Marzo 2003

NEL NOME DELL’IDEA RURALE

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Contro la tecnologia
Mabel
 
 

 

 

Oggi ai figli di Rousseau non resta che aggrapparsi
a un altro mito, quello della Natura buona e benefica, barbaramente
violentata dalla globalizzazione.

 

Un codice elementare, N30, che significa solo 30 novembre, è ricorrente negli Stati Uniti. Mittente in rete: l’associazione “Global Trade Watch”, espunta da una costola di una delle più antiche organizzazioni in difesa dei consumatori, la “Public Citizens”, fondata da Ralph Nader, colonna ormai in disarmo del luddismo. Il testo:

Seattle, 30 novembre 1999, tre giorni di azione globale, resistenza e festa contro il Wto (World Trade Organization). Invitiamo tutti i soggetti dell’intelligenza collettiva ad organizzare ovunque un sistema di resistenza globale. Scioperi, marce, picchetti, occupazioni non solo a Seattle, non solo in America, ma nell’intero pianeta.

Così, si incontrano qui e là i “professionisti della contestazione”, che trovano nella rivolta alle biotecnologie, alla genetica, alla globalizzazione, l’ultima frontiera della protesta sociale. Il cosiddetto popolo di Seattle è un coacervo di personaggi, di culture, di ideologie, di passioni, omogeneo soltanto in teoria, con un minimo comun denominatore esclusivamente nell’opposizione al libero mercato e allo spirito del capitalismo.
Sotto la patina tecnologica e globalista si cela il cuore, un po’ sbrindellato, dei “nemici della modernità”, con radici che vengono da lontano, visto che affondano nella repubblica aristocratica di Platone e nelle predicazioni apocalittiche del Medioevo, passano per i controriformisti, si fermano alla Ginevra di Rousseau, transitano per l’assoluto hegeliano, si rispecchiano nella filosofia della storia marxiana, percorrono la società asiatica di Lenin e giungono al Sessantotto di Marcuse.
Dopo Seattle, è il turno di Davos, Genova, Sydney, Praga, Porto Alegre... Qualcuno, un francese dell’associazione “Droits devant”, la chiama l’«Internazionale antiliberalista», anche se nel mondo anglosassone fa presa piuttosto l’espressione «Internazionale dei cittadini». Comunque, dall’altra parte della barricata si nota che quell’Internazionale non suona cosa del tutto nuova, e si parla di tradizionali turisti delle cause regolarmente presentate come nobili e altrettanto regolarmente perse, di antiamericani full time, squatter e anarchici, sindacalisti a stelle e strisce, lobbies pesanti anche a Washington, come la “Afl”, la confederazione guidata da Jimmy Hoffa jr., degli autotrasportatori di “Teamster” e del sindacato dell’acciaio “United Steelworkers”. In aggiunta, un po’ di zapatisti che hanno scoperto nel sub-comandante Marcos un surrogato di Che Guevara, e un po’ di ala cattolica che riprende il verbo della Teologia della liberazione.
Ecologia, terra e comunità. Una babele di gruppi mondiali ha trovato nell’ecologia la nuova magica parola d’ordine da sbandierare. Come figura di riferimento etico e sociale, il contadino ha preso il posto dell’operaio. Sulla rete, il punto d’incontro è “Peoples Global Action”, le cui versioni (in inglese, francese, spagnolo, italiano, russo e tedesco) rimandano ad una nebulosa di siti (dal WWF a Greenpeace, ma anche a People Development Forum, ad Amici della Terra, a Rainforest Action Network, ad Humane Society), con un credo generale semplice: – Il Wto è un governo mondiale invisibile e antidemocratico che agisce contro il benessere delle popolazioni e dell’ambiente. I popoli hanno diritto alla sovranità alimentare –.
Uomo simbolo: José Bové, leader della Confédération Paysanne Française. Si fa chiamare “il contadino” e si presenta come un Vercingetorige che resiste alla penetrazione del mercato globale fra le tribù galliche. Non potendo più combattere un Cesare, se la prende con McDonald’s. Il suo simbolismo culturale mette insieme i miti della resistenza magica dei druidi, l’avversione per il consumismo, il sogno di una società tradizionale fondata sulla terra e non sul commercio, l’esasperazione del concetto di “naturale”. La sua è la variante “antagonista” della filosofia comunitaria (Amitai Etzioni, Alasdair MacIntyre, Charles Taylor) che recupera i concetti di “piccole patrie” e di identità territoriale, ma non rifiuta i princìpi del libero mercato. L’ecologismo estremista, al contrario, tende a rappresentarsi sempre più come un’alternativa radicale al sistema, un paradigma inconciliabile con quello della liberaldemocrazia.

