rivolgono alle masse, invece di tendere
alla creazione di prodotti unici, di maggior valore estetico ma
meno redditizi. Un compositore decide di creare musica popolare,
quando invece avrebbe potuto comporre musica paragonabile a quella
del passato. Un architetto progetta aeroporti o supermercati invece
di cattedrali (ben poche sono, nel nostro tempo, le costruzioni
monumentali di un qualche valore estetico). Il fenomeno di dirottamento
dei talenti verso il mercato di massa è appena cominciato,
ma già contribuisce alla marginalizzazione dellarte
e degli artisti ad esso estranei. Abbiamo molti più comfort
di quanti ce ne fossero in passato, ma ci sentiamo più a
disagio, in parte perché tutti noi alimentiamo il mercato
di massa e ne siamo a nostra volta alimentati. Può ben essere
che ciò tenda a prosciugare le energie creative e renda tutti
noi, ma soprattutto gli intellettuali, più agiati ma meno
soddisfatti.
In Capitalism, socialism and democracy, Joseph Schumpeter (1942)
aveva predetto che il capitalismo, indebolito dal suo stesso successo,
sarebbe stato sostituito dal socialismo. Il tempo ha dimostrato
che la profezia era sbagliata. Il socialismo, e non il capitalismo,
è crollato. Schumpeter, tuttavia, vide con chiarezza il conflitto
fondamentale fra efficienza economica (con conseguenti livelli di
vita più elevati) e bisogno sociale di stabilità e
tradizione.
Lottimo economico, cui il capitalismo tende per sua propria
natura, non è compatibile con qualsivoglia ottimo sociale,
e nemmeno con un livello minimo di stabilità sociale. Come
gli economisti non si stancano mai di ricordare, lefficienza
economica ottima si realizza con lassoluta libertà
degli scambi, quando beni, capitali e persone sono perfettamente
liberi di spostarsi là dove possono essere usati nel modo
più efficiente per far crescere il reddito. Tuttavia, se
il commercio fosse totalmente libero, avremmo un mondo in cui intere
popolazioni migrerebbero dalla Cina o dallIndia sovrappopolate
verso il continente nordamericano, relativamente sottopopolato.
I capitali, invece, si sposterebbero in direzione opposta. Dalluna
allaltra grande regione del mondo, i salari diverrebbero assai
più eguali di quanto siano attualmente.
La globalizzazione spinge appunto in questa direzione.
Tuttavia, è assai improbabile che la libertà degli
scambi diventi mai assoluta. Ben prima di raggiungere il livello
ottimo di efficienza economica, interverranno ostacoli politici
a rallentare e infine bloccare il libero flusso di popoli, capitali
e merci. Già solo una prima approssimazione in termini
relativi assai imperfetta allobiettivo dellefficienza
economica complessiva basta a provocare dislocazioni economiche
che coinvolgono stranieri, il che a sua volta suscita
atteggiamenti di risentimento nazionalistico. Le dislocazioni finora
avvenute e quelle previste hanno già suscitato proteste,
guidate da personaggi quali Sir James Goldsmith in Inghilterra,
Pat Bucanan negli Stati Uniti, figure simili altrove. Gli argomenti
economici dei protestatari sono chiaramente sbagliati. La globalizzazione
a cui si oppongono promuove lefficienza complessiva e perciò
migliora gli standard di vita a livello mondiale, tendendo a livellarli.
Si può addirittura pensare che la globalizzazione faccia
giustizia: dopo tutto, perché un bambino dovrebbe essere
deprivato solo per il fatto di essere nato in India, mentre un bambino
americano o europeo gode di privilegi incalcolabili solo per essere
nato negli Stati Uniti o in Europa? Non vi è teoria morale
che possa giustificarlo. Eppure la globalizzazione, che potrebbe
porvi rimedio, suscita sentimenti a dir poco ambigui. Nessuno vuole
davvero la piena libertà degli scambi.
Benché i loro argomenti economici siano sbagliati, le conclusioni
dei critici della società attuale, intellettuali compresi,
hanno qualche fondamento. Le politiche a cui si oppongono generano
non solo penose dislocazioni economiche (verosimilmente temporanee),
ma, inevitabilmente, finiscono anche con lerodere identità
e culture nazionali. Costumi, atteggiamenti e idee tradizionali
ne verrebbero radicalmente cambiati. Così, è improbabile
che lopposizione politica a un regime di assoluta libertà
degli scambi venga superata. Tale opposizione è giustificata
da argomenti, se non economici, culturali. Lideale economico
dellefficienza globale, ottimo economico, risulta, come si
è detto, semplicemente incompatibile con lottimo sociale,
o anche con una non più che modica stabilità.
Gli intellettuali hanno sempre insistito sul fatto che nelle società
capitaliste si sacrifica troppo allefficienza. Possono ben
aver colto nel segno, benché le loro argomentazioni si fondino
spesso su idee economiche fallaci. Gli economisti hanno troppo a
lungo trascurato lindispensabile ingrediente non-razionale
necessario alla coesione sociale. Tendono ad essere razionalisti.
E paradossale che proprio gli intellettuali di formazione
letteraria, largamente responsabili dellerosione dei collanti
non-razionali delle nostre società compresi la religione,
il nazionalismo e molte altre tradizioni debbano essere coloro
che danno voce al malessere suscitato da politiche ascrivibili,
in ultima analisi, a quello stesso razionalismo di cui sono stati
fautori.

Lantichità greco-romana produsse civiltà fiorenti,
nonostante lassenza di un Dio morale trascendente che avrebbe
punito i loro peccati. Che la nostra civiltà, che ha sperimentato
il Cristianesimo, possa sopravvivere al suo abbandono, è
una questione aperta. Molti intellettuali, per intanto, si volgono
nostalgici al socialismo che, per loro, ha sostituito la religione,
pur mancando della fede in una vita oltre la morte. Costoro, compresi
i marxisti di tutte le specie, hanno trovato rifugio nelle nostre
università. Molti sono rimasti (o sono diventati) cripto-marxisti,
pur essendo il loro più un atteggiamento mentale che una
teoria. E linfluenza culturale del marxismo è ancora
forte, soprattutto nelle classi medie. Chiunque non sia abbastanza
di sinistra è fascista, e si diffondono derivati
del marxismo quali il decostruzionismo, il femminismo
radicale, la political correctness.
Per descrivere il rapporto tra la società e gli intellettuali,
Schumpeter usò la metafora del cieco e del suo cane vedente.
Lanalogia è corretta. La società non può
fare a meno della guida degli intellettuali, benché a volte
sembri che sia il cieco a guidare il cieco. Gli intellettuali sono
tuttaltro che una massa omogenea. Vi sono fra loro grandi
differenze, nonostante alcune caratteristiche comuni. La critica
degli intellettuali e delle loro teorie, se fondata, non può
che provenire da altri intellettuali e da altre teorie.
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