Il timore è la possibilità che dalla protesta dura si passi al terrorismo ecologista, scenario in qualche modo prospettato da un film cult della fantascienza spazio-temporale come “L’esercito delle 12 scimmie”.

Sono tornati i luddisti. Quelli che condannano la macchina che si sostituisce all’uomo. La fobia dello sviluppo tecnologico, che nella tradizionale veste luddista crea povertà e disoccupazione, si colora di noir esistenzialista e pesca nella letteratura cyberpunk. Da poco è in libreria l’ultimo romanzo di Bruce Sterling, Zeitgeist, lo spirito dei tempi, che rappresenta un vero e proprio manifesto politico del nuovo ruolo sociale della fantascienza. Tuttavia, se si vuole cogliere lo spirito cyberluddista si devono ascoltare i testi dei “Rage Against The Machine”, dove per Macchina si intende non solo la tecnologia da contrastare, ma il Sistema nel suo complesso. Il luddismo diventa così una sorta di umanesimo post-moderno, che punta a distruggere la cultura tecnologica utilizzando, come antitesi interna, proprio la tecnologia. Loro simbolo, le icone bianche rubate a “L’urlo” di Münch.

Marxismo virtuale. Tre nomi per capire: Noam Chomsky, Paul Krugman, Jeremy Rifkin. Sono loro i punti di riferimento del post-capitalismo, che punta a stabilire, nella sua forma leggera, nuove regole per il gioco economico: – La sostituzione del concetto di profitto con quello di bisogno, il controllo democratico delle attività economiche, lo Stato come organismo tecnico e non come strumento di oppressione –.
Le strategie e gli obiettivi dei post-capitalisti sono sintetizzate da Bifo, al secolo Francesco Berardi, teorico della contestazione mediatica: – Il fulcro della rivolta di Seattle è l’intelligenza collettiva. Il popolo della rete ha chiamato a raccolta il proletariato high tech, e ha creato le condizioni affinché la rivolta deflagrasse nel cuore del sistema mediatico mondiale. Questa non è una rivolta contro la globalizzazione. Tanto è vero che la sua forza sta nel fatto di essere globale, di usare mezzi globali e di sollecitare l’immaginario globale. La globalizzazione deve però essere guidata dal sapere eticamente motivato –. Lo scenario appare post-moderno, ma i princìpi sono tutt’altro che nuovi. C’ è l’eco di quel capitalismo che dovrebbe portare in sé i germi della propria distruzione. Musica vecchia, suonata con altri strumenti.

Luciano Pellicani cita Nietzsche, il quale sostenne che «l’Illuminismo provoca indignazione» perché significa Modernità, che è una rivoluzione permanente generata dal mercato, dalla scienza, dalla tecnologia, dall’individualismo. Nessuno meglio di Marx ha descritto la potenza, allo stesso tempo creativa e distruttiva, della Modernità: – Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca borghese da tutte le precedenti. Tutte le stabili e arrugginite condizioni di vita, con il loro seguito di opinioni e di credenze rese venerabili dall’età, si dissolvono, e le nuove invecchiano prima ancora di aver potuto fare le ossa. Tutto ciò che vi era di stabilito e di rispondente ai vari ordini sociali svapora, ogni cosa sacra viene sconsacrata e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con occhi liberi da ogni illusione la loro posizione nella vita –.
Come diceva Friedrich Schlegel, Modernità significa «disincanto del mondo», quindi vita senza valori sacri. Di qui, l’invito dell’illuminista Max Weber ad accettare stoicamente il fatto che, nell’epoca della secolarizzazione, l’uomo è condannato a «vivere senza Dio e senza profeti». Non il Dio della fede (che attiene al contesto del “santo”), ma l’archetipo che attiene al “sacro”, simbolo della tradizione circolare, immutabile, che non dà spazio all’individuo, non lo fa protagonista della storia, che non può scegliere, ma deve ripercorrere un tracciato già scritto.
E’ esattamente ciò che gli “orfani di Dio” vivono come una catastrofe intollerabile. Ciò suscita in loro una forte ira contro la rivoluzione permanente capitalistica, che tutto travolge: istituzioni, costumi, interessi, valori, sentimenti, e via dicendo, tutto rinnovando. Fu il Rousseau il primo a dare dignità teorica all’indignazione contro la Modernità, e pertanto gli attuali contestatori della globalizzazione vanno considerati come discendenti diretti del “divino Jean Jacques”. Un tempo, costoro contestavano la Gesellschaft (società) borghese in nome della Gemeinschaft (comunità) proletaria. Guru: Herbert Marcuse, l’intellettuale del Gran Rifiuto che additava nella Ragione illuministica la perversa potenza che aveva generato una “società oscena”, animata da “falsi bisogni” e asservita agli imperativi funzionali dell’apparato scientifico-tecnologico.

Rovinosamente collassato il mito della Rivoluzione Totale, oggi ai figli di Rousseau non resta che aggrapparsi a un altro mito, quello della Natura buona e benefica, barbaramente violentata dalla globalizzazione.
Cioè: resta inalterata la fonte esistenziale e morale della rivolta contro la Modernità, e riemerge il desiderio romantico di vivere in una comunità armoniosa e compatta, fondamentalisticamente rurale, in perfetto accordo con la Natura, per la negazione di un mondo dominato da potenze impersonali e amorali, quali il mercato e la tecnologia scientificamente orientata. A differenza dei riformisti, però, questi anti-global profeti della rivoluzione assoluta non ideano i meccanismi istituzionali per disciplinare in qualche modo il processo di modernizzazione; la loro è una protesta globale, come globale è la rivoluzione permanente capitalistica. E’ una negazione secca, che rifiuta pregiudizialmente la discussione e il compromesso. Non è una risposta costruttiva – afferma Pellicani – ma la manifestazione virulenta del disagio esistenziale che la Modernità genera ad ogni tappa della sua metamorfosi espansiva. E d’altronde, non potrebbe essere diversamente. Chi anela a realizzare l’assoluto in terra, non può non guardare con orrore al trionfo dello spirito borghese, come ha sostenuto Berdjaev.
I nuovi economisti dell’anticapitalismo ecologista non comprendono la realtà perché dispongono di strumenti concettuali inadeguati. Essi identificano il mercato con le sue rappresentazioni neoclassiche e con la logica unidimensionale dell’“homo oeconomicus”, ignorando i fondamentali contributi teorici della scuola austriaca (si pensi, in particolare, a Ludwig von Mises). Sulle orme di Nicholas Georgescu-Roegen, essi presumono di salvare gli schemi della macroeconomia classica integrandoli con i cosiddetti “valori” ambientali.
Anche il loro concetto di riforme è approssimato. Per gli ambientalisti, avremmo bisogno di politiche ispirate allo sviluppo sostenibile perché le risorse sarebbero scarse. Sfornando montagne di cifre, dicono che l’umanità avrebbe solo tot barili di petrolio, tot tonnellate di rame, o di carbone, o tot metri cubi di gas, e via di seguito; e che per questo motivo sarebbe necessario limitare la libertà individuale.
Niente di meno vero. Come von Mises ha spiegato in L’azione umana, le risorse esistono soltanto quando alcuni uomini le fanno emergere dal nulla. Il petrolio fu un liquido nero che sporcava il deserto, fino a quando l’ingegno di alcuni individui non dimostrò che poteva essere utile per far funzionare motori o scaldare abitazioni. Di fatto, noi non conosciamo le dimensioni dei beni potenzialmente a nostra disposizione: essi saranno tanto maggiori, quanto più gli uomini saranno liberi di scoprirli e di valorizzarli.
Il piatto materialismo ecologista ignora il ruolo della creatività individuale, e in questo modo pone le premesse a politiche autoritarie. Non a caso gli esiti ideologici dell’ambientalismo sono tutti nel solco delle peggiori filosofie della Modernità politica. E la pratica ecologista radicale è stata ed è costantemente ossessionata dal più funesto mito che ha dominato il Novecento: quello della “pianificazione”. Ancora oggi, malgrado l’esperienza del passato, la retorica verde pretende sempre nuovi piani: locali, territoriali, paesaggistici, urbanistici, e via dicendo.
Proprio da qui proviene la vocazione globalista dell’ecologismo, secondo cui dal momento che i problemi ambientali sarebbero di dimensione cosmica, dovremmo accettare la prospettiva di un governo unico mondiale – al più con qualche concessione per il “glocale”, cioè un globale che lasci qualche spazio a dimensioni localistiche – posto a tutela delle foche monache e incaricato di perseguire duramente ogni profanatore della biosfera. Dietro agli incontri di Rio e di Kyoto è facile scorgere l’ombra inquietante di una simile prospettiva orwelliana.

   
   
